sabato 22 ottobre 2011

Francesco V° D'Asburgo-Este:La battaglia di Solferine e l'armistizio di villaFranca(raccolte da Bayard de Volo in Vita di Francesco V Duca di Modena).


 

"S. A. I. R. il duca Francesco V, lasciando con tutte le sue valorose milizie il Ducato, si ritirava al Quartiere imperiale austriaco, e prendeva parte da alleato fedele alle vicende della guerra: e il suo degno Ministro, conte Bayard De Volo, seguendo il suo signore, ne raccolse le preziose Memorie, delle quali fece tesoro nella sua stupenda Vita di Francesco V" (Bayard de Volo. Loc. cit. Cap. LII, pag. 28).
 
 
"I vari brani -avverte lo scrittore- che verrò citando o interpolati nel testo o in apposite note, quando sono letterali, li distinguerò con virgolette. Ma in gran parte le narrazioni e gli apprezzamenti si devono prendere come Memorie del Duca, specialmente intorno alla battaglia di Solferino ed all’abboccamento di Villafranca".
"La battaglia di Magenta, quantunque non prevista a tempo dagli Austriaci, quantunque assai micidiale, non sarebbe stata per essi sì gran disastro strategico, che con maggiore energia militare non avesse potuto scongiurarsi.. Di fatto i Francesi non inseguirono da nessuna parte, né in modo alcuno si affrettarono, se si eccettua l’entrata a Milano, di trarre largo profitto dalla vittoria, che era stata loro abbandonata.La imprevidenza per altro dimostrata avanti, e la soverchia precipitazione di poi della completa ritirata sul Mincio, avevano fatto svanire ogni illusione sulla capacità di Gyulai,che invano tentò riacquistare con un progetto di recarsi di nuovo ad attendere il nemico fra Lonato e Montechiari. Quando l’Imperatore si abboccò la prima volta col duca Francesco V a Verona,non gli fece mistero del suo malcontento intorno al comando dell’esercito, ed effettivamente di lì a non molto, ossia il 18 giugno, ne assunse l’Imperatore stesso il comando supremo, confermando a quello della prima armata il tenente maresciallo Wimpffen, e affidando la seconda al tenente maresciallo Schlick, già noto in Italia per avere nel 1849 espugnato valorosamente il Monte Berico presso Vicenza.
Il primo di questi due comandanti subalterni si mostrava palesemente scoraggiato, e il secondo era ignaro delle vere posizioni prese dagli alleati. "Il Comandante della prima armata infatti si espresse così, sono parole testuali del Duca, — con molto scoraggiamento. "Wir sind für die gute Sache gohopfert! Io, deplorando i disastri passati, mostravo di confidare nella riunione delle due armate,
la quale stava per effettuarsi, nell’unità del comando di S. M., nel consiglio di Hess sopraluogo, finalmente nelle forti posizioni scelte per tener fronte al nemico...Il Generale non divideva questa mia fiducia; molto si estese a parlare sull’accortezza del piano probabile degli alleati, ch’egli in parte arguiva da relazionidi confidenti... Finalmente asserì, che non si avevano novantamila uomini da mettere in linea il giorno di una battaglia: e non avendone io trattenuto una esclamazione di dubbio, egli vi contrappose esserne stato assicurato dallo stesso Hess".
 Terminò con questa incredibile osservazione: "Ebbene, anche se guadagniamo la battaglia, cosa varrebbe un inseguimento col caldo di luglio?" — come se a condizione eguale non si trovasse il nemico, pensai fra me! — "metà della nostra truppa avrà a caderne esausta lungo le strade..."". Altre rilevanti innovazioni si erano operate nel personale dirigente, anzi nello stesso Stato Maggiore,sopraggiunti di fresco c'erano ufficiali superiori che per la prima volta vedevano l’Italia. Qui il Duca narra un fatto altrettanto incredibile quanto vero.
La vigilia del giorno 24, dice egli, passando dinanzi all’Operations Kanzley, che era attigua al Quartier imperiale, trovai sulla strada un Generale... all’apparenza molto affaccendato...
