domenica 16 ottobre 2011

Monarchia tradizionale parte 2:La tradizione delle Spagne.



Vuelvo a mi mismo al cabo de los años,
despues de haber peregrinado
por diversos campos de la moderna cultura europea,
y me pregunto a solas con mi conciencia:
"
¿Soy europeo? ¿Soy moderno?"
Y mi conciencia me responde:
"No, no eres europeo, eso que se llama ser europeo;
no, no eres moderno, eso que se llama ser moderno...

- Miguel de Unamuno (1)
 

L'Europa e le Spagne
Molti degli interpreti della storia della Spagna hanno ritenuto che la nostra condizione fosse quella di europei. Ragioni di geografia o desideri di non eludere criteri suggestivi per i semplici, instradavano le immagini verso quella di una partizione dell'universo all'interno della quale la Spagna costituiva una parte della penisola iberica e questa si trovava situata all'estremo sud occidentale del continente europeo. Non si rendeva così ragione del fatto che l'Europa aveva cessato da tempo di costituire una considerazione geografica per innalzarsi a contenuto di un concetto storico. Non è lecito vedere nell'Europa la figlia di Agenore rapita da Jupiter, né la sorella dell'argonauta Eufemo, né l'oceanide gemella dell'Asia, come pretendeva l'antica mitologia classica; tantomeno è lecito considerarla una fra le cinque parti fra le quali suole suddividersi il mondo, più o meno addossata all'Asia, secondo Humbolt, o indipendente, secondo la concezione di Ritter. Quando oggi si parla di Europa, si allude "all'europeo"; si dà, cioè, al vocabolo un senso culturale e, pertanto, storico che deve essere ineludibilmente concretizzato.
Fu Christopher Dawson a presentare con tratti geniali l'apparizione dell'Europa in un determinato momento temporale, stabilendo come essa fosse un prodotto della storia. Nel corso del secolo XI della nostra era, le culture che si disputavano il suolo dell'Occidente apparivano varie: la cultura araba della penisola iberica, quella bizantina ancorata all'est del Mediterraneo, quella degli slavi, dei baltici e dei finnici e, da ultima, la cultura nordica del nord est, coincidente più o meno con i confini dell'impero carolingio. Fu questa ultima cultura di conio franco quella che, nel suo espandersi, forgiò il sentimento culturale europeo, lo stesso della civilizzazione nel cui seno si trovano gli spagnoli (2).
Dalla magistrale analisi del Dawson risulta definitivamente accertata la separazione fra la geografia e la storia dell'Europa, se si vuole spiegare che cosa l'Europa sia. Con un'altra conseguenza implicita: che l'Europa è un concetto storico e, a causa del suo essere storico, è un concetto polemico; è un tipo di civilizzazione, uno stile di vita, una concezione dell'esistenza, è quello che i tedeschi chiamerebbero una "Weltanschauung".
Coloro che si raggruppano sotto il segno di questa civilizzazione non si trovano situati solamente nelle terre dell'occidente nel quale tale tipo di vita si formò. Il canadese o lo "yankee" in America, il sudafricano in Africa e l'australiano in Oceania estendono a lontane terre i medesimi parametri di vita e si sentono parte integrante degli usi, della cultura e perfino di una comunità linguistica che ebbe la sua culla nelle terre dell'occidente europeo.
Le divergenze dal punto di vista di Dawson iniziano quando si comincia a illustrare il contenuto di questo tipo di civiltà. Secondo Dawson la civiltà moderna, successiva alla rottura luterana dell'orbe gerarchico medioevale, non è altro se non il logico prolungamento di quell'ordinato sistema di popoli che si chiamò Cristianità; opinione che non deve sorprendere in chi, malgrado la straordinaria lucidità di idee che lo contraddistingue, vive immerso in quel particolare orizzonte inglese nel quale si conservano in grado così elevato le forme della vita medioevale, quantunque solo come alveo dell'esterno scorrere degli avvenimenti.
Ma per noi che non conserviamo unicamente le forme canalizzatrici della vita medioevale ma pure i suoi contenuti, la continuità tra il mondo cristiano e il mondo moderno ci pare oltremodo discutibile. Basta che un qualsiasi spagnolo del nostro tempo si affacci al di là dei Pirenei, e non diciamo al di là del Reno o del Canale della Manica, perché tocchi con mano il contrasto non già delle forme della sua esistenza di fronte a quelle dell'ambiente circostante, quanto della sua temperie spirituale di fronte a quelle degli uomini della altre terre. Il perdurare sul suolo iberico di alcune tematiche umane di tipo cristiano e medioevale recisamente distinte da quelle che abbondano in Germania, in Francia o in Inghilterra, è qualcosa che salta all'occhio, in quanto sotto la falsa crosta di analoghe educazioni possiamo toccare qualche fibra nervosa sensibile, come la concezione di Dio o la concezione della donna.
