mercoledì 31 agosto 2011

Gli avvenimenti del 1831.



È l'anno del rifiuto di Ferdinando II di Borbone alla corona di re d'Italia, e del fallimento definitivo dei moti carbonari.

1° gennaio - A Modena viene fissata da Ciro Menotti la data dell'insurrezione per il 5 febbraio: si nutre fiducia nell'appoggio della Francia e nel sostegno dello stesso duca di Modena Francesco IV indicato dallo stesso Menotti come futuro re della costituenda monarchia costituzionale del Regno d'Italia..
26 gennaio - Il re di Francia Luigi Filippo assicura l'aiuto ai carbonari in caso di intervento austriaco.

Luigi Filippo I° di Borbone-Orleans.
2 febbraio - Viene eletto papa, Mauro Cappellari, bellunese, con il nome di Gregorio XVI.
Papa Gregorio XVI°

3 febbraio - Ciro Menotti da il via dell'azione, da svilupparsi simultaneamente a Modena, Bologna, Firenze e Parma. Il duca Francesco IV non corrispose all'aspettativa dei cospiratori. Stroncò sul nascere la rivolta ed i suoi soldati circondarono la casa dove Menotti era asserragliato con gli altri 41 carbonari. Menotti tenta la fuga da una finestra, ma viene arrestato. Viene poi processato ed impiccato il 26 maggio, insieme con Vincenzo Borelli.
4 - 5 febbraio - Scoppiano moti anche ad Imola, Faenza, Reggio Emilia, Forlì, Bologna, Ferrara. A Cesena, Rimini e Ravenna ci sono scontri a fuoco. I pochi soldati del Papa ricevono l'ordine di ripiegare.
6 febbraio - Bologna vive tre giorni di rivolta, con morti e feriti. Il legato pontificio lascia la città, sulle cui torri vengono innalzate le bandiere tricolori. Il gruppo di liberali dichiara decaduto il potere temporale del papa su Bologna. Viene istituito un governo provvisorio.
7 febbraio - Papa Gregorio XVI, apprese le notizie delle rivolte, promette perdono ai liberali che si pentano.
10 febbraio - I moti proseguono a Pesaro ed a Parma.
14 febbraio - Ancora moti ad Ancona, Perugia, Assisi, Foligno, Todi.
19 febbraio - Il papa chiede aiuto all'imperatore austriaco Francesco I per reprimere le rivolte. Gli Austriaci accolgono l'invito e scendono a sud del Po, dirigendo sul Ducato di Parma: l'ordine è immediatamente ricostituito e la città è riconsegnata alla reggente Maria Luisa d'Asburgo, la vedova di Napoleone.
1 marzo - Italiani esuli in Francia tentano di penetrare in Piemonte, ma non riescono a passare neanche i confini della Savoia.
4 marzo - Gli Austriaci occupano il Ducato di Modena. Francesco IV può rientrare nella città e ripristinare il governo assoluto.

Francesco IV° D'Asburgo-Este Duca di Modena e Reggio.
dal 6 al 13 marzo - Torna l'assolutismo anche a Ferrara, ed il legato papale riprende il suo posto.
14 marzo - La duchessa Maria Luisa non perdona i promotori della rivolta che vengono sottoposti al giudizio della corte marziale.

Duchessa di Parma Maria Luisa D'Asburgo-Lorena.
19 marzo - gli Austriaci marciano su Bologna e i settari fuggono a Rimini e poi fino ad Ancona, guidati dal generale Zucchi. Cercano di imbarcarsi per la Francia ma vengono intercettati ed arrestati: sono in tutto un centinaio di persone. Come mille altre volte nella storia, fu comunque proprio la gente comune a pagare il prezzo più alto, con morti e distruzioni. Anche ad Ancona fu ripristinato il governo con il cardinale Benvenuti.
27 aprile - muore re Carlo Felice, l'ultimo dei Savoia progenie di Vittorio Amedeo II, e sale sul trono del regno di Sardegna un lontano parente: Carlo Alberto, principe di Carignano. I liberali sono convinti di avere con Carlo un alleato. Questi spegne però sul nascere tali speranze e stronca nel sangue ogni ardore di rivolta. Giuseppe Mazzini, anch'egli inizialmente fiducioso, gli rivolge invano dall'esilio un accorato invito per realizzare l'unione, l'indipendenza e la libertà d'Italia.

Carlo Felice di Savoia(ultimo Savoia del ramo principale).
9 maggio - Ciro Menotti e Vincenzo Borelli - il notaio che aveva rogato l'atto di decadenza del duca Francesco IV - sono condannati a morte. Saranno impiccati il 26 maggio.

                                          Il cospiratore settario Ciro Menotti
10 luglio - La Russia, Prussia e Austria s'impegnano con un protocollo a conservare il potere temporale del Papa. Si dissociano Francia e Inghilterra.
14 agosto - Mazzini forma a Marsiglia la nuova organizzazione cospirativa e insurrezionale "Giovine Italia", diversa dalla carboneria, sempre in ambito massonico. La rivoluzione - secondo Mazzini - bisognava farla nelle vie e nelle piazze delle città e non con oscure congiure di palazzo e senza il popolo protagonista. La coscienza nazionale non poteva restare una prerogativa degli appartenenti ad una casta, ma era patrimonio di tutto il popolo. Carlo Alberto, fra due anni, nel '33 ordinerà i primi arresti fra i cospiratori repubblicani, con condanne a morte per coloro che leggevano gli scritti della Giovine Italia. Sarà accusato perfino Vincenzo Gioberti cappellano di corte. Molti alti ufficiali a Torino, Genova, Alessandria, Chambery, saranno giustiziati non perché cospiratori, ma solo per essere a conoscenza di fatti e non averli denunciati. Gli arresti proseguiranno e saranno molti anche in altre parti d'Italia dopo il sequestro del baule di Mazzini a Genova, con all'interno scritti e nomi, trasmessi ad altre polizie.
1° settembre - Disordini nella città di Palermo, capeggiati da un doganiere, tal Di Marco. Arrestato con altri undici complici, finiranno fucilati il 26 ottobre.
3 ottobre - Francesco IV inizia l'epurazione dalle cariche pubbliche dei liberali che hanno partecipato ai moti. Poi procede a una severa rimozione nei quadri militari. Più generosa Maria Luisa a Parma, che libera tutti i rivoltosi arrestati.
22 dicembre - L'anno termina con l'ingresso nel Lombardo-Veneto di un potente esercito austriaco dislocato a Verona, al comando del Generale Conte di Radetz, meglio conosciuto come il generale Radetzky, non proprio giovane - ha 65 anni - ma che sarà un protagonista fino a quando ne avrà 92 di anni, nel 1858.
 
Josef Radetzky

L'inno composto da Giuseppe Verdi per Ferdinando II "Re D'Italia" nel 1848.



Un caloroso saluto al “rè della patria” venne a Ferdinando II di Borbone dal compositore di Busseto, che frequentò molto la corte napoletana, fu direttore artistico e compositore di opere per il teatro di San Carlo. Lo spartito dell'Inno nazionale di Verdi dedicato a Ferdinando II di Borbone è stato ritrovato negli archivi del Conservatorio napoletano San Pietro a Majella. Autore del testo è Michele Cucciniello, lo spartito è stato stampato dall’editore Girard nel 1848 a Napoli. Il ritrovamento a opera del maestro Roberto De Simone.


Viva il Re Borbonico!



Ecco un brano tratto da La Patria, l’inno nazionale che Verdi dedicò a Ferdinando II, su musica tratta dalla sua propria opera Ernani. Parole di Michele Cucciniello.
Bella Patria del sangue versato
se fumanti rosseggian le
impronte
non più spine ti strazian la
 fronte
il martirio la palma fruttò
Viva il Rè!
 Viva il Rè!
Viva il Rè!

Riporto qui l'inno con la musica e il testo cantato.
Ps:Voglio aggiungere che il traditore del Ducato di Parma Giuseppe Verdi non ha fatto i conti con la grande coerenza,saggezza,e onesta di Ferdinando II° che mai e poi mai avrebbe calpestato i diritti degli altri sovrani e del sommo Pontefice,sopratutto per folli mire espansionistiche.

Pio IX° dichiarò, "il nemico della lega Italica e il governo di Torino".


Un'importante dichiarazione fatta da Papa Pio IX° che fa luce sugli avvenimenti che seguirono i fatti del 1848 nella penisola Italiana,e spiega la ragione per cui il progetto di un Italia federale falli,egli disse:

“Io non solo approvo la Lega, ma la riconosco necessaria; per questo ho invitato pertanto i sovrani di Napoli, di Toscana e di Sardegna a concluderla; disgraziatamente il Governo di Torino si mostra restio”.

(Papa Pio IX° 1848)

Ferdinando II di Borbone-Due Sicilie sul letto di morte,"senza rimorsi".

  Ferdinando II di Borbone-Due Sicilie in una foto scattata poco tempo prima della sua morte.

Questo commovente capitolo della vita di Ferdinando II di Borbone-Due Sicilie dimostra che uomo giusto e coerente fu,egli in punto di morte benchè sofferente disse una frase molto significativa:

 “Mi è stata offerta la corona d’Italia, ma non ho voluto accettarla; se io l’avessi accettata, ora soffrirei il rimorso di aver leso i diritti dei sovrani e specialmente i diritti del Sommo Pontefice”

(Ferdinando II di Borbone-Due Sicilie 1859)

Ferdinando II° di Borbone-Due Sicilie:proclama in favore di un Italia Federale.