Io non lo conoscevo; ma egli si presentò a me come Generale Scudier, chiamato da Lemberg per La vigilia del giorno 24, dice egli, passando dinanzi all’Operations Kanzley, che era attigua al essere Capo dello Stato Maggiore della 2ª armata.
Pareva contentissimo della sua nuova destinazione, che avrebbe anzi dovuto pesargli doppiamente, e per la grave responsabilità, e perché, come mi disse, era da sole 24 ore in Italia, dove si trovava per la prima volta!Si era quindi cercato colla lanterna in tutta l’armata austriaca un Capo di Stato Maggiore, che non avesse mai veduto il terreno sul quale doveva operare...".
 
Intanto al Quartiere imperiale venne elaborato dal tenente maresciallo Hess ed accolto un nuovo progetto, il quale, assai bene concepito in astratto, sarebbe o no riuscito, secondo che il nemico si fosse rinvenuto nelle condizioni supposte,e secondo che fosse stato in tutte le sue parti posto abilmente in esecuzione. Esso doveva consistere, non già nello stabilirsi tra Lonato e Montechiari e Casiglione delle Stiviere,ma nel cacciare di là il nemico, ritornando sempre oltre il Mincio ad accerchiarvelo, per staccarlo dalla sua base di operazione, e spingerlo sul Lago di Garda e sui monti del Tirolo.
L’Imperatore aveva in questo intendimento fino dal 20 giugno trasferito il suo Quartiere generale a Villafranca, donde ispezionò tosto uno dei principali passaggi sul Mincio, ossia quello da Valeggio a Borghetto.Così nel 21 e nel 22 l’esercito austriaco di operazione, nella quasi sua totalità, ebbe a valicare un’altra volta il fiume, dietro al quale si era pochi giorni innanzi riparato, lasciando alle spalle, oltre a quelli di Valeggio,i ponti muniti di Goito, Pozzolo e Saliunze.
Alcune avvisaglie di usseri, spinte in avanti appunto da Saliunze e da Peschiera, si abbatterono intanto negli avamposti francesi verso Lonato e Montechiari, e vi impegnarono sanguinose scaramuccie;il perché si credette senz’altro che le previsioni formate, circa al luogo di una grande battaglia, fossero precocemente per avverarsi, e si risolvette per conseguenza di marciare senza alcuna sosta in avanti.
Nel successivo giorno 23 i varî corpi di armata ricevettero ordine di raggiungere prontamente le posizioni a ciascun d’essi assegnate, alfine di occupare prima dei nemici le vantaggiose alture di Solferino, Cavriana, Madonna della Scoperta e Pozzole. Per tal guisa l’esercito austriaco, inoltrandosi nel territorio compreso tra il Mincio e il Chiese, mirava a stabilire la sua ala diritta a Pozzolengo,la ala sinistra a Medole, il centro a Cavriana, Trezze e Solferino, ammassando in pari tempo, ad uopo di rinforzo, corpi considerevoli tra Castel Grimaldo,Guidizzolo e Foresto.
Francesco V, accompagnando l’Imperatore a Valeggio e quindi a Volta, aveva potuto scorgere, sebbene a distanza, i movimenti avanzati di quelle milizie; ma aveva osservato altresì come all’apparir loro sulle pianure di Medole,la cavalleria nemica, appostatasi in esplorazione, alzando nubi di polvere, si ritirava a briglia sciolta, evidentemente per recare a’ suoi generali l’annunzio dello estendersi anche colà della fronte austriaca di battaglia. E ciò, collegandosi con lo scontro accaduto il giorno avanti a Lonato, dava a comprendere, che gli alleati, spingendo le loro ricognizioni su linea cotanto vasta,non solo erano giunti assai probabilmente a scoprire le mosse degli Imperiali, ma erano in grado di opporsi loro in quel qualsiasi punto che fosse stato il più minacciato.