Contrasto che risulta con non minore crudezza quando si confronti l'uomo degli Stati Uniti o del Canada con quello che abita dal Rio Grande del Nord in giù. Il messicano o l'argentino, il brasiliano o il cubano ripetono ancora oggi reazioni simili perché procedono da una stessa peculiare temperie dell'essere.
Dalle quali differenze risulta, già al primo contatto con il problema, come non si possa unificare l'Occidente, l'Occidente dei secoli cristiani perpetuato dai popoli ispanici, con il nuovo tipo dell'"europeo" moderno. Si è ripetuto fino alla noia che l'Europa terminava nei Pirenei, e ciò è certo purché non si supponga, all'interno di un semplicismo da ginnasiale saccente, che dopo l'Europa cominci l'Africa; perché ciò che inizia nei Pirenei è l'Occidente pre europeo, una zona nella quale respirano ancora le vestigia tenacemente radicate della Cristianità che si rifugiò lì dopo essere stata soppiantata in Francia, Inghilterra o Germania dalla visione europea delle cose, secolarizzata e moderna.
Contro il parere di Dawson, pertinente a un inglese, è facile percepire prima e quindi comprendere, nelle terre spagnole, che il tipo di civiltà germogliato nel tramonto dell'Età Media sostituendo precisamente quella della Cristianità, consiste nel ritorno a determinate maniere di vivere precristiane. Formule nuove che implicano la negazione della tavola dei valori del mondo medioevale; l'Europa non nasce nella cerchia di Carlo Magno, che è la restaurazione dell'impero cristiano nella gerarchizzazione organica dei popoli, più tardi presieduta dagli imperatori germanici; l'Europa nasce, al contrario, al lusinghiero richiamo delle idee dette per antonomasia moderne, nella congiuntura del rompersi del serrato ordine del medio evo cristiano. La Età Media dell'Occidente ignorava il concetto di Europa, perché conosceva solo quello del suo antecessore: il concetto di Cristianità.
L'Europa
Questa contraddizione con la circostanza che incita l'uomo iberico o quello del Sud America contro l'inglese e contro lo "yankee" è solo sentimento o al contrario fa eco a realtà storiche capaci di spiegare tali sentimenti?
La risposta risulterebbe se fosse possibile indicare per quali aspetti il mondo moderno, che è l'Europa, differisce dall'orbe medioevale che i popoli cristiani perpetuano.
Lo schema degli aspetti potrebbe essere il seguente.
La Cristianità concepì il mondo come raggruppamento gerarchico di popoli intrecciati secondo principi organici, subordinati agli astri di San Bernardo da Chiaravalle: il sole del Papato e la luna dell'Impero. Le numerose eresie erano portate e rimosse dalle tempeste dei tempi senza alterare la quiete serena e totale del cielo teologico al quale innalzava gli occhi una moltitudine prosternantesi nella fede. Le strenue lotte non ostacolavano l'unità dei sentimenti e, al di sopra dei nembi temporaleschi si incendiava lo splendore di un'ansia di fratellanza, incitata allorché il contatto con i nemici del Cristo infiammava i popoli di frontiera, come in Spagna, o i crociati pellegrini armati in Palestina. All'interno della Cristianità la superiorità dell'Impero era riconosciuta dai principi e dai re; anche all'interno di ogni giurisdizione gli uomini si ordinavano in scale di corporazioni, confraternite e stati, egualmente articolate nelle condizioni di chierici, cavalieri e popolo. L'idea della gerarchizzazione dei popoli era talmente radicata nelle coscienze che la si teneva in conto perfino per stabilire il diritto di precedenza nel sedersi nei concili; il grazioso intervento del conte di Cifuentes nel nome di Juan II di Castiglia contro gli ambasciatori del re di Inghilterra nel concilio di Basilea del 1435 è una esemplare dimostrazione alla quale se ne potrebbero aggiungere molte altre. Francesc Eiximenis giunge a fornire lo schema dell'ordine gerarchico dei regni cristiani. E' che la "pax christiana" procedeva da una concatenazione di sistemi politici e non da un qualche equilibrio più o meno stabile, ossia instabile, di alleanze.