“Noi consideriamo com’esistente di fatto la Lega Italiana, dacché l’universale consenso dè Prìncipi e dè popoli della Penisola ce la fa riguardare come già conchiusa, essendo prossimo a riunirsi in Roma il Congresso che Noi fummo i primi a proporre; e siamo per essere i primi a mandarvi i rappresentanti di questa parte della gran famiglia italiana , le sorti della comune patria vanno a decidersi sui piani di Lombardia ...unione, abnegazione, fermezza e l’indipendenza della nostra bellissima Italia sarà conseguita. Tacciano davanti a tanto scopo le meno nobili passioni e 24 milioni di italiani avranno una patria potente, un comune ricchissimo patrimonio di gloria, e una nazionalità rispettata che peserà in Europa”

(Ferdinando II° di Borbone-Due Sicilie 1848)

Bisogna ricordare che quando Ferdinando II° si riferisce agli "Italiani" o usa il termine "Nazione" lo fa nel primo caso in senso generico e nel secondo in senso puramente federale/confederale senza in alcun modo e caso riferendosi ad uno stato Geo-Politicamente unitario e centralizzato.

La situazione politica preunitaria, le piccole patrie, il principio di “nazionalità”.



Bisogna risalire ai tempi dell’imperatore romano d’oriente Giustiniano per trovare, in Italia, uno Stato unitario ma sempre in modo forzato; dopo l’invasione dei Longobardi del 568 si ruppe l’unità politica forzata e ci furono 1300 anni di divisioni che generarono nazioni diverse, almeno nel comune sentire del popolo, ognuna delle quali ebbe storia, cultura, usi e costumi propri, questi ultimi erano molto diversi tra le vari Stati preunitari italiani, persino l’alimentazione prevedeva, al Sud, cibi di cui il Nord ignorava persino l’esistenza e viceversa. Questo processo si esaltò nel Mezzogiorno perchè esso “rimase in parte estraneo alla penetrazione longobarda sia per le persistenze bizantine sia per la costituzione subito dopo l‘anno Mille, grazie ai Normanni, del primo stato unitario dell’Italia postromana una “nazione napoletana”, ossia meridionale, comprendente tutte le genti dal fiume Tronto allo stretto di Messina[1].
Per questi motivi, a livello popolare, l’idea di un Stato Italiano unitario come Patria comune, era completamente assente, tanto che, per esempio, la popolazione delle Due Sicilie chiamava “forestieri” gli altri abitanti d’Italia e i piemontesi, quando si spostavano dal loro stato, affermavano che andavano “in Italia“; il popolo includeva nel suo concetto di “patria” lo stato italiano d’appartenenza e questo gli bastava.
A metà del 1800 ce n’erano ben 7 di cui 6 erano pienamente indipendenti: Regno delle Due Sicilie, che era il più esteso e il più ricco, il Regno di Sardegna e lo Stato della Chiesa; gli altri 3 avevano un alleanza diretta o indiretto con l’Austria(il regno Lombardo Veneto ne era legato dal sovrano e dalle leggi);i ducati di Parma e Modena; granducato di Toscana ne erano alleate militarmente e commercialmente (alla fine del Settecento gli stati italiani erano addirittura 12, ridotti a 9 dal Congresso di Vienna del 1815). Afferma Giorgio Rumi, professore ordinario di storia contemporanea: “Queste Italie diverse, che c’erano prima dell’unità, erano nazioni che avevano ciascuna una propria dignità, esistevano indipendentemente dall’esito risorgimentale e la cui rispettabilità non può essere certo misurata solo secondo la loro adesione al progetto risorgimentale.” [2] Ben diversa la realtà degli altri stati europei(per diversi motivi) che da tempo avevano raggiunto la loro unità politica statale: la Spagna nel 1469; la Francia dal 1492; l’Inghilterra nel 1066; la Russia nel 1580; la Svezia dal 1632.
La lingua “ufficiale” di Stato era l’italiano in tutti i regni italiani, tranne che nel Piemonte (dove era il francese), ma in realtà nella Penisola non esisteva una lingua comune parlata e gli italiani italofoni nel 1861 erano solo una sparuta minoranza, il 2.5% secondo T. De Mauro[3], il 9.5% secondo A. Castellani[4] e, di questi, i toscani erano la massima parte; tutti si esprimevano nel proprio dialetto; ancora a metà degli anni Cinquanta del 1900 il 60% degli italiani parlava solo il dialetto locale. [5] In Piemonte si parlava, si scriveva e si pensava in francese, il poeta Giacomo Leopardi scriveva che: “i francesi fossero considerati dai piemontesi come veri compatrioti[6]; i ricchi mandavano i figli studiare in Francia, questi giovani, una volta adulti, leggevano giornali francesi e s’interessavano dei fatti d’Oltralpe, lo stesso Statuto Albertino fu scritto prima in francese e poi tradotto in italiano[7]; tutto questo faceva dire che “se tra le varie contrade italiane vi è più e meno d’italianità è indubitato che il Piemonte è il meno italiano di tutte, ed ha a capo un principe che men di tutti ha in bocca l’idioma del sì.[8]I Savoia si erano italianizzati scendendo con i secoli e con il Po, come dice beffardo Carlo Cattaneo, ma a Corte, abbandonata ogni formalità, il re e i suoi ministri parlavano più volentieri il dialetto…nelle scuole piemontesi era obbligatorio parlare in dialetto. Cavour e, dopo di lui la regina Margherita, consorte di Umberto I, secondo re d’Italia, non si trovarono mai a completo agio con l’italiano, Margherita [e Cavour] teneva la sua corrispondenza in francese; quando si cimentava con l’italiano sbagliava tutti i verbi e non riusciva a scrivere una semplice lettera senza infarcirla di errori di sintassi e di ortografia, come un bambino delle elementari[9].
L’analisi genetica degli italiani (dallo studio di 40 frequenze geniche del DNA) mostra come ancora oggi il nostro paese sia un mosaico di gruppi etnici ben differenziati che coincide con la distribuzione delle lingue parlate in Italia nel VI secolo avanti Cristo, questo suggerisce che la romanizzazione dell’Italia non abbia inciso in maniera sostanziale dal punto di vista genetico né tanto meno dal punto di vista linguistico se è vero che, anche oggi, ciascuna regione della penisola parla un dialetto diverso in cui si ritrovano “relitti” delle lingue usate dalle popolazioni pre-romaniche le quali erano distinte in più di 10 gruppi diversi .[10]
Non c’era, ai tempi dell’unità d’Italia, un’economia integrata tanto che solo il 20% dei commerci degli stati preunitari erano diretti verso le altre regioni della penisola. Alla fine possiamo dire che solo la religione era patrimonio comune di tutti gli abitanti della Penisola, quest’ultima, in sostanza, era come un condominio, si viveva sotto uno stesso tetto (le Alpi) ma ci si ignorava e spesso si litigava. La composizione sociale della popolazione italiana complessiva era: 55-60% contadini; addetti al settore manifatturiero 18% al Sud, 15 % al Nord; al commercio e alla navigazione 20% (quest’ultimo settore quasi a totale carico delle Due Sicilie); il rimanente 10% era composto da professionisti, ecclesiastici e persone che vivevano di rendita.[11]
Prima di parlare dei progetti politici unitari italiani dobbiamo distinguere due concetti: quello di Stato e quello di Nazione e per questo trascriviamo le definizioni del Dizionario della Lingua Italiana Zingarelli [12]: “Stato” è “persona giuridica territoriale sovrana, costituita dalla organizzazione politica di un gruppo sociale stanziato stabilmente su un territorio” mentre “Nazione” è “il complesso di individui legati da una stessa lingua, storia, civiltà, interessi, aspirazioni, specie quando hanno coscienza di questo patrimonio comune”; da questo ne deriva che possa esserci uno stato costituito da più nazioni come possa anche esistere una nazione senza stato (come esempi dei giorni nostri possiamo pensare nel primo caso alla Gran Bretagna, nel secondo ai Curdi). Il 1800 fu il secolo in cui si sviluppò, a livello di ristrette elites, il “principio di nazionalità” che reclamava, inizialmente, il diritto all’autodeterminazione, cioè autonomia amministrativa e culturale (come l’insegnamento della propria lingua nelle scuole) dei gruppi definiti come nazioni; nella seconda parte del secolo, invece, qualsiasi gruppo che si autodefiniva “nazione” si sentì giustificato a reclamare non solo una semplice autodeterminazione ma uno Stato indipendente politicamente: si passò, così, dalle dodici entità nazionali che Giuseppe Mazzini vedeva destinate, a metà dell’ottocento, alla costituzione dell’ “Europa dei popoli” ai ben 27 stati nati alla fine della prima guerra mondiale, che vide il dissolvimento dello stato multinazionale per eccellenza, quello asburgico, che conteneva ben 11 gruppi etnici ed era diventato incompatibile, ormai, con questa nuova visione “nazionale”, non più autonomistica ma indipendentistica.
Questo principio di nazionalità era sentito, almeno nei primi due terzi del secolo, solo dalle classi dominanti, culturali ed economiche, delle singole nazioni nelle quali, al contrario, la maggioranza degli individui, da sempre, si sentiva legata solo alla propria comunità di appartenenza (villaggi, borghi, piccole città) dove era nata e dove, nella massima parte dei casi, trascorreva quasi totalmente la propria esistenza. Solo pochi privilegiati, infatti, si potevano concedere il lusso di un viaggio che poteva anche aprir loro piu’ vasti orizzonti mentali e che, peraltro, si conduceva con mezzi di trasporto simili a quelli dei tempi degli antichi romani: cavallo e navi; il treno cominciava a muovere i primi passi, non esisteva il telefono, gli unici mezzi di comunicazione a distanza erano la posta e il telegrafo (ancora rudimentale).
Questi milioni di persone senza il senso di appartenenza a una “nazionalità” furono plasmate, dalle classi dominanti degli stati nazionali, a sentirsi parte degli stessi perché lo Stato, per mantenersi coeso, aveva bisogno di creare un sentimento comune di nazione che diventò, la nuova “religione civica”, nacque, così, il “patriottismo”. La scuola fu il più formidabile mezzo di propaganda laico che formava, fin dalle elementari, il nuovo cittadino “statale”. Persino i monarchi europei, i quali appartenevano molto di più alla loro grande famiglia aristocratica (essendo tutti apparentati tra loro), che alle entità nazionali dei propri sudditi, dovettero cedere al principio di nazionalità, trasformandosi in britanni (come la regina Vittoria) o in greci (come Ottone di Baviera) o imparando la lingua (che spesso parlavano con un accento goffamente straniero) della nazione della quale erano a capo, nella veste di sovrani o coniugi degli stessi. Fu questa la premessa da cui si scivolò, quasi fatalmente, nella seconda parte del 1800, dal “principio di nazionalità” al “culto della nazionalità” cioè i “nazionalismi” in cui le singole nazioni non si consideravano più “alla pari” delle altre ma “migliori”; si autodefinivano, infatti, a seconda dei casi, più “civili”, più “libere”, più abili a mantenere l’ “ordine” o la “legge”. Le decine di milioni di persone che imbracciarono il fucile, e che morirono, nei due conflitti mondiali del 1900, non erano andate alla guerra per il gusto di combattere, per amore della violenza e di eroismo; al contrario, la propaganda interna dei singoli stati nazionali “nazionalisti” dimostra che il punto da mettere in risalto non era la gloria e la conquista ma il fatto che “noi” eravamo vittime dell’aggressione, dell’accerchiamento di nazioni ostili che rappresentavano una minaccia per la civiltà incarnata da “noi”; il mondo sarebbe diventato migliore grazie alla “nostra” vittoria, così, ad esempio, i Tedeschi venivano chiamati, nella prima guerra mondiale, gli “Unni”, anche dal fante semplice di trincea. [13] . La “logica” del nazionalismo offuscò la mente anche di personaggi culturalmente superiori, e quindi poco “manipolabili” dalla propaganda, essi si aggregarono entusiasticamente al comune sentire delle masse popolari le quali rimasero in gran parte insensibili ai richiami dell’Internazionale socialista che affermava la guerra non essere nei loro interessi di proletari ma solo delle classi dominanti, e che si recarono entusiasticamente nei luoghi di raduno delle truppe in partenza per i vari fronti di guerra, lanciando fiori e proclamando ad alta voce “Sarete presto a Berlino”, “Sarete presto a Parigi!”.