Il Duca Francesco che aveva in cuor suo deplorato lo stallo, alla luce dei fatti ebbe poi piena prontezza ad abbandonare precocemente tutto il terreno a destra del Mincio assai prima che il nemico se ne fosse reso padrone,ora deplorava le marce e contromarce, che quel precipitoso richiamo aveva cagionato alle milizie austriache, le quali andavano così a giungere estenuate e stanche all’atto ed al luogo della battaglia;
ma più di tutto deplorava che nell’istante di impegnarsi si fosse quasi dimenticato il requisito indispensabile di un corpo di vera riserva sotto le mani del Comandante supremo, essendoché, per quanto egli stesso ebbe a verificare di persona, dietro i corpi destinati all’attacco non si erano lasciati che alcuni forti carriaggi di munizioni, varie batterie di campagna e l’equipaggio dei ponti,
i quali si tenevano alla sinistra del fiume. — Lo stesso canuto feld-maresciallo Nugent, che ad onta de’ suoi ottant’anni si associava come volontario al quartiere imperiale,aveva vigorosamente raccomandato un tal corpo di riserva, "di cui niun altro che il Comandante in capo avesse ad essere arbitro assoluto,senza uopo di ricorrere invece a semplici distaccamenti degli altri corpi più o meno impegnati nel combattimento."Forse al Quartiere Imperiale credevasi che sarebbe rimasto tempo per riparare a simile omissione.Certamente poi non so se vi si supponeva che la giornata campale sarebbe stata il domani; tanto è vero, che si era dato ordine, perché le truppe non si mettessero in moto nella mattina successiva,se non dopo il loro rancio ordinario, ossia alle nove antimeridiane.
"Queste previsioni non erano abbastanza logiche e fondate, — scrive di nuovo il Duca. — Era certo, che l’esercito nemico si trovava già fra Brescia e il Chiese; il 23 la sua cavalleria era visibile verso Medole;si sapeva Castiglione occupata; i Francesi erano vittoriosi, e la loro indole non è quella delle battaglie difensive, né di arrestarsi dopo una vittoria...Si procedette invece per parte austriaca, come se fossimo stati padroni del tempo, del luogo e degli avvenimenti. Persino l’ordine a tutto l’esercito di non muoversi se non dopo l’ora del rancio di mattina,appoggiato sopra supposizioni erronee, riuscì estremamente pregiuzievole; giacché, attaccate le truppe prima del tempo, dovettero prendere le armi alla sprovvista e, non essendo munite di viveri portatili, ebbero a combattere tutta la giornata a digiuno , e quindi esposte ad essere facilmente spossate..."
Checché ne sia di tutto ciò, non meno che dell’avere gli alleati potuto presagire gli intendimenti dell’oste imperiale, è verità ormai constatata, che Napoleone III, fatto nel 23 varcare il Chiese alla maggior parte dei corpi,ordinava che nel dì appresso si inoltrassero appunto sino a quelle posizioni, cui egualmente tendeva l’esercito comandato dall’Imperatore Francesco Giuseppe.
Poste quindi alla sua ala sinistra, dirigentesi a Pozzolengo, le divisioni sarde, ingiunse a Baraguay d’Hillers ed a Mac-Mahon, che costituivano il centro, di giungere a Solferino ed a Cavriana; a Niel e Canrobert, formanti l’ala destra,di avere per loro abbietto Guidizzolo e Medole.
Ma perché in quella stagione cocente le combinate rapide marce non fossero molestate dal soverchio calore del sole, dispose che tutti i corpi, ad eccezione della Guardia, che restar doveva quale riserva al Quartier generale in Castiglione,prendessero le mosse sulle due del mattino. Ciò apportò dunque, che anche assai prima dell’ora designata per gli Austriaci,e quindi prima del loro rancio, avessero ad essere allarmati dalle avanguardie degli alleati, e che i due eserciti nemici si scontrassero assai per tempo in tutta la linea,in un esteso combattimento delle due ali estreme fra loro e del centro col centro, a guisa di tre battaglie, coordinate in modo, che il risultato dell’una doveva indubbiamente dipendere da quello delle altre.
Malgrado di essere state quasi sorprese, malgrado delle enormi fatiche dei giorni innanzi, le milizie austriache, fra cui si notavano non pochi reggimenti italiani, (del Veneto - Ndr.) non vennero meno a quella bravura ed a quella fermezza,per cui sì giustamente sono celebri, dimostrando anche in simile incontro come le antiche tradizioni di valore e la disciplina,inseparabili dai grandi antichi eserciti, bilancino assai spesso le imperfezioni della strategia e del comando.