La Cristianità muore per lasciar nascere l'Europa quando questo perfetto meccanismo si rompe dal 1517 fino al 1648 in cinque successive fratture, cinque ore di parto e allattamento dell'Europa, cinque pugnali nella carne storica della Cristianità; vale a dire: la frattura religiosa del protestantesimo luterano, la frattura etica con Macchiavelli, la frattura politica per mano di Bodin, la frattura giuridica in Grozio e in Hobbes e la definitiva frattura del corpo mistico cristiano con le disposizioni della pace di Westfalia. Dal 1517 fino al 1648 l'Europa nasce e cresce e nella misura in cui nasce e cresce l'Europa, la Cristianità agonizza e muore.
La prima frattura la produce Lutero, vero padre dell'Europa. Perché l'eresia luterana è identica a molte delle eresie medioevali per la qualità della materia eretica, e ripete alla lettera perfino alcune di esse, come quella di Wycleff e Huss nella concezione carismatica del potere politico, nella negazione della trasustanziazione eucaristica e nell'eccitare gli animi dei contadini nelle guerre dei "lollardi" o nella "Bauernkrieg"; tuttavia si differenzia fra tutte per la gigantesca diffusione e il radicamento che l'occasione propizia le offre. Mentre la Cristianità medioevale anteriore a Lutero era, malgrado tutte le fessure, un edificio politico fondato sull'unità della fede, a datare da Lutero tale unita sarà impossibile. Dopo Lutero, con lo scomparire dell'unità della fede, muore l'organicità spirituale della Cristianità, che viene sostituita dall'Europa, equilibrio meccanicista fra credenze differenti che coesistono. Diretta sequela dell'instaurazione del libero esame; invece di una fede unica la paritaria considerazione delle credenze; in luogo della medesima visione dei testi sacri, tante interpretazioni quanti lettori; il libero esame è il meccanismo formale dell'esterna armonia fra i credenti, al posto del corpo organico della Chiesa che servì da colonna vertebrale alla Cristianità medioevale.
La paganizzazione della morale si aggiunge alla perdita dell'unità delle coscienze; tale è il machiavellismo. La "virtus" era, secondo la Scolastica, freno al desiderio, dominio sulle passioni, argine agli impulsi; per Machiavelli la "virtù" sarà ciò che già era nel paganesimo anteriore al Cristianesimo, cioè ambizione dominatrice del fato avverso, spada che taglia l'ordito della fortuna nemica, potere che si giustifica senza scrupoli per il mero fatto di essere potere. Con il passaggio dal latino all'italiano, la radice linguistica è passata dal Cristianesimo al paganesimo; e nel giustificare da sé stessa la volontà imperiosa, nel permutare la "virtù" in nuovo criterio etico, Machiavelli ha sostituito l'etica organica della Scolastica, che riferiva le azioni dell'uomo al giudizio di Dio, con un'altra etica, pagana, nella quale il bene e il male risultano dall'urto o dall'equilibrio meccanicistico fra volontà bramose di potere. Machiavelli è l'altro padre dell'Europa: come Lutero separò l'uomo da Dio nel suo lato terreno a forza di consegnarlo a mani legate a Dio nella sua tappa ultraterrena, così Machiavelli ha separato l'etica dalle sue fondamenta religiose. La virtù è la "virtù", ossia il vigore che assoggetta gli avvenimenti alla volontà dell'uomo in un gioco rigidamente meccanico di forze; e la società risulta costituita intorno alla costellazione di forze che predomina quando questo nuovo pagano che è "l'uomo virtuoso" vince l'incostanza della avversa fortuna.
Il meccanicismo che Lutero produce nelle coscienze e il meccanicismo che Machiavelli trasporta ai comportamenti, sarà il nuovo meccanismo della politica quando Jean Bodin secolarizzerà il potere nella sua teoria della "souverainité". Per porre termine alle lotte fra cattolici e protestanti in Francia sorge un terzo partito, quello dei "politici", che proclama la neutralizzazione del potere reale scindendolo da qualsiasi contenuto religioso e, pertanto, la possibilità di obbedire a un principe senza tenere conto di Dio, istituendo una relazione diretta e neutra fra suddito e sovrano. Tale corrente, difesa ne Les six livres de la République e che raccoglieva la eredità assolutistica dei romanisti della scuola di Tolosa, degenerò quindi in un crescente assolutismo fino al 1789, e la sua massima espressione sarebbe stata l'iscrizione che Luigi XIV ordinò di collocare nel Salone degli Specchi del suo palazzo di Versailles: "Le roi gouverne par lui-mê me", riflesso di quell'altra massima, "L'Etat, c'est moi", che tanta fortuna ebbe. Un assolutismo che faceva a pezzi l'armonica varietà del corpo sociale cristiano per irrobustire il potere del governante e che, pertanto, suppone una nuova ulteriore frattura dell'ordine organico medioevale per sostituire al corpo mistico della società cristiana tradizionale un nuovo equilibrio meccanicamente poggiato sullo scettro onnipotente dei re del dispotismo illuminato.