Decreto di insediamento di Ferdinando II° di Borbone-Due Sicilie:Atto sovrano 11 gennaio 1831.

 
Ritratto del giovane Re  Ferdinando II° di Borbone-Due Sicilie(1810-1859).


FERDINANDO II



Per la grazia di Dio
Re del Regno Delle Due Sicilie
di Gerusalemme, ec
Duca di Parma, Piacenza, Castro ec. ec.
Gran Principe Ereditario di Toscana ec. ec. ec.
Fin da' primi momenti del nostro avvenimento al Trono, Noi dichiarammo esservi nelle finanze delle piaghe profonde. Promettemmo di applicarci a curarle, e recare nel tempo stesso qualche alleviamento a' pubblici pesi.  Le conseguenze fatali della straniera usurpazione, gli avvenimenti disgraziati del 1820 hanno in prima rivolte le nostre cure alla parte de' nostri domini al di qua del Faro. Queste speranze rimasero deluse. Per le conseguenze degli avvenimenti del 1820 esisteva un deficit che di anno in anno si aumentava per gli interessi di cui era gravato. Sotto il titolo misterioso di debito galleggiante ammesso dalle nuove teorie di finanze, non lascia di essere un debito: è tanto più grave, tanto più molesto, perché non trova nei fondi di ammortizzazione un perenne presidio, perché le sue scadenze non sempre possono differirsi. La somma ne ascende a D. 4.345.251,50. Il primo passo indispensabile alla prosperità delle finanze è quello di estinguerlo a gradi. Posta così al nudo la cosa, il vuoto effettivo ch'esiste nello stato discusso da formarsi pel 1831, inclusa una parte del pagamento del debito galleggiante di sopra indicato è di 1.128.167.
Noi ne fummo profondamente rattristati, ma non disanimati: confidando nel divino aiuto, che abbiamo invocato al cominciar del Nostro Regno, e nell'amore del nostro popolo. Noi siamo sicuri che con ferma costanza godremo di un avvenire più lieto. Fedele alle nostre promesse di fare ogni personale sacrificio, noi abbiam già conceduto un rilascio dalla nostra borsa privata di D. 180.000 - Altro ne facciamo dall'assegnamento della nostra Real Casa di D. 190.000. - Conciliando il mantenimento ed il benessere di tutte le nostre attuali forze di terra e di mare col perfetto ordine in cui sono stati rimessi i rami di marina, e guerra, abbiamo ottenuto una diminuzione di D. 340.000.
La severa riforma fatta negli esiti de' diversi Ministeri ha prodotto un' economia di D. 531.667.
Sono di D. 1.241.667. Pareggiati in tal modo gl'introiti e le spese dello stato discusso pel 1831 rimanendovi una somma disponibile di D. 113.500.
Noi ci siamo proposti di impiegarla al sollievo della parte più bisognosa del nostro popolo. Il dazio sul macinato imposto col citato decreto del 28 maggio 1826 richiamava la nostra prima attenzione. Ma questa imposta ascendendo a D. 1.253.000 non avrebbe in tal modo ricevuto che un poco sensibile alleviamento. Non potendo chiedere né alla proprietà né all' industria altri sacrifizj, senza portare grave ferita a queste sorgenti della pubblica prosperità, ci siamo per necessità rivolti ad una nuova ritenuta delle spese dette di materiali, ad una ritenuta su' soldi e su' godenti le pensioni di grazia e giustizia. Essendo questa classe particolarmente rivestita della nostra fiducia, godendo le preminenze della pubblica considerazione, degli onori, delle beneficenze, e de' soldi che le danno più facili mezzi di sussistenza. Noi non faremo a questa classe il torto di crederla poco impegnata al pubblico bene. Questa nuova ritenuta non toccherà gli impiegati ed i pensionisti che godono un appannaggio di D. 25 mensuali in sotto. Crescerà con moderate proporzioni per le classi ascendenti, e se parrà grave per gli impiegati e pensionisti che trovansi alle sommità, in risultato la somma che loro rimane non sarà certo inferiore agli antichi soldi, alle antiche pensioni della Monarchia delle Due Sicilie; e allorché le vecchie costumanze di uno Stato possono utilmente rivivere, è prudente cosa il farlo, ed è indispensabile nella nostra posizione attuale.
Riconosciuta la necessità di queste misure dopo maturamente esaminate nel nostro Consiglio ordinario di Stato se n'è a Noi rassegnato il corrispondente progetto. Considerando che i soprassoldi, le gratificazioni, le identità cumulate da' soldi sono un favore d'eccezione, che per qualunque titolo concedute non può essere continuato ne' gravissimi bisogni dello Stato, che debbono pur nondimeno essere conservati i soprassoldi militari solo a distinguere il servizio attivo dal servizio sedentaneo, o di riforma, le indennità di alloggio de' militari medesimi, come del pari le semplici e necessarie indennità di scrittojo; Considerando che l'unione di diversi uffizj in una stessa persona non concede per i regolamenti in vigore se non che la scelta del soldo maggiore, e che avendo onorata origine da un attestato di nostra fiducia ne' talenti e nello zelo degli impiegati, dà ad essi il titolo alla nostra Sovrana considerazione negli ascensi;
Considerando che gli attuali soldi avendo ottenuto nella prosperità di cui lo Stato godeva prima delle fatali vicende del 1820 il considerabile aumento relativamente agli antichi soldi, possono oltre della ritenuta già esistente soffrirne una nuova;
Considerando che nelle nuove ritenute giova esentarne gli averi cumulati non maggiore di D. 25 mensuali, convenga proporzionalmente tassar gli altri in modo che il peso maggiore ricada su di quelli che sono più elevati;
Considerando essere opportuna una nuova ritenuta sulle spese di materiale;
Considerando che le pensioni di giustizia possono essere tassate colla stessa proporzione de' soldi e quelle di grazia possono soffrire un peso maggiore;
Considerando che nell'alleviamento promesso 'a nostri sudditi l' imposta sul macino richiama le nostre prime cure, essendo quella che grave è per sua natura alla classe più bisognosa e più povera;Sulla proposizione dei Nostri Ministri Segretarj di Stato delle finanze e degli affari interni:
Udito il nostro Consiglio di Stato ordinario;
Abbiamo risoluto di decretare quanto segue:
Art 1.  Sono abolite le cumulazioni tutte di soldo con soprassoldo, pensioni ed altri averi, per qualsiasi titolo conceduti, e sotto qualsivoglia denominazione, la cui somma riunita oltrepassi i D. 25 per mese, di modo che restino conservati per tutte le diverse spettanze i predetti D. 25 mensuali. Sono di questa disposizione eccettuati i soprassoldi ed indennità di alloggio e mobilio de' militari, non che le indennità di scrittojo.
Art 2. I soldi e le pensioni di giustizia che non oltrepassano D. 25 mensuali saranno esenti dalla nuova ritenuta a' termini dell'Art. 1, la quale per le classi ascendenti da D. 25 ed un grano verrà regolata giusta la seguente tariffa: da mensuali D. 25,01 a D. 50 al 2,50 per cento - Da 50,01 a 100 al 5 - Da 101,01 a 150 al 7,50.
- Da 150,01 a 200 al 10 - Da 200,01 a 300 al 15 - Da 300,01 a 400 al 20 - Da 400,01 a 500 al 25.
- Da 500,01 a 700 al 30 - Da 700,01 a innanzi al 40.
Art 3. Le ritenute sulle pensioni di grazia (osservate le prescrizioni dell'Art. 1) saranno fatte al doppio della tariffa contenuta nell' art. precedente. 
Art 4. Sarà ritenuta una seconda decima sulle spese di materiale.
Art 5. Il decimo che in atto si paga sulle pensioni e su' soldi, ed in generale sugli esiti tutti della tesoreria continuerà a ritenersi. Le ritenute soprindicate sono state approssimativamente calcolate per D. 474.030. I quali uniti a' D. 113.500 avanzo precedente formano la somma di D. 587.530.
Art 6. Il dazio sul macinato imposto a' termini degli art. 7 ed 8 cap. 3 del decreto de' 28 Maggio 1826, calcolato allora per D. 1.253.000 è diminuito per metà, seguendosi la ripartizione fattane in esecuzione del citato real decreto.
Art 7. Essendo l'importo della metà del dazio sul macinato che si sopprime in D. 626.500, la somma che manca in D. 38.968 sarà prelevata dalle economie, che nel corso dell' anno si eseguiranno da' nostri Ministri nei rispettivi dipartimenti.
Art 8. Il nostro Consigliere Ministro di Stato Presidente interino del Consiglio de' Ministri e tutti i nostri Ministri Segretarj di stato sono incaricati della esecuzione del presente decreto.
Firmato: FERDINANDO