Le condizioni del terreno, estendentesi da Pozzolengo al Lago di Garda, permisero nello avanzarsi reciproco, che il combattimento impegnato fra l’ala dritta austriaca e la sinistra degli alleati acquistasse una tal quale indipendenza dal resto della grande battaglia; ed a ciò contribuivano non v’ha dubbio il grado rispettivo di agguerrimento delle forze che vi si trovavano a fronte e l’energia tutta propria del generale Benedeck,cui stavano a competitori i generali italiani. Non così al cozzo tremendo dei due centri sul colle di Solferino, dal cui possesso dipendeva il destino della giornata,rimanea del pari estraneo l’esito degli scontri, che si ripeterono fra l’ala sinistra austriaca e la destra francese nella pianura interposta fra Medole,Robecco, e Castel-Grimaldo. Infatti dalle tre del mattino fino al meriggio gli Austriaci comandati valorosamente da Stadion e da Clam-Gallas respinsero alla baionetta più di una volta gli assalitori francesi, che il loro comandante Baraguey d’Hilliers guidava con grande ardire e con sempre nuova insistenza al conquisto della Rocca di Solferino.
Ma la mancata cooperazione di Wimpfen e di Liechtenstein, specialmente allorquando Napoleone faceva avanzare la sua riserva della Guardia Imperiale, rese impossibile qualunque ulteriore tentativo di rivincita,e da quell’istante non fu difficile prevedere quale dei due eserciti combattenti sarebbe rimasto padrone del campo.
Ciononostante è pur d’uopo riconoscere che i Comandanti dell’ala sinistra austriaca, ossia della prima armata, non furono al tutto reprensibili,se indugiarono ad obbedire all’ingiunzione ricevuta di spingersi innanzi con tutte le forze loro nella direzione di Castiglione; essendoché Niel e Canrobert,acquistando terreno sino a Robecco, minacciavano di prendere l’ala sinistra austriaca di fianco, e forse anche alle spalle. Piuttosto convenirsi, che tutto il disastro è attribuibile appunto alla mancanza di una riserva, la quale, senza spostare ed assottigliare gli altri corpi, avesse potuto mandarsi a tempo in rinforzo del centro,che per tal modo si sarebbe sostenuto ed avrebbe anche assai probabilmente trionfato.
Con la espugnazione di Solferino per parte dei Francesi, cogli svantaggi subiti nella pianura, colle truppe digiune da tutto il giorno, colle strade dietro alle fronti ormai riboccanti di ambulanze e di feriti,coi battaglioni stremati dalle eccedenti perdite sofferte, con gli squadroni de’ cavalieri e coi treni d’artiglieria più che decimati,non si dava l’esercito austriaco ancora per vinto, e contrastava a passo a passo al nemico il terreno per tutta la linea da Solferino a Medole.Ma visto dall’imperatore Francesco Giuseppe l’inutilità di quella magnanima resistenza, a risparmiare un’ulteriore effusione di sangue,comandò la generale ritirata, la quale si effettuò lentamente ed in buon ordine, protetta nella retroguardia dalle artiglierie di campagna che tenevano in rispetto e a distanza gli inseguitori.
Questo è il riassunto, della fatale e memorabile giornata di Solferino. Non sarà inopportuno che io vi aggiunga desumendoli sempre dalle Memorie del Duca sopra citate, alcuni più minuti particolari,
che si riferiscono alle condizioni speciali in cui ebbe ad assistervi ed a quanto Egli stesso poté rilevarne.
Dal principio fino al compimento del grande e mortifero dramma, aveva il Duca partecipato alle ansietà ed alle emozioni di tutti coloro, che presso il Quartiere generale austriaco ne erano interessati spettatori.Egli, con gli altri Arciduchi del seguito, si era tenuto costantemente a fianco dell’Imperatore, avanzandosi con lui, e retrocedendo a seconda delle vicende,che l’immane lotta ebbe a subire in tutto il suo corso. E come il giorno avanti coincideva colla solennità del Corpus Domini,e quella della battaglia cadeva nel San Giovanni, così il Duca non lasciò nell’uno e nell’altro giorno di assistere alla santa Messa,non essendoci preoccupazione alcuna, o per quanto gravissimi, non avrebbe potuto distoglierlo da quegli atti di Religione.