Meccanicistica è anche la nuova filosofia del diritto di Hugo de Groot e di Thomas Hobbes, un nuovo diritto naturale soppiantatore di quel diritto naturale della Scolastica che si fondava sull'ordine proporzionato della creazione. Ciò che separa Grozio da san Tommaso o Hobbes da Duns Scoto è precisamente che con i pensatori del XVII secolo principia la secolarizzazione della filosofia del diritto, consistente nel vedere nel diritto naturale appena la legge interna del funzionamento meccanico di una macchina. Dove san Tommaso considerava l'ordine universale retto da norme dettate dal suo Cretore, Grozio non vede più che un ordine soggetto a leggi che si compiono indipendentemente dall'Autore della Natura. Dove Duns Scoto riferiva l'ordine alla volontà divina, Hobbes considera la sola volontà umana separata dall'ordine che la volontà divina ha creato. Eliminando Dio dalle due concezioni, tomista e scotista, intellettualista e volontarista, della Scolastica, la si fa finita con il principio divino che era al centro dell'organico sviluppo della struttura del diritto naturale, riferendolo piuttosto al meccanico equilibrio delle forze razionalmente intese da Grozio o puntualmente descritte da Hobbes.
E, finalmente, è egualmente meccanicistica la marcia delle istituzioni politiche europee, contrarie alla serrata organicità di quel "corpus mysticum" che fu la Cristianità medioevale. Nella politica interna all'assolutismo demolitore dei re succederà o l'assolutismo demolitore delle democrazie, o il sistema di freni e contrappesi meccanici di Montesquieu; nella politica internazionale dalla pace di Westfalia il gioco delle relazioni fra potenze sarà un sistema di equilibri di alleanze e contro-alleanze.
Europa è meccanicismo, tendenza alla neutralità del potere, coesistenza formale di fedi, paganizzazione della morale, assolutismi, democrazie, liberalismi, guerre nazionali o di famiglie, concezione astratta dell'uomo, Società delle Nazioni, ONU, parlamentarismo, costituzionalismo liberale, protestantesimo, repubbliche, sovranità limitate di principi o di popoli. La Cristianità era, a sua volta, organicità sociale, visione cristiana del potere, unità della fede cattolica, poteri temperati, crociate missionarie, concezione dell'uomo come essere concreto, Parlamenti rappresentativi della realtà sociale intesa come corpo mistico, sistemi di libertà concrete. Ossia, malgrado l'unità postulata dal Dawson, due civiltà e due culture contrarie: Europa, la civiltà della rivoluzione; Cristianità, la civiltà della Tradizione cristiana.
Le Spagne
Dal 1517 fino al 1648, da Lutero a Münster, l'Europa cresce e la Cristianità agonizza; questi centotrentuno anni costituiscono l'alba della civiltà europea e i rantoli della civiltà cristiana.
Non fu tuttavia in piano, né senza lotte il trionfo della Rivoluzione che l'Europa è. Nel cantone sud occidentale dell'Occidente, là dove terminavano i confini geografici dell'orbe antico, un pugno di popoli capitanato dalla Castiglia costituiva una vera Cristianità minore e di riserva, rude e di frontiera, che si chiamò "le Spagne", tesa nel quotidiano combattimento contro la costante minaccia dell'Islam.
Erano, questi, popoli vari e diversi. L'Andalusia era stata acquisita dalla Castiglia ai tempi del XIII secolo, quando san Ferdinando battezzò con le acque del sacro Betis i millenari torpori degli uomini della terra santa. Le tribù basche infrapirenaiche erano poco a poco venute a unire i loro sforzi alla guida castigliana e, dal principio del XVI secolo, donano alle Spagne il meglio del secolare tesoro del patriarca Aitor. Il circolo celtico dell'Occidente, scisso all'epoca del XII secolo, è unità di fede sotto Filippo II, unità dimostrata da Geronimo Osorio, la testa più superba della storia del pensiero portoghese. La federazione catalano-aragonese, altissima culla delle libertà politiche, riunisce i propri sforzi per l'impresa spagnola. Nel XVI secolo, grazie all'otto volte secolare allenamento della Reconquista, siamo l'unico bastione della Cristianità e i soli a trovarci "in forma" per l'eccelso sport di difendere la cattolicità romana. Per questo demmo l'esempio, nelle pianure lombarde o attraverso i pantani fiamminghi, in terre da poco conosciute nell'antica India o attraverso pezzi di pianeta sconosciuti ai geografi classici, di uomini rudi e violenti che servirono Cristo, capaci come uomini di cadere in tutti i peccati della carne, ma come ispanici incapaci di peccare contro il primo dei comandamenti della legge di Dio, nell'impresa più portentosa che a memoria d'uomo si ricordi.