Genova 1849:il bombardamento ed il saccheggio ad opera dalle soldatesche sabaude di Vittorio Emanuele II.



Gli antefatti
Il Congresso di Vienna del 1815 decretò la fine della antica e prestigiosa Repubblica di Genova, i cui territori furono annessi dal Piemonte senza consultazione popolare. Sotto i Savoia Genova subì un rapido declino: la dinastia sabauda privilegiava gli interessi dei proprietari agrari, a scapito della vocazione mercantile dei Genovesi.
Torino e Genova non erano separate solo geograficamente dagli Appennini: Genova era aperta "intellettualmente" al mare, alle idee, al mondo. Idee innovatrici vengono sospinte dal vento rivoluzionario, facendovi convergere avventurieri, logge di Franchi Muratori, propagandisti d'oltralpe. Torino, grettamente alpestre, contadinesca, aveva rispetto a Genova un esercito di prima scelta, e la fagocitante indole sabauda che si era imposta sulla libera intraprendenza genovese.
Questo inconciliabile "diverbio" tra Genova e Torino risaliva a qualche secolo prima, per diversificati inestinguibili motivi etnici, geografici, culturali, sociali, caratterologici. Il malcontento ed i disagi crebbero negli anni, di pari misura con il degrado economico della città. L'insofferenza verso il Piemonte si diffuse non solo in ambienti elitari (Mazzini ed i fautori degli ideali repubblicani), ma anche tra la borghesia, il clero ed i lavoratori. Intorno al 1846 Genova assunse una funzione notevole nel movimento riformatore e costituzionale dato anche l’insuccesso dei moti mazziniani. Nel 1848 la situazione divenne esplosiva: si delineava in quell’orizzonte incerto la "guerra nazionale".
Aristocratici come Giorgio Doria salivano in pellegrinaggio al Santuario di Oregina, a braccetto con gente come Bixio (il bestemmiatore) e Mameli (il sognatore): erano uniti dalla comune diffidenza sia verso i Savoia, sia verso l’Austria. Ebbero luogo manifestazioni e sommosse di vario tipo e matrice, che aumentarono l'esasperazione (ma anche l'esaltazione) dei Genovesi. Dopo la sconfitta piemontese a Novara del 1849 (prima guerra "d'indipendenza"), Vittorio Emanuele II era succeduto a Carlo Alberto. Si sussurrò di una imminente occupazione austriaca.
L'intera città si sollevò contro i Savoia. La storia di questa rivoluzione di Genova, non è riportata nei testi scolastici: i vincitori che, come noto, scrivono la storia, non amano che si tramandino episodi per loro disonorevoli ed infamanti.
Il Popolo genovese caccia i Savoia al grido di Balilla e Indipendenza
Gli Inglesi con le loro navi controllavano il porto di Genova. Il generale sabaudo De Asarta aveva richiamato a Genova tutte le truppe distaccate nei vari comuni e veniva autorizzato fin dal 25 marzo 1849 a porre Genova in stato d'assedio. Il giorno 27 marzo le campane suonarono a stormo: i Genovesi chiedevano le armi e la consegna delle porte Lanterna, Mare, Pila e Romana. Venne intercettata una staffetta che stava correndo dal piemontese La Marmora per chiedere rinforzi. Fu evidente che le truppe regie avrebbero presto marciato su Genova, non per difenderla dagli Austriaci, come falsamente affermato, ma per reprimere con la forza l'anelito del popolo alla libertà. Ci fu un primo scontro davanti a Palazzo Ducale, tra il distaccamento regio ed un gruppo di studenti e cittadini capeggiati da Alessandro De Stephanis. Fu fatto prigioniero l'Intendente Generale, che venne liberato in cambio della consegna di alcuni forti, i cui cannoni erano minacciosamente puntati contro la città.
Il 29 il console inglese fece affiggere un manifesto in cui si diceva: "Avviso: i tumulti che si manifestano in Genova e le apparenze che vi siano progetti di rovesciarvi l'ordine dello stato di S.M. il re di Sardegna mi obbligano a protestare e dichiarare che le forze inglesi stanziate in porto prenderanno misure necessarie. firmato P. Brown di S.M. Britannica".
Il mattino del 30 marzo la Guardia Nazionale, che aveva aderito alla rivolta, armò numerosi volontari (in gran parte barcaioli, portuali e facchini). Il Municipio nominò un triumvirato, con potere temporaneo. I regi allora cercarono di trasportare dei cannoni in posizioni elevate con il chiaro intento di bombardare la città. Verso le ore sedici, i volontari e la Guardia Nazionale infransero le porte della Darsena, e si unirono ai marinai. I Piemontesi reagirono furiosamente: una tempesta di palle si scaricò sui Genovesi.
Il comandante della Guardia Nazionale, generale Avezzana, ordinò allora di occupare le alture di fronte all'Arsenale, con l'intento di circondare i Piemontesi ed attaccarli. La battaglia durò tre ore e ci furono ventitre morti fra il popolo.
Uomini, donne, vecchi, fanciulli, ricchi, poveri si armarono tutti alla meglio e mossero contro i Regi. Si eressero barricate su cui si scrisse a grossi caratteri: "MORTE AI LADRI ". Preti e frati si unirono alla rivolta: i cappuccini diedero assistenza ai popolani feriti. Molti furono i morti, che furono seppelliti proprio nella cripta della Chiesa dei Cappuccini. Al grido di "BALILLA E INDIPENDENZA" i Genovesi circondarono l'Arsenale. Vennero portati a braccia 8 cannoni sulla collina della Pietra Minuta per stanare i Piemontesi. Il generale Avezzana, a cavallo, guidò la carica in Via Balbi; una barricata fu eretta a S. Tommaso.
Mentre tutte le campane della città suonavano a martello, venne attaccato l'Arsenale. La resistenza dei Carabinieri Reali e dei Granatieri di Sardegna non resse all'impeto ed il 2 aprile i Piemontesi si arresero.
I Piemontesi si arrendono: il Governo al Popolo
Presa in mano la città, tutti i cittadini si accinsero a difenderla dalle truppe di La Marmora, che il 2 aprile era già a Ronco e Busalla ed il 5 arrivò a Pontedecimo. Il Governo Provvisorio cacciò la guarnigione Sabauda, tenne in ostaggio gli ex-impiegati governativi, dichiarò nemici della Patria i non aderenti al nuovo stato di cose, chiamò il Piemonte alleato dell'Austria, si staccò dal Municipio che cercava un compromesso. Insomma compì una serie di azioni di chiara matrice indipendentista ma anche unitaria con altre regioni d'Italia (non nel senso però voluto dai Savoia!). Prova ne è che i Genovesi aspettarono con ansia la Colonna Lombarda accorsa in loro aiuto e formata da cinquemila patrioti.
Se in quegli anni avesse prevalso l'idea di una confederazione fra gli stati d'Italia, certamente il Paese ne avrebbe tratto vantaggio enorme. I Savoia invece non permisero mai la creazione di un autentico sentimento nazionale basato sulla libera e cosciente accettazione popolare. L'Italia rimase così in balia del monopolio d'arretratezza sabauda.
Inglesi e bersaglieri attaccano Genova
Nel Municipio di Genova, si erano infiltrate parecchie spie piemontesi che passavano le informazioni al nemico. Quando la guardia Nazionale organizzò i turni per il controllo dei forti, diversi traditori si intrufolarono al fine di favorire le truppe piemontesi. I difensori che assommavano a circa diecimila armati. L'esercito di La Marmora era invece costituito da ben trentamila uomini, un numero sproporzionato per attaccare la città. L'attacco avvenne senza preavviso, violando così il diritto internazionale, come dimostrato dalle proteste degli ambasciatori stranieri d'allora. Intervennero poi gli Inglesi, cannoneggiando dalla poderosa nave da battaglia "Vengeance"; sbarcarono e presero la batteria del Molo per bombardare la città.
A poco servì la sortita della piccola cannoniera genovese "La Valorosa" che cercò di contrastare il colosso del mare inglese. I Britannici si accanirono contro il quartiere di S. Teodoro, permettendo ai Piemontesi di avanzare. La difesa fu strenua, ma il nemico era molto più numeroso e meglio armato. Fu attaccata Sampierdarena, che aveva allora circa 9.000 abitanti, dove si combatté casa per casa; si unirono alla lotta anche i rivieraschi e la Legione Universitaria. Le truppe di La Marmora riuscirono a prendere la porta della Lanterna con l'inganno: dissero che venivano a trattare la pace, ma una volta avvicinatisi aprirono il fuoco sui difensori. A casa Bonino, pochi Genovesi resistessero per una notte a 200 bersaglieri. A Palazzo Doria i Piemontesi in un primo tempo furono respinti, poi vi penetrarono poi attraverso un cunicolo segreto, sorprendendo i difensori.
Alessandro De Stephanis, il già citato studente di medicina dell'Università, si offrì volontario per una sortita al forte Begato: fu gravemente ferito, si nascose in un capanno, dove fu raggiunto dai bersaglieri che lo infilzarono con le baionette. Morì dopo 28 giorni di agonia. La resistenza del Popolo fu eroica: La Marmora fino al 4 aprile non avanzò di un passo.
Genova è presa: saccheggio e violenze dell'esercito dei Savoia
Il 5 aprile 1849 i Piemontesi attaccarono in forze. I prigionieri, come scrisse lo stesso La Marmora, venivano passati per le armi. Nelle sue memorie troviamo un'altra frase su Genova: "non meritar riguardo una città di ribelli". Seguì quindi l'atto ignominioso: La Mamora fece caricare i mortai, a carica massima, ed ordinò di bombardare Genova.
Una miriade di bombe si abbatterono sui cittadini inermi; il cannoneggiamento avvenne da diverse posizioni, ma principalmente dal forte Tenaglia. L'ospedale Pammattone fu colpito da ben 16 bombe, malgrado fosse stata innalzata la bandiera nera che era considerata segnale d'inviolabilità. Solo quel giorno 5 aprile furono portati dall'ospedale ben 107 cadaveri. In seguito La Marmora cercò giustificazione a questo infame atto, affermando che vi erano stati errori nella potenza delle cariche! Scusa puerile, perché il bombardamento fu molto lungo e si avrebbe avuto il tempo di aggiustare il tiro.
Gli Inglesi, dal canto loro, bombardarono sia il centro città che la strada di S. Teodoro, permettendo così l'avanzata delle truppe piemontesi. Inoltre consegnarono a La Marmora quattro pezzi d'artiglieria, che avevano smontato dalle batterie del Molo. Il bombardamento fu ripreso anche dalle potenti artiglierie del forte di S. Benigno, portando gravi danni alla popolazione civile. Il 4 aprile iniziò l'occupazione della città, che resistette strenuamente fino all'11 aprile.
I soldati dei Savoia, che già nei giorni precedenti si erano abbandonati ad eccessi nelle colline, si disseminarono in tutta la città come un'orda di barbari, sparando su chi si affacciava alle finestre. Penetrarono a mano armata nelle abitazioni, al grido "denari, denari o la vita", strappando con percosse alla gente catenelle d'oro, orologi, anelli, e persino le camicie e le scarpe. Spogliate le persone, rastrellavano il denaro e le cose preziose. Dicevano: "I Genovesi son tutti Balilla, non meritano compassione, dobbiamo ucciderli tutti ". Un povero facchino, cui avevano ucciso il figlio di undici anni, fu obbligato giorno e notte a preparare minestre alle diverse squadre di soldati. Ci fu chi venne ucciso per rubargli solo un po' di verdura! La soldataglia dei Savoia stuprò e violentò le donne, anche alla presenza dei figli. Furono profanati e saccheggiati le chiese ed i Santuari, le case dei Missionari, i conventi.
Alcuni degli insorti arresisi furono passati per le armi, molti altri furono condotti a calci e pugni al forte della Crocetta. Derubati, furono rinchiusi in celle affollate. Per due giorni non fu somministrato cibo di sorta, e due nei successivi una sola galletta per giorno. Fu loro negata anche l'acqua, a chi ne chiedeva i soldati rispondevano: "bevete l'orina". L'inumano trattamento era completato dalle percosse e dalle continue minacce di fucilazione.
Nel rapporto ufficiale della Commissione Municipale, nominata dopo l'inserruzione, furono riportate ben 463 relazioni di singoli misfatti compiuti delle truppe dei Savoia.
Sedata la rivolta, dopo aver concesso Genova al sacco della soldataglia, Vittorio Emanuele II scrisse in francese la seguente lettera al generale Alfonso La Marmora (l'originale autografo è conservato all'Archivio di Stato di Biella, fondo Ferrero, serie Principi, cassetta VI/11/141):
"Mon cher général,
Je vous ai confié à vous l'affaire de Gènes parce que vous étés un brave. Vous ne pouviez mieux faire et vous méritez toutes espèces de compliments.
J'espère que notre malheureuse nation ouvrira enfin les yeux et verra l'abîme ou elle s'était lancée tête baissée. Il faut beaucoup de la peine pour l'en tirer et c'est encore malgré elle qu'il faut travailler pour son bien; qu'elle apprenne enfin une fois à aimer les honnêtes gens qui travaillent pour son bonheur et à haïr cette vile et infecte race de canailles à la quelle elle se con fiait et dans la quelle sacrifiant tout sentiment de fidélité, tout sentiment d'honneur elle prêtait tout son espoir (odiare questa vile e infetta razza di canaglie di cui essa si fidava e nella quale, sacrificando ogni sentimento di fedeltà, ogni sentimento d'onore, essa poneva tutta la sua speranza). Après nos tristes événements, dont vous aurez eu les détailles d'après mon ordre, je ne sais pas même moi comment je sois réussi au milieu de tant difficultés à en être au point où nous sommes. J'ai travaillé constamment nuit et jour, mai si cela continue comme cela j'y laisse la peau, que j'aurais bien plutòt voulu laisser dans une des dernières batailles. Je vais parler à la députation, avec prudence; elle saura pourtant ma manière de penser. Vous verrez les conditions; il m'a fallu bien me débattre avec le Ministère, car Pinelli souvent se montre bien faible. Je pense vous laisser quelque temps a Gènes: faites tout ce que vous jugerez à propos pour le mieux. Rappelez vous, beaucoup de rigueur avec les militaires compromis. J'ai fait mettre De Asarta et le Colonel du Genie en Conseil de guerre. Rappelez vous de faire condamner tous les délits par les tribunaux, commis par qui que ce soit et surtout sur nos officiers; de chasser aussitôt tous les étrangers et de les faire accompagner à la frontière et de former aussitôt une bonne police. Il y a peu d'individues compris dans la note, mais on dit qu'il faut de la clémence. Instruisez nous de ce qui arrivera, de l'état de la ville, de son esprit, de ceux qui ont pris plus de part à la révolte, et tâchez si vous pouvez que le soldats ne se portent pas a des excès sur les habitants, et faites leur donner, si c'est nécessaire, une haute paye et beaucoup de discipline surtout pour ceux que nous vous envoyons; il seront fâchés de ne pas arriver à temps. Conservez moi votre chère amitié, et conservez vous pour d'autres temps qui, à ce que je crois, ne seront pas éloignés, que j'aurais besoin de vos talents et de votre bravoure.    
Le 8 avril 1849 - Votre très affectionné - Victor