Ma poi assai per tempo il dì 24 si recava, come ne aveva ricevuto avviso, alla Villa Maffei in Valeggio, ed essendone i suoi cavalli, come quelli dell’intero Stato Maggiore, avviati a Solferino, dovette prevalersi di un calesse di posta qualunque,per giungere a Volta, dove l’Imperatore, che ve lo aveva preceduto, seguiva già con l'occhio da un’altura, circondato da’ suoi generali,le prime rapide mosse del combattimento. Di là peraltro non si scorgeva che quel tratto di terreno, che estendevasi da Guidizzolo a Medole, dove agiva, come ho avvertito,parte soltanto dell’ala sinistra austriaca; laonde per sorvegliare più da presso le operazioni al centro e occorrendo dirigerle, si trasferì l’intero Quartiere imperiale a Cavriana,dove non poté giungere prima delle 11 antimeridiane, a causa della straordinaria affluenza di carriaggi e ambulanze, che già ingombrava la strada.Di sotto a Cavriana ferveva orrendamente la battaglia. I shrapnels austriaci,scoppiando nell’aria e lasciando dietro a sé un denso globo di fumo, si succedevano con una rapidità spaventosa. Non minore era l’effetto delle granate esplose dai cannoni rigati francesi,che spinte a considerevole altezza venivano a colpire le prime fronti delle colonne austriache. Il fragore delle artiglierie non aveva la minima interruzione, già si potevano calcolare due colpi ad ogni minuto secondo;e durò poco meno di nove ore continue.
Così due popoli potenti e forti, ai quali era sostanzialmente estranea la sorte dell’intera nazione italiana,anzi da questa non chiamati, versavano il loro sangue a rivi per opera di una turbolenta fazione, i cui caporioni(dopo di avere per anni cospirato nell’ombra) si tenevano prudentemente lontani e in salvo di fronte al pericolo dello scontro da essi suscitato.
 
Il punto scelto alle osservazioni del Quartiere imperiale dominava il grande spazio interposto fra Medole e i colli di Solferino; ma questi ultimi coprivano il tratto di paese che si stende fino al Lago di Garda,dove l’ottavo Corpo austriaco sotto gli ordini di Benedeck combatteva l’ala sinistra degli alleati. Vi si poté per altro rilevare solamente, per quanto il fumo e la nebbia il permettevano,
l’entrare in linea al sud di Medole di una lunga colonna di artiglieria nemica, la quale venne ad aggiungere il suo formidabile fuoco a quello sino allora assordante;e vi si notò dal lato di Montechiaro un improvviso aumento di polverone sul terreno, che denotava senza dubbio l’accorrere sul campo di nuovi battaglioni.E benché sul mezzogiorno ci fu una sosta nell’accanito combattimento, che ferveva incessante intorno a Solferino, ciononostante il rimbombo delle artiglierie ed anche quello della moschetteria, andava sempre più approssimandosi, segno indubitato, che il nemico guadagnava terreno, e che per conseguenza gli Austriaci andavano retrocedendo. E già piccoli distaccamenti decimati di truppe, che avevano perduto i loro ufficiali, ed i cui resti erano malconci e feriti, ripiegavano isolati nella direzione di Cavriana, non come fuggiaschi,ma come impotenti a non più resistere.
Simili apparenze contrarie, non meno che i frequenti rapporti dei comandanti indussero l’Imperatore e gli Arciduchi a riprendere da Cavriana la via della Volta, soffermandosi però in una località intermedia denominata La Corte.Quivi, sebbene non tutti fuori del tiro dell’artiglieria francese, fu tra le altre disposizioni attivata un’ambulanza pei feriti, che potevano da sé fino là trascinarsi,o v’erano trasportati dai compagni. Ma anche quella posizione venne da ì a poco abbandonata per trasferirsi in altra, detta S. Maria della Pieve, più esposta,peraltro più dominante. Il sopraggiungere intanto delle fresche ed intatte riserve francesi aveva determinato a favor loro la definitiva espugnazione di Solferino.