Il risultato fu l'esaurimento, fratello gemello della disfatta, ma non la sconfitta spirituale. Gli spagnoli, serrando le fila, combatterono contro l'Europa che sorgeva in difesa della Cristianità che agonizzava, in difesa del senso cristiano della vita, in difesa della struttura gerarchica dei popoli, in difesa di un ordinamento sociale fondato sulle libertà concrete. "Noi abbiamo avuto - ha scritto Vicente Palacios Atard - un programma politico valido per il mondo intero. Noi, quelli che non siamo europei, quelli che viviamo isolati dietro ai Pirenei. E non solo lo abbiamo avuto, ma abbiamo fatto di più: lo abbiamo sostituito. Volevamo un mondo nel quale le relazioni internazionali non fossero posate sopra i deboli patti scaturiti dalla convenienza del momento, dai soprusi unilaterali dei potenti; volevamo che le basi dell'ordine internazionale fossero penetrate dall'idea della universitas christiana" (3).
E' vero che la tensione di una costante disposizione alla lotta fu pregiudizievole per le libere istituzioni di alcuni popoli, come nel regno di Aragona; lo spirito continuava però a essere quello medioevale, nonostante gli incipienti eccessi di un assolutismo posticcio, e nell'essenziale continua la vecchia tematica delle istituzioni forali: in Sardegna fino al 1700, in Catalogna fino al 1716, in Navarra fino al 1841.
La monarchia federativa e missionaria delle Spagne non volle cedere neppure di un pollice contro la crescente marea di un'Europa ogni giorno più robusta, e quando cedette fu per non poter resistere oltre alla contesa; da lì la nostra caduta verticale e rapidissima, vertiginoso precipitare in un abisso. I nostri avi, giudicando con criteri da crociati, non si piegarono a intendere la sconfitta né a prevedere l'esaurimento. Essi si comportarono come nobili generosi più che come politici prudenti, preferendo il precipitare al risparmiare, tanto più che precipitavano nobiltà eroiche al servizio della più elevata delle imprese concepibili nei sogni del cavaliere: la difesa della fede cattolica.
La Castiglia impose il suo sigillo e si trascinò nella sua nobile follia il posato commerciante catalano, il duro sardo, il sognatore napoletano, l'indifferente andaluso, il basco semplicemente valoroso e il gagliego o il portoghese di stirpe celtica. Tutto fu eroico, e la maggior eroicità fu di sacrificare coscientemente la storia concreta alla sovrastoria che nobilita, sempre bruciando le navi in un olocausto che ripete identico quello di Hernán Cortés. Percorre le vertebre dell'impero l'opinione di Fernán Pérez de Guzmán, spiegazione profetica del nostro stile politico: "E, a mio modo di vedere - diceva già nel secolo XV -, questo estremo di prodigalità, anche se vizioso, é meglio o meno peggio di quello dell'avarizia, perché dei grandi doni del prodigo approfittano in molti e dimostrano grandezza di cuore" (4).
L'umanità si avvantaggiò della nostra prodigalità, e grazie al nobile difetto della illimitata generosità si prega il Dio romano nel cuore dell'Europa e vengono al loro oriente i popoli di colore che dimorano nelle remote lontananze. In un'alluvione di entusiasmi la Castiglia trascinò gli altri ispanici attraverso i sentieri della prodigalità al servizio della fede. Forse il nostro destino sarebbe stato diverso se l'egemonia fosse ricaduta nelle mani del Principato catalano, come avrebbe potuto molto facilmente accadere senza gli errori della politica oltrepirenaica di Giacomo I il Conquistatore; tuttavia perfino il massimo atto dell'espansione catalana, nella prima metà del XV secolo, fu presieduto dalla fermezza di un castigliano quale Alfonso V, e i fatti dicono che fu la Castiglia il condottiero, e condottiero insigne di crociati.