martedì 30 agosto 2011

"Sbarco a Marsala, mandi rinforzi e vapori", in un telegramma la richiesta d'aiuto del Principe di Castelcicala

Qui di seguito riporto un importante documento,il telegramma inviato a Francesco II° di Borbone-Due Sicilie subito dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala l'11 Maggio 1860 dal vice-Re della Sicilia il Principe di Castelcicala.

Il breve telegramma riporta tale messaggio:

Portici, 11 maggio 1860, presentissima il Principe di Castelcicala a S.M. il Re(N.S.) (parte cifrata) sbarco eseguito a marsala - mandi rinforzi e vapori - Palermo 11 maggio, le ore 2 pom. da Reggio le 6 pom. - L'ufficiale telegrafico Giuseppe Filiola. 

(scheda 63 archivio borbone b.1154-1 f.614)
 
Ruffo di Bagnara, Paolo, principe di Castelcicala e duca di Calvello,viceré della Sicilia (Richmond, Inghilterra, 1791 - Parigi 1866).

Lettera di Mazzini alle Logge Massoniche ai Fratelli di Sicilia.

Lugano, 27 Agosto 1863

Fratelli.
Abbiatevi una stretta di mano da me ed una parola di gratitudine e di augurio.
La stretta di mano è a voi come patrioti dell'Isola iniziatrice.
La parola usata e d'augurio è a voi come Massoni.
Voi avete una importante missione da compiere: quella di restituire la Massoneria all'antico spirito dell'istituzione.
E dico: restituire, perché la Massoneria non fu, nei periodi nella sua potenza, straniera, come poi la fecero, ai destini politici dei popoli.
Fu dall'origine la santificazione del Lavoro.
E il Tempio, simbolo d' un ordinamento sociale, racchiudeva nel concetto tutta quanta l'attività umana.