Quantunque da quell’istante la sorte della giornata potesse riguardarsi decisa, ciononostante la resistenza non ebbe a cessare se non quando il comandante della prima armata mandò a riferire all’Imperatore essergli impossibile di sostenere la posizione sempre da nuove truppe attaccata, e il perché si trovava forzato a retrocedere. Ciò promosse, come si è notato di sopra,l’ordine della ritirata generale, che portò a retrocedere, pel momento, dal Quartiere imperiale fino a Valeggio.
 
Non ho mancato di avvertire, come fin dal mattino la condizione dell’ala destra degli Austriaci aveva acquistato una tal autonomia, che le fu d’uopo mantenere trovandosi quasi fuori di vista dal Quartiere imperiale.Essa aveva per ben due volte respinto vittoriosamente l’esercito sardo da San Martino, obbligandolo anche ad abbandonare la Madonna della Scoperta ed a ritirarsi sino a Revoltella al di là della ferrovia,che costeggia il Lago. La quinta divisione, comandata dal generale Cucchiari, ebbe a subire danni sì enormi da restarne quasi affatto scomposta.Con tutto ciò la perdita di Solferino al centro non poteva non influire anche sulla sorte del corpo di Benedeck, il quale in forza di quel disastro dovette verso le due pomeridiane richiamare i suoi battaglioni di sinistra da Madonna della Scoperta,e solo allora fu quella posizione definitivamente occupata dalla divisione Durando. Rincuorato da questo fatto, ed anche assai meglio dai progressivi vantaggi dei Francesi
al centro, Vittorio Emmanuele, per riparare ai malriusciti attacchi precedenti, ordinò a tutte le sue schiere un nuovo supremo sforzo contro le alture di San Martino e Pozzolengo.
Ciò accadeva dopo le quattro pomeridiane, appunto nell’istante in cui l’ordine della generale ritirata era comunicata a Benedeck, il quale ben si comprende quanto a malincuore si inducesse ad uniformarsi.Né prima egli volle effettivamente piegarsi a sì dura necessità, che non avesse anche per la terza volta, dopo una lotta accanita, contrastato gli assalitori il benché minimo vantaggio.
. Egli si mantenne dunque in quell’ultimo scontro al possesso di San Martino, che non più abbandonò se non alle sette pomeridiane. Ciononostante i Piemontesi,i quali per ragione appunto della ritirata generale ingiunta agli Austriaci, non erano stati inseguiti, mantenutisi nelle alture prossime a San Martino,poterono alla loro volta molestare il retroguardo di Benedeck, ed impadronirsi di tre cannoni, che questi nel suo ripiegarsi fu costretto di abbandonare sul campo.
Non v’ha dubbio alcuno, che le truppe sarde si battessero con somma costanza e bravura, ciononostante quella, né più né meno, come è qui fedelmente narrata, è la vittoria di San Martino, di cui si è voluto stranamente esagerare il vanto.Né io credo, che nazione alcuna, nemmeno la nostra, acquisti valore nell’attribuirsi vittorie, che realmente non ha conseguite.
Lo stesso luogotenente generale Cucchiari, comandante la terza Divisione, nel suo rapporto ufficiale, riportato dallo Zobbi (Cronaca, Vol. II, pag. 315) confessa, che "era sull’imbrunire, quando il nemico sloggiava ancora una volta i nostri da quelle posizioni sulle alture di S. Martino."
Sul declinare della giornata, quasi che anche il cielo a tanta strage umana si corrucciasse, sorgeva dalla conca del Lago di Garda e addensavasi nel tratto di terreno inaffiato sì prodigamente di sangue, un’orrida ed impetuosa procella, che tutto codi oscurità spaventosa, rischiarata solo dalla funesta luce dei lampi. Il fragore dei tuoni, ripercosso dalle nubi e dall’eco delle circostanti colline, superò di gran lunga quello delle che parvero per un istante ammutite; e il vento turbinoso, che toglieva la vista e impediva ogni moto, separò pel momento i combattenti in guisa, che agli uni fu agevolato di mettersi a riparo in luoghi di facile difesa, e gli altri furono arrestati nell’inseguimento.