Quevedo già ci espone la disfatta psicologica nel suo España defendida y los tiempos de ahora, de las calumnias de los noveleros y sediciosos. La data di questo scritto è simbolica: 1609, lo stesso anno della forzata tregua con le Provincie Unite; il triste anno del primo bussare dello scoraggiamento. In quell'opera Quevedo non cessa di domandarsi il perché della universale avversione contro il suo Re. Quale profondo scoraggiamento e che trepidazione di presentite angustie vibra quando questo nobile, che non aveva ancora compiuto i trent'anni, chiama la sua patria: "Infelice Spagna"!
La disfatta militare nell'arco di sessant'anni, iniziata a Rocroy, si compie diplomaticamente con i trattati premessi al doppio patto di Westfalia, l'inizio del nostro "98", come con una felice espressione Ernesto Giménez Caballero ha definito i gradini della nostra decadenza, quantunque poi non sia tanto sicuro nel discernere quali essi siano (5).
La delusione della disfatta si insinua appena in quei nobili, generosi fino all'incoscienza. Don Chisciotte continua a credersi cavaliere nei suoi umilianti rotoloni; e gli uomini delle Spagne, castiglianizzati fino al chisciottismo, ripetono cocciuti la loro ostilità contro l'Europa vincitrice, confidando nel fatto che i paladini del Signore devono ricevere aiuto, anche miracoloso, dall'alto. Perduta la supremazia nel mondo, serrati nell'odio e nel disprezzo dall'Europa trionfatrice, continuano ad aggrapparsi tenacemente ai principi della loro nobiltà, impegnati a non essere europei. Tra la dignità e il potere, optano per la dignità; fra la fede e il commercio abbracciano la croce per dignità e considerano il mercanteggiare come un affronto; idealisti, chimerici, orgogliosi, a furia di avere le pupille ebbre dell'azzurro del cielo, vanno incespicando attraverso il fango delle cancellerie o dei campi di battaglia.
Non c'è contraddizione maggiore di quella tra la mentalità ispanica e la mentalità europea durante il XVII secolo. Amsterdam prospera mentre Siviglia decade; e, fanatismo contro fanatismo, protestanti e cattolici si osservano in agguato in una ancora latente contesa di incomprensioni.
Pochi anni fa, quando incominciai a studiare i fili culturali tra Spagna e Scandinavia, posi in rilievo un fatto che simboleggia questa contrapposizione: l'atteggiamento di attonita meraviglia con il quale il nobile spagnolo, di sangue goto e di fede romana, guarda i sudditi di Gustavo Adolfo, prototipi di nobiltà per il loro purissimo sangue gotico, però macchiati dalla più turpe delle macchie che disonorano il cavaliere: l'eresia (6). Atteggiamento attonito che all'altro estremo riflettono anche gli scandinavi e che è indice della più difficile delle problematiche che poterono alterare la serenità di quei petti credenti e nobilitati.
Miguel de Cervantes mise in bocca al suo massimo eroe il massimo della nobiltà eroica delle Spagne castiglianizzate, collocando la voce della saggezza nel cappellano aragonese dei duchi. Quello che il cappellano dice era la voce del senno di coloro che vedevano sopraggiungere l'imminente disfatta, se non si fosse rinunziato a quell'impegno colossale e generoso di fare la sovrastoria impegnandoci nell'arrestare la ruota dei tempi allorché gli orologi segnavano l'ora dell'Europa e non l'ora della Cristianità. "E a voi, anima stupida - dice sensatamente il cappellano -, chi ha messo in testa che siete cavaliere errante e che vincete giganti e catturate malandrini? tornatevene a casa vostra, e allevate i vostri figli, se ne avete, e prendetevi cura dei vostri beni; e smettetela di andar vagando per il mondo, pascendovi di vento, e facendo ridere quelli che vi conoscono e quelli che non vi conoscono" (7).
Le Spagne seguitavano tuttavia a spingere per la redenzione di popoli che, eretici o pagani, non si lasciavano redimere, e alle osservazioni connesse con i primi scoraggiamenti rispondevano con don Chisciotte disprezzando la sensatezza in nome dell'eroismo, della fede e della nobiltà. "E' per caso - dice il nobile - cosa vana o é tempo male speso quello che si impiega nel vagare per il mondo, non cercando i regali di esso, ma le asperità per le quali i buoni salgono al seggio dell'immortalità? Se mi avessero considerato stupido i cavalieri, i magnifici, i generosi, gli uomini di alto lignaggio, la giudicherei un'irreparabile offesa; ma che mi ritengano uno sciocco gli studenti, che non si sono mai messi e non si sono mai avventurati pei sentieri della cavalleria, non me ne importa un fico secco: cavaliere sono, e cavaliere morirò, se così piace all'Altissimo. Gli uni si muovono sul vasto terreno della superba ambizione; altri, su quello dell'adulazione bassa e servile; altri, su quello della ipocrisia ingannatrice, e alcuni, su quello della vera religione; io invece spinto dalla mia stella, procedo per l'angusto sentiero della cavalleria errante, e per esercitarla non mi curo delle ricchezze; ma non così dell'onore. Io ho riparato offese, raddrizzato torti, castigato insolenze, vinto giganti e sgominato mostri" (8).