Molay cadde vittima d'un re e d'un papa.
Piú dopo, la Massoneria dava parola d'ordine ai suoi: L.P.D. lilia pedibus destinam e distruggeva infatti i gigli di Francia.
Gli Illuminati erano repubblicani.
Fu soltanto nell'epoca del suo decadimento che l’istituzione si ridusse a formola di amicizia e di carità mutua, accogliendo principi nel suo seno.
Il risorgere d'un Popolo è solenne occasione al risorgere dell'istituzione.
E voi lo intendete e lo farete intendere ad altri.
L'Italia Una e Repubblicana deve essere il Tempio dal quale la bandiera che non conosce padroni se non Dio nel cielo e il Popolo in terra, insegnerà amore, fratellanza d'uguali e associazione delle nazioni.
La vostra fede abbraccia tutta quanta l'Umanità.
Ma la Patria è il punto d'appoggio della leva, l'altare dell'Umanità.
Siate dunque Italiani per potere operare colla forza di venticinque milioni di liberi a pro’ dell'intero mondo.
Fate che i vostri non dimentichino nelle forme lo spirito.
Il simbolo senza l’idea è cadavere.
E i massoni del XIX secolo e d'Italia devono essere piú vicini d’un passo alla rivelazione dell’Idea che non quelli dei secoli addietro.
Voi volete gli uomini fratelli; volete dunque che sia abolito il privilegio ereditario governativo.
Il Gran Maestro non è né può essere ereditario.
Voi volete la luce per tutti.
Voi dunque volete abolire il monopolio della luce e della scienza in un solo individuo.
Il Grande Architetto dell'Universo non ha vicarii in terra, se non quelli che piú lavorano col sagrificio all'edificazione del suo Tempio.
Guardate al Papato, e dite se la sua caratteristica è il sagrificio.
Monarchia e Papato adunque sono incompatibili col trionfo della vostra Istituzione.
Non lo dimenticate.
Dio e il Popolo: ecco il vostro simbolo; la vostra parola sacra.
Guidate per mano i vostri adepti ad esso e moltiplicate.
E non vi separate da quanto riguarda i dolori, i bisogni, le aspirazioni dei vostri fratelli profani ancora.
Il miglior metodo d'iniziazione è la comunione con essi.
Abbiatemi fratello nella fede dell'avvenire.
Gius. Mazzini
(Scritti editi e inediti, Edizione Nazionale, LXXVI, Epistolario XLVI, pp. 48-52)

Così si rivolgeva Giuseppe Mazzini, "Padre della patria", ai fratelli massoni delle logge siciliane.
Un documento storico di una importanza notevole.
I rapporti tra Mazzini e la massoneria sono noti; secondo il grande Oriente d'Italia Mazzini fu massone e ricoprì anche la carica di Gran Maestro, mentre secondo altri storici(quelli dalla parte risorgimentale) la sua affiliazione alla libera muratoria non è ancora provata.
Quel che è certo è che Giuseppe Mazzini condivideva gli scopi e i valori della massoneria, e ad essa guardò sempre con grande simpatia.
In questa lettera rivolgendosi ai fratelli siciliani rievoca il ruolo della massoneria, e ricorda come fu proprio la libera muratoria la protagonista della rivoluzione francese.
Gli storici che sostengono questa posizione attualmente vengono catalogati nel filone del “complottismo”, mentre per Mazzini e i massoni del XIX secolo era una realtà assodata.
Mazzini si spinge oltre, sostenendo che “Gli illuminati erano repubblicani”.
Il riferimento è agli Illuminati di Baviera di Weishaupt, quell'ordine segreto settecentesco che aveva come obiettivo la distruzione dell'ordine sociale esistente, e l'edificazione di un Nuovo Ordine retto dagli iniziati.
Ufficialmente la massoneria odierna disconosce e prende le distanze dalle idee e dall'operato degli illuminati, e dalla loro ideologia indubbiamente luciferiana(solamente in apparenza).
Le parole di Mazzini dimostrano invece chiaramente come ancora nel XIX secolo l'eredità dell'ordine di Weishaupt fosse orgogliosamente rivendicata dai liberi muratori.
Infine, risultano interessanti i riferimenti di Mazzini alla visione “mondiale” della massoneria e dei nuovi stati nazioni che per opera della massoneria stessa stavano sorgendo.
Stati nazione che rappresentavano solamente un primo passo verso una unione più ampia, sovranazionale.
Parole e concetti che risultano alquanto familiari alle nostre orecchie, dal momento che i nostri “rappresentanti democratici” non perdono occasione di ribadirli.
E tutti i vari “capi di stato” che con devozione esaltano la visione e la “religiosità” mazziniana, a quale religiosità si riferiscono?
 
"Quando Mazzini mori nel 1872  nominò suo successore un altro capo rivoluzionario, Adriano Lemmi. A Lemmi più tardi sarebbero succeduti Lenin e Trotzkij. Le attività rivoluzionarie di tutti costoro vennero finanziate da banchieri inglesi, francesi, tedeschi e americani. Il lettore deve avere presente che i banchieri internazionali dì oggi, al pari dei cambiavalute dei tempi di Cristo, sono solo strumenti e agenti degli Illuminati. Mentre al grande pubblico era lasciato credere che il Comunismo è un movimento di lavoratori per distruggere il Capitalismo, gli ufficiali dei Servizi di Informazione inglesi e americani erano in possesso di autentica evidenza documentaria comprovante che capitalisti internazionalisti operanti attraverso i loro istituti bancari avevano finanziato entrambe le parti in ogni guerra e rivoluzione combattute dal 1776"

Giuseppe Mazzini, frammassone fondatore della "Loggia Propaganda P1" (da non confondersi con la "Loggia Propaganda P2" fondata da Adriano Lemmi nel 1875) e della "Prima Internazionale Comunista" ("L'altra faccia di Carlo Marx", ed. Uomini Nuovi).


Estratto dalla corrispondenza tra Albert Pike e Giuseppe Mazzini(il dopo terza guerra mondiale).

Riporto qui di seguito uno dei tanti documenti molto interessanti che postero e che trattano la massoneria e i suoi veri intenti,questi documenti  devono  spingere le persone ad aprire la mente e a rendersi conto della realtà delle cose.
[ ... ] Il 15 agosto 1871 Pike disse a Mazzini che alla fine della Terza Guerra Mondiale coloro che aspirano al Governo Mondiale provocheranno il più grande cataclisma sociale mai visto. Si citano qui le parole scritte dallo stesso Pike nella lettera che si dice catalogata presso la biblioteca del British Museum di Londra:


"Noi scateneremo i nichilisti e gli atei e provocheremo un cataclisma sociale formidabile che mostrerà chiaramente, in tutto il suo orrore, alle nazioni, l'effetto dell'ateismo assoluto, origine della barbarie e della sovversione sanguinaria. Allora ovunque i cittadini, obbligati a difendersi contro una minoranza mondiale di rivoluzionari, questi distruttori della civiltà, e la moltitudine disingannata dal cristianesimo, i cui adoratori saranno da quel momento privi di orientamento alla ricerca di un ideale, senza più sapere ove dirigere l'adorazione, riceveranno la vera luce attraverso la manifestazione universale della pura dottrina di Lucifero rivelata finalmente alla vista del pubblico, manifestazione alla quale seguirà la distruzione della Cristianità e dell'ateismo conquistati e schiacciati allo stesso tempo!"
(Albert Pike 15 Agosto 1870)
Albert Pike (1809-1891), massone del 33° grado, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del R.S.A.A. (Rito Scozzese Antico e Accettato) della Giurisdizione Sud degli Stati Uniti.
Membro onorario di quasi tutti i concilii supremi del mondo, e membro del K.K.K, Ku Klux Klan.
Amico del frammassone Giuseppe Mazzini.

Estratto dalla corrispondenza tra Giuseppe Mazzini e Albert Pike(progetto delle tre guerre mondiali).

Riporto qui di seguito uno dei tanti documenti molto interessanti che posterò e che trattano la massoneria e i suoi veri intenti: questi documenti  devono  spingere le persone ad aprire la mente e a rendersi conto della realtà delle cose.
Il documento è curiosamente profetico e precorritore della sinistra triade "crisi-guerra-rivoluzione", che ha tormentato il XX° secolo.

"[ ... ] La prima Guerra Mondiale doveva essere combattuta per consentire agli "Illuminati" di abbattere il potere degli zar... in Russia e trasformare questo paese nella fortezza del comunismo ateo. Le divergenze suscitate dagli agenti degli "Illuminati" fra Impero britannico e tedesco furono usate per fomentare questa guerra. Dopo che la guerra ebbe fine si doveva edificare il comunismo e utilizzarlo per distruggere altri governi e indebolire le religioni.

La Seconda Guerra Mondiale doveva essere fomentata approfittando della differenza fra fascisti e sionisti politici. La guerra doveva essere combattuta in modo da distruggere il nazismo e aumentare il potere del sionismo politico, onde consentire lo stabilimento in Palestina dello stato sovrano d'Israele. Durante la Seconda Guerra Mondiale si doveva costituire un'Intemazionale comunista altrettanto forte dell'intera Cristianità. A questo punto quest'ultima doveva essere contenuta e tenuta sotto controllo rin quando richiesto per il cataclisma sociale finale. Può una persona informata negare che Roosevelt e Churchill hanno realizzato questa politica?

La Terza Guerra Mondiale dovrà essere fomentata approfittando delle divergenze suscitate dagli agenti degli Illuminati fra sionismo politico e dirigenti del mondo islamico. La guerra dovrà essere orientata in modo che Islam (mondo arabo e quello musulmano) e sionismo politico (incluso lo Stato d'Israele) si distruggano a vicenda, mentre nello stesso tempo le nazioni rimanenti, una volta di più divise e contrapposte fra loro, saranno in tal frangente forzate a combattersi fra loro fino al completo esaurimento fisico, mentale, spirituale ed economico.

(Sintesi estrapolata dalla lettera scritta da Giuseppe Mazzini ad Albert Pike il 15 Agosto 1871)

Beatificata suor Rutan, uccisa dagli illuministi francesi a causa della sua fede.