 
Questo però, al sedarsi della bufera, venne di nuovo tentato; ma una batteria di shrapnels bastò a far desistere quel movimento incalzante ed a proteggere il lento ritirarsi degli Austriaci, a tale che,sino alle ore 10 di sera la brigata Gablentz rimase in Bosco Scuro poco al di sotto di Cavriana, e il retroguardo della seconda armata tenne occupato Guidizzolo, non prima delle undici, gli ultimi battaglioni di Benedeck lasciarono Pozzolengo. La più parte dei corpi non varcarono definitivamente il Mincio se non l'indomani.
Assai lungi dal vero spaziarono i calcoli numerici degli eserciti, che furono spinti l’uno contro l’altro alla zuffa in simile memoranda giornata, non meno che delle perdite rispettive.
del Duca Francesco V, constatate da poi dalle relazioni officiali, portano a cento ventisei mila uomini, compresa la cavalleria, la parte dei due eserciti austriaci impegnati nella battaglia, ed a cento trentacinque mila, pure compresa la cavalleria,il tutto insieme degli alleati. Gli Austriaci contarono peraltro quattrocento dieci cannoni, mentre gli alleati ne avevano che trecento settanta, — ma di questi gran parte rigati,e quindi di molto superiori agli Austriaci, pei quali era cosa nuova e inaspettata. — Viceversa la cavalleria dei Francesi superava di un terzo quella degli Austriaci. E la prevalenza in cavalli era anche assai maggiore di quella in cavalieri. Le relazioni ufficiali stampate dopo, dicono che gli alleati disponevano di 25.238 cavalli, mentre gli Austriaci non ne avevano che 12.496, ossia appena la metà.
Preso poi separatamente lo scontro del corpo di Benedeck contro le divisioni sarde, ascendevano queste con undici batterie ad oltre 40 mila uomini; mentre l’altro, con dieci batterie, non oltrepassava i 22 mila combattenti.

Le perdite furono enormi da ambo le parti; ma quelle dei vincitori superarono quelle dei vinti; i primi ebbero più di 15.000 uomini tra morti e feriti, e gli Austriaci intorno a 12.000: gli uni 3.000 prigionieri, gli altri all’incirca 7.000.
Morti sul campo di battaglia giacquero quattromila ottocento cinquanta: ecatombe umana centuplicata, che nella parte più colta di Europa immolavasi alla dea rivoluzione. Laonde se la vittoria degli alleati non fu del tutto quella di Pirro,non offerse nemmeno ad essi sì splendidi risultati onde avessero a trarne immediato profitto, essendo le truppe stesse, che dovevano avanzarsi erano così esauste diradate e spossate abbisognare di sosta per ristorarsi e ricomporsi. Così l’esercito austriaco, ebbe tutto l’agio di trasferirsi, senza essere molestato dai Francesi sulla sinistra del Mincio, facendo poscia saltare i ponti, che avevano servito al suo passaggio.Il Quartiere imperiale, che la sera stessa della battaglia ritornava a Villafranca, sostituito colà dal Quartiere generale del secondo esercito, si stabiliva a Verona, e quello del primo si collocava a Roverbella.
Solo il primo luglio (quasi dieci giorni dopo la memoranda battaglia) l’oste nemica aveva valicato essa pure il Mincio; ma l’investimento di Peschiera, affidato ai Sardi mal riuscì contro una vigorosa sortita degli Austriaci,che rientrarono nella fortezza traendo considerevole numero di prigionieri.
Né soltanto le perdite enormi e i disagî sofferti dall’esercito francese in giornate così ardenti erano motivo del suo lento avanzarsi: altre cause non meno gravi richiamavano Napoleone III a serie considerazioni sulla gravità dell’impegno,ch’egli aveva assunto ad esclusivo servizio della rivoluzione.
(Vita di Francesco V. -Bayard de Volo. Loc. cit. Cap. LII, pag. 28).

Campo Austro-Lombardo-Veneto dopo la battaglia di Solferino e San Martino.