Tali erano le maniere delle Spagne. Come sempre suole accaderci, esageriamo le cose e, nell'esagerare il sentimento del nobile fino allo stesso disprezzo di una materia tanto necessaria quanto la è quella dei beni di fortuna, pregiudichiamo l'ideale della Cristianità che dicevamo di servire. Fu l'opera del genio eroico della Castiglia sempre assetato di sovrastoria; forse qualche goccia catalana di maggior attenzione per le ricchezze avrebbe salvato l'onore dal ludibrio, risparmiando alle Spagne il loro tre volte secolare Calvario e conservando quella Cristianità che dal 1648 è un puro ieri ideale sostituito dalla nuova realtà: l'Europa. Una Europa che è la negazione diametrale di ciò che volevamo nella storia.
La europeizzazione assoluta
Gli Austria terminarono senza cedere nel loro eroico impegno di conservare la Cristianità propugnandola secondo le usanze castigliane. Impegno nocivo per eccesso di idealizzazione e disaffezione della terra che si calpesta; il rimedio fu tuttavia peggiore allorché, stanchi del chisciottismo eroico, tentammo di superarlo con il rimedio di soppiantarlo con le tre formule che successivamente erano venute imperando nell'Europa vittoriosa: l'assolutismo del XVIII secolo, il liberalismo del XIX secolo e il totalitarismo del XX secolo.
Carlo II, quando firmò il suo testamento, simboleggiò la sua monarchia nobile e cattolica con le parole: "Io non sono niente". Quando invece Luigi XIV disse, vero o leggendario che sia, che "non c'erano più Pirenei", procurò un contenuto alla svuotata monarchia: l'assolutismo francese, allora formula politica dell'Europa.
Il rimedio sarebbe stato non rimanere abbagliati davanti alla onnipotente Francia ma accettare la formula del marchese di Villena quando nel 1701 pretese l'avviso di convocazione delle Cortes di Castiglia per qualche cosa di più della partecipazione alla cerimonia del giuramento reale. La tesi del marchese di Villena era la soluzione ispanica di fronte alla stranierizzazione: passate le fasi della lotta violenta e riconosciuta la vittoria europea, ristabilire le istituzioni che la costante tensione delle armi aveva oscurate. Villena voleva restaurare le Cortes, liberandosi degli errori che venivano commessi in politica interna fin da Carlo I, salvando le Spagne attraverso la via normale della loro tradizione. Quel suo argomento "Era giusto che il Re rispettasse i Fueros" di Castiglia (9), è la più antica delle esposizioni del tradizionalismo spagnolo e contro la stranierizzazione assolutistica rappresenta quello che il Manifiesto de los Persas rappresentò contro la stranierizzazione liberale: la linea esatta della tradizione politica spagnola.
Filippo V, educato in Francia, innamorato delle formule che fecero grande il suo paese di nascita, non poteva però acconsentire al ritorno a una tradizione che non comprendeva e che era perfino opposta alla educazione che fin da bambino era stata inculcata al duca di Anjou. Per la sua mentalità assolutistica, francese e geometrica, risultava accessibile solo l'immagine di una bellezza politica uniforme e egualitaria: egli doveva reputare come mostri storpi e deformi quei "fueros" tradizionali di una monarchia che, indifesa, gli veniva consegnata nelle mani dalla paura madrilena dei potenti eserciti di suo nonno. Per questo, invece di ristabilire le libertà castigliane, sacrificate in Villalar alla missione universalmente antieuropea che la Castiglia inalberava, il cui sacrificio era però inutile dal momento in cui la stessa Castiglia rinuncia alle sue nobili avventure, Filippo V conformò l'eccezionale della Castiglia del 1700 ai suoi pregiudizi gallici, e adottò come migliore soluzione la trasformazione in assolutismo di sistema di quello che era stato un necessario espediente nella due volte secolare lotta contro l'Europa.