Domenica 19 giugno 2011 il Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, il Cardinale Angelo Amato,ha  presieduto la beatificazione di suor Margherita Rutan, Figlia della Carità di San Vincenzo de ‘Paoli a Dax (sud-est della Francia).
Marguerite Rutan nacque a Metz nel 1736, in pieno periodo illuminista. Nel 1757, si legge su Zenit.it, iniziò il noviziato presso la casa madre delle Figlie della Carità a Parigi e nel 1779 assunse come superiora la direzione di un ospedale a Dax e divenne rapidamente una pioniera dell’azione sociale, con opere come l’apertura di una scuola e l’accoglienza di bambine abbandonate.
Quando giunse il periodo del Terrore, ovvia conseguenza della emancipazione laica sulla religione, basata illusoriamente sui valori (rubati al cristianesimo) di Liberté, Égalité e Fraternité, le monache dell’ospedale furono recluse nel convento di Carmas, trasformato in carcere per le donne. Nel 1792 le religiose furono accusate di furto, e nel 1793 suor Marguerite venne denunciata e arrestata la vigilia di Natale.
Venne condannata dagli illuministi francesi, attraverso il tribunale rivoluzionario (altro che Inquisizione!), il 9 aprile 1794 e ghigliottinata lo stesso giorno per non aver voluto abiurare dalla sua fede. Un anno dopo, il Direttorio lamentò che la donna fosse stata «sacrificata in modo disumano per motivi la cui prova deve ancora essere acquisita».
Lo storico francese Pierre Chaunu ha dichiarato nel 1987: «La persecuzione religiosa subita dai francesi cattolici durante la Rivoluzione francese non ha equivalenti nella storia se non le grandi persecuzioni del XX secolo. Di tutte la Rivoluzione francese è stata il modello. La persecuzione religiosa non fu solo persecuzione contro i religiosi, ma una rivolta contro il cristianesimo, con il preciso intento di decristianizzare la nazione. La maggioranza dei preti è stata assassinata od espulsa, tutte le chiese sono state chiuse per un anno e mezzo ed il loro patrimonio requisito ed incamerato, 250 mila vandeani sono stati massacrati perché volevano andare alla Messa e restare fedeli a Roma» (P. Chaunu, in 30giorni, n. 1, gen. 1987, p. 19). La Chiesa finora ha avviato i processi i canonizzazione per circa un migliaio di questi martiri e metà di essi sono già stati beatificati.

 
 suor Rutan 1736-1794

Un testimone racconta: "Così fu sciolta la Brigata Estense", storia di fedeltà e amore per la propria Patria .



                          La bandiera della Brigata Estense

"In esilio con il Duca. La storia esemplare della Brigata Estense" (il Cerchio iniziative editoriali, 2007, Rimini) è un bellissimo testo della storica modenese Elena Bianchini Braglia, una storia di fedeltà e amore verso la propria Patria e verso il proprio legittimo Sovrano. Al centro del racconto le vicende subite dal Ducato di Modena nel travagliato 1859, l'inganno e l'occupazione piemontese, la fuga oltre Po e la sconfitta seguita dall'esilio. Un esilio per il Sovrano, S.A.R. il Duca Francesco V, ma anche, e soprattutto, l'esilio del suo esercito, poco meno di tremila uomini che decisero di resistere alle lusinghe e alle minacce dell'usurpatore sabaudo per restare accanto al proprio Sovrano in attesa della Restaurazione. Particolarmente toccante il racconto del soldato Domenico Panizzi che scrisse, in occasione della morte del Duca (avvenuta a Vienna il 20 novembre 1875), un commovente racconto del congedo della Brigata Estense pubblicato il 16 dicembre dello stesso anno su "Il Genio Cattolico", periodico di Reggio Emilia, dedicando il testo alla Duchessa Aldegonda. Proprio il racconto di Panizzi, contenuto nel libro della dottoressa Bianchini Braglia, vi proponiamo per sottolineare come la cosiddetta unità d'Italia non fu subita e percepita solo al Sud come una aggressione illeggittima.
Sulla tomba di Francesco V° Duca di Modena, di Domenico Panizzi, dedicato a S.A.R. la Duchessa di Modena Aldegonda di Baviera.


                            Il Duca Francesco V° e la Duchessa Aldegonda
 
 
 
"E una storia dolorosa quella che io mi accingo a raccontare, una storia sulla quale i cuori onesti spargeranno una spontanea lagrima; mentre le anime volgari la scorreranno cinicamente sorridendo. E tal sia di esse! Lo so bene che dettando e pubblicando queste pagine squarcerò di nuovo un'acerba ferita non ancora rimar­ginata nel petto di tanti fedeli miei commilitoni: ma so d'altronde che, facendolo, aumento la gloria dell'Augusto Estinto, del quale oggi tutti noi deploriamo l'im­matura perdita; per la qual cosa senza più esitare ritorno col pensiero ad un passato non troppo lontano, ed affido alla carta le meste impressioni ch'esso produce. 

Cartigliano è una piccola terra del Bassanese, nella quale vivono una vita semplice e tranquilla i pochi suoi abitanti. Essa non ha ricordanze storiche, se pur non si voglia tener conto dell'assedio onde Maret, generale del primo Bonaparte, strinse la città di Bassano, distante da Cartigliano circa un trar d'artiglieria, e pel quale quel condottiero si ebbe l'onorifico titolo di Duca di Bassano. La piccola ter­ra però era antico tenimento d'Ezzelino da Romano, immanissimo tiranno, ed oggi ancora possiede un antico palazzo che si vuole sia stato abitato dalla famosa Bianca Capello. In quel fabbricato di forma maestosa, cinto tutto all'intorno da un doppio ordine di colonne, che costituisce un portico alla base ed al primo piano un lunga ed ampia galleria, cui si aggiungono nel mezzo delle due facciate due sporti, soffolti pure da colonne e sormontati da elegante fastigio, in quel palazzo dico, abitava dal 25 marzo 1861 l'Artiglieria Estense, parte di quella singolare Brigata la quale, sorda a certi gridi di dolore ed a certe splendide promesse, preferì di volgere le terga alla ri­voluzione cosmopolita per seguire fedelmente le orme dell'esule suo Sovrano, anzi­ché inchinarsi all'effìmero splendore di passeggera e mal compra grandezza. 

Non è mia intenzione di svolgere qui la storia di quel pugno di fedeli, raro, anzi (diciamolo pure) unico esempio di costanza e di attaccamento al legittimo So­vrano, in un'epoca di famigerate dedizioni e di vergognosi mercati; ma passando sopra ai quattro anni di esilio della Reale Brigata, arresto il mio volo al 24 settem­bre 1863, giorno in cui furono barbaramente spezzati i vincoli di quel nucleo di sol­dati devoti all'onore ed alla sventura. 

Lo scioglimento della Brigata Estense non fu atto che emanasse spontaneo da Sua Maestà l'Imperatore d'Austria, ne' cui dominii italiani la Brigata provviso­riamente risiedeva; sì bene avvenimento desiderato efficacemente dalla Francia bonapartista, provocato ed implorato dal Governo Sardo, e sostenuto con calore dal rivoluzionario parlamento austriaco. Nel quale chi maggiormente si distinse per affocate polemiche ed imperturbabile insistenza, spezzando ai danni di quella povera Brigata una poderosa lancia, fu certamente l'on. Giskra, più tardi glorioso ministro della rivoluzione in Austria, e finalmente non troppo spontaneo dimissio­nario, per le poco fortunate prove sostenute quand'era al sommo del potere. 

Intanto lo Scioglimento della Brigata era stato decretato, e fu il Feld-Maresciallo Cavalier Lodovico Benedek quegli che si ebbe l'incarico, nella sua qualità di comandante l'Armata austriaca in Italia, di annunziare alle fedeli truppe estensi la dolorosa e suprema decisione. 

I giorni, prima di quello destinato per il fatale scioglimento, erano stati rat­tristati da una continua e copiosa pioggia; ma il dì 24 settembre volle distinguersi per una straordinaria splendidezza e gaiezza di sole. Strano contrasto della natura! Quando il cuore dell'uomo è profondamente amareggiato, generalmente il cielo spiega tutta la sfolgorante pompa dei suoi tesori, quasi a ricordarci che se la terra è una valle di lagrime, al di sopra dell'azzurro firmamento v'ha un Eden eterno di fe­licità, al quale dobbiamo sollevarci sulle ali del pensiero e del desio, se pur ne pre­me trovarci agguerriti a sufficienza per combattere le aspre lotte di questo basso e desolato mondo. Lo squillo delle trombe, che suonava l'ultima diana per le truppe Estensi, ci tolse dai nostri giacigli e ci spinse a contemplare l'aurora fatale, che del suo raggio rosato tingeva le sponde verdeggianti del Brenta e le lontane punte dei Colli Euganei. Il misterioso e profondo silenzio del crepuscolo mattutino veniva però interrotto da lontani suoni di trombe misti al severo rullo dei tamburi, i quali formavano così un assieme di mesta e strana melodia che ci riempiva l'animo di tri­stezza e risuonava dolorosamente nell'imo dei nostri cuori. Erano le varie truppe della Brigata che marciavano al funebre convegno di Cartigliano, ove tremila e più uomini, vivi ed animati da fede inconcussa e da slancio indomabile, erano costretti dalla malizia de'tempi ad assistere ai propri funerali! 

In breve ora i varii Corpi di truppe avevano raggiunta la meta, schierandosi silenziosi nel vasto cortile che si stende ad est del palazzo surricordato: ove oltre a queste trovavasi anche picciolissimo numero di spettatori, non escluso ben inteso l'indispensabile corrispondente di gazzetta. Credo fosse un reporter del Times di Londra. 

Intanto arrivava Sua Altezza Reale il Duca a cavallo, e Sua Altezza Reale la Duchessa in carrozza, circondati da un brillante Stato Maggiore austro-estense, alla testa del quale trovavasi l'imperiale e reale Tenente-Maresciallo Pokorny, il Capo della Commissione mista che doveva decidere sulle sorti dei membri sciolti della Reale Brigata. Sua Altezza Reale il Duca passò in rassegna le sue truppe co­mandate da S.E. il generale Agostino Saccozzi, di sempre cara e riverita memoria, e le ispezionò per l'ultima volta con quel suo sguardo militarmente sagace: ma sul suo volto leggevasi l'amara angoscia che gli gravava lo spirito. Oh! Quali pensieri gli si saranno affollati in mente nel contemplare quelle sue truppe dal brillante con­tegno, dall'ammirabile disciplina, ma dal viso contraffatto per profondo dolore? Ah! Certo che quello ch'egli provò ahi 24 settembre 1863 fu uno dei molti supremi dolori che lo trassero immaturo nella tomba! 
 
Dopo la rivista fu celebrata la Messa campale. Nella galleria superiore, e precisamente nello sporto di mezzo prospiciente ad Est, era stato eretto un altare da campo, sul quale il Cappellano Maggiore della Brigata celebrò l'incruento Sacrifi­cio. Momento solenne fu quello! Tutto all'intorno regnava profondo silenzio, ed ognuno di noi raccolto ne'propri tristi pensieri volava coll'anima al passato e con­fondeva in uno la preghiera e le amare ed insieme dolci reminiscenze. Ad un tratto ci riscuote uno squillo acuto di cornetto: è il segnale dell'elevazione. I fantaccini s'inginocchiano, noi a cavallo abbassiamo le punte delle spade, e mentre il Cappel­lano Maggiore solleva in alto l'Ostia consacrata, la banda musicale del Reggimen­to di Fanteria intona la flebile e soave melodia che raffigura la preghiera. Mio Dio, qual sublime e terribile istante! Le note armoniose e gementi invano ricercando tutte le fibre de' nostri cuori palpitanti; e le anime nostre, sollevate a Dio e rattenute in comunicazione colla terra soltanto pel dolce vincolo d'amore al nostro Sovrano, parevano d'un tratto lanciate in una nuova e sconosciuta atmosfera. Noi piangevamo curvi sui nostri cavalli, ed i fantaccini inginocchiati piangevano, il capo sorret­to dalle destre ed il gomito appoggiato al ginocchio. Chi potè conservare il ciglio asciutto in quel solenne momento? Il nostro labbro mormorava una preghiera ar­dente, affettuosa, sincera; e quella prece uscita dal rozzo labbro d'uomini d'arme non sarà certo salita male accetta al cielo. Oh! La messa campale delli 24 settembre 1863 fu una messa unica nel suo genere, la quale lasciò per fermo indelebili tracce nella memoria di chi vi assistette.

La musica intanto iva smorzandosi man mano; a poco a poco sfumava... svaniva in un sospiro che il vento trasportava sulle rapide sue ali, e con esso dileguavansi... tutte le nostre più care speranze! 

Dopo la messa vi fu la solenne distribuzione delle medaglie. L'amatissimo nostro Sovrano e Duce non aveva voluto abbandonarci senza lasciarne un segno del suo affetto, e nel medesimo tempo un distintivo di riconoscimento per i tempi futuri. Aveva quindi fatta coniare una medaglia di bronzo, sull'una parte della qua­le vedevasi l'effigie del Principe e sull'altra leggevasi la ben concepita scritta: Fi-delitati et constantiae in adversis. Prima della distribuzione però fu letto un affettu­oso ordine del giorno, nel quale il sovrano diceva di regalarci quel prezioso ricordo, raccomandandoci di conservarlo gelosamente e caramente. Poi, sceso da cavallo incominciò dal fregiare della medaglia il Generale Comandante la Brigata, quindi una rappresentanza de' varii corpi di truppe, mentre i diversi Capitani erano occupati a distribuire quel distintivo della fedeltà ai rimanenti soldati. 

Io pure ebbi la sorte d'esser fregiato di quell'invidiabile segnacolo di bron­zo, ed oggi che il mio Sovrano non è più, sento che la medaglia si è fatta per me più preziosa e che la conserverò con affetto e venerazione, siccome dolce ricordo di quell'incomparabile Principe; bramoso ch'essa mi segua anche laggiù nell'umile e negletto sepolcro. I cinici rideranno di nuovo a questo mio mesto desiderio: ma io, incurante del loro sorriso, bacio affettuosamente la medaglia ch'or mi sta sotto gli occhi, e rinnovo con maggior forza il mio voto. E chi non può comprendere i senti­menti di un soldato fedele, sogghigni pure a sua posta! 

Distribuite una volta le medaglie, il Sovrano e gli Aiutanti salirono di nuovo a cavallo, e si passò alla lettura dell'ultimo ordine del giorno, col quale Francesco V ci dava il supremo addio: "Nato e cresciuto fra voi, Ci conoscete abbastanza per immaginarvi ciò che proviamo in questa separazione; e nel darvi, se non altro per ora, come facciamo, un Addio a tutti, Ci lusinghiamo che in qualsiasi circostanza non dimenticherete il vostro legittimo Sovrano, che rimarrà sempre affezionato a quelli che non cesseranno di seguire la via dettata dall'onore e dalla coscienza!" 

"Viva Francesco V!" risuonò potente una voce. Era infrazione alla discipli­na militare: ma in quel momento doloroso il soldato era scomparso per dar luogo al figlio, che piangendo si separava dall'amato suo Padre. Di fatto mal repressi sin­ghiozzi uscenti da tremila petti, accorati e laceri dal dolore, interrompevano la lettura di quello storico ordine del giorno, e sul ciglio del vecchio e venerando Gene­rale, come su quello dell'ultimo fuciliere, brillava una lacrima che l'angiolo della pietà avrà certo raccolta nella sua gran coppa d'oro. 
 
Compiuta la lettura, le truppe salirono al cospetto dei Sovrani commossi da quella scena straziante; dopo di che Essi avviaronsi alla volta di Bassano. Ma in quell'estremo momento fu vinto d'improvviso il ritegno della militare disciplina, ed i soldati, rotte le file, si affollarono intorno alla carrozza della regal Duchessa ed appresso al cavallo dell'amato Sovrano, gridando: Evviva ed Addio, soffocati da lagrime oh ben sincere, ben amare! Pochi anni prima anche a Modena avvenne una scena consimile, quando cioè la carrozza di Farini, il quale stava per abbandonare la città, venne fermata, ed il Dittatore obbligato a retrocedere. Ma, mio Dio, qual differenza! Quelli che staccarono i cavalli del dittatore furono Carabinieri e Guar­die della Pubblica Sicurezza travestiti (come ne narra il Curletti, l'organizzatore della popolar commedia), mentre a Cartigliano era una truppa intera che unanime­mente spinta da irresistibile impulso cercava di attraversare la via al Sovrano dal quale veniva a viva forza strappata. 

Il Duca commosso fino alle lagrime si chinava sul nobile suo destriero, salu­tando tutti e con voce interrotta dicendo a più riprese: "Via, lasciatemi, lasciate­mi!". La Duchessa poi dal suo cocchio, non vergognosa di mostrar le lagrime che in larga copia le velavano i begli occhi, ci salutava sventolando il bianco fazzoletto e tenendosi volta a noi finché ci poté scorgere. Ma ben presto lo svolto della via ce la rapì alla vista... e noi muti e sconfortati ritornammo nelle nostre file. Il sacrificio era compiuto! La Brigata Estense non esisteva più! 

A Bassano ebbe luogo la consegna delle bandiere. Il vecchio generale, dal maestoso e simpatico aspetto, afferrò con mano tremante le bandiere, una delle quali trapunta dalle stesse mani della Duchessa Adelgonda, ed avanzatosi verso il Sovrano, con voce commossa e velata dai singhiozzi, gliele consegnò pronuncian­do tenero ed insieme ardente discorso d'occasione. Alle parole del vegliardo le la­grime sgorgavano dal ciglio degli astanti; persino coloro che erano e dovevano es­sere estranei alla funesta cerimonia, si sentirono con meraviglia umidi gli occhi! Il Duca prese in consegna le bandiere già smontate dalle aste, e, collocatele in apposi­ta cassetta, promise di conservarle con gelosa cura. Oggi l'amato Sovrano non è più: ma dall'alto de' Cieli Egli sicuramente le guarda, quelle nobili insegne, le qua­li se non sono ora simbolo del potere, restano però sempre per noi soave ricordo di un affetto sublime, coronato d'immenso sacrificio. 

Colla consegna delle bandiere si chiuse la storia della Brigata Estense: ma la memoria di quella cara famiglia rimarrà indelebile nella mente e nel cuore di quanti ebbero la fortuna di esserne membri, e di tutti coloro che sanno convenientemente valutare la prima virtù del soldato: la fedeltà. 

Davanti allo spettacolo d'una truppa che rimane inconcussamente fedele a fronte di mille incentivi, di mille suggestioni, di mille promesse e da ultimo di mille improperi, intimidimenti e minacce, cedono le ragioni di parte; e gli uomini onesta a qualunque colore appartengano, s'inchinano riverenti ed ammirati. 

Ma l'ammirazione e il rispetto crescono a dismisura per quell'augusto So­vrano, che di sì forte vincolo seppe stringere il fedel nucleo de' suoi combattenti. 

Laonde niuna meraviglia se prima di gettare la penna piego il ginocchio da­vanti alla frese'urna che chiude le ceneri di Francesco V, e chiamando ad alta voce tutti i superstiti miei compagni d'armi, io li invito a spargere una lagrima ed a mor­morare una fervida prece su quella tomba, che racchiude e riassume tutto quanto d: più caro noi avevamo sulla terra".