E` che Filippo V è già un europeo seduto niente meno che sul trono di Castiglia e senza l'occasione di castiglianizzarsi come due secoli prima si era castiglianizzato Carlo I. Per questo, invece di castiglianizzare la Castiglia, la europeizzò in conformità con il padrone di moda: l'assolutismo francese. E una volta riparata la mercanzia straniera sotto l'autorità castigliana, consumò la frode storica stranierizzando i popoli della Corona aragonese sotto il pretesto di castiglianizzarli. Il decreto firmato nel Buen Retiro il 29 giugno 1707 segna una delle date più tragiche della nostra storia, per l'equivoco che comporta il presentare l'infrancesizzazione come castiglianizzazione. "Ho giudicato poco conveniente - dice Filippo d'Anjou, europeo regnante in Castiglia - sia per questo, che per il mio desiderio di ridurre tutti i miei regni di Spagna all'uniformità delle stesse leggi, usi, costumi e tribunali, governandoli ugualmente tutti con le leggi della Castiglia, tanto lodevoli e accettabili in tutto l'universo; di abolire e derogare completamente, come immediatamente do per aboliti e derogati, tutti i detti fueros, privilegi, pratiche e costumi fin qui osservati nei detti regni di Aragona e Valencia; essendo mia volontà che questi si riducano alle leggi di Castiglia e all'uso e alla pratica e alla forma di governo che si tiene e si è tenuto in essa e nei suoi tribunali, senza differenza alcuna in nulla".
A questi termini del decreto si commisura la sua applicazione. Filippo V, ben lungi dall'attenersi al consiglio del marchese di Villena, il quale postulava il ritorno alla tradizione politica autentica delle libertà castigliane, infrancesizzerà e europeizzerà le istituzioni della Catalogna, dell'Aragona e di Valencia. Ciò che nel 1707 decreta per l'Aragona e Valencia non verrà applicato da uomini formati nello spirito delle libertà patrie; suoi ispiratori saranno un francese e un infrancesizzato: l'ambasciatore di Francia, Amelot, e l'ultrainnovatore Melchor de Macanaz, uno dei tipi più ripugnanti di tutta la storia che conosco, simbolo della prima ondata degli assolutisti e degli scettici "a la mode", di quelli il cui facile e vergognoso destino finisce per essere, specie di flagello delle cavallette avide, il cibarsi dalle cariche pubbliche contro la martoriata carne delle nostre tradizioni popolari.
Macanaz è l'incaricato, munito di pieni poteri, che si assume la funesta gloria di schiacciare la tradizione di Valenza, riparandosi dietro a supposte slealtà verso il governante di Madrid, primo esempio di abilità dell'anti - Spagna che in seguito si ripeterà con frequenza eccessiva. Il suo Informe dado al Rey sobre el gobierno antiguo de Aragón, Valencia y Cataluña; el que se había puesto desde que se las sujetó con las armas y lo que convendría remediar, è il primo atto notarile della nostra vergogna e la prima testimonianza solenne di come da Madrid si comincia a favorire l'europeizzazione delle Spagne. Il paragrafo 83 di questo Informe sottolinea l'odio inesauribile dell'autore verso i modi della libertà spagnola; non contento di averla assassinata con violenza nei regni di Valencia e di Aragona, pretende di ammazzarla in Catalogna: "e - postula il 27 di maggio del 1713 - quando si dovrà regolamentare quel Principato converrà renderlo in tutto il più possibile uguale ai regni di Aragona e Valencia, e sotto le stesse norme che si sono stabilite" (10).
Si trovano condannati così a morte gli ultimi residui di quelle libertà catalane che furono l'espressione più elevata di buon governo che a memoria d'uomo si ricordi; e vengono condannate da un pedante infrancesizzato, rabbioso traditore della più nobile delle cause della storia. Ciò che di Aragona si ristabilisce nel 1711 e che della Catalogna si mantiene grazie al decreto del 16 gennaio 1716 è il diritto privato; del diritto pubblico nulla, nulla di quel diritto pubblico che costituisce incomparabile miracolo e meraviglia. Finiva così, al riparo del pretesto del castigo di una ribellione, il più libero dei sistemi politici che la storia abbia conosciuto e la più alta vetta della perfezione governativa di tutti i tempi. Oltre ad aver fatto svanire nel 1648 i sogni universali e cristiani della Castiglia, l'Europa vincitrice penetra nel nostro seno per schiacciare le libertà aragonesi.
La lotta delle Spagne contro l'Europa dal 1700 cambia campo di battaglia. Ora si combatte all'interno. Siamo un manipolo di popoli che pretende di perpetuare i propri modi di vivere, ma nelle nostre minoranze di governo si suscita una competizione da neofiti nell'europeizzazione, un anelito di scrollarsi la polvere della propria storia.
Non lottiamo più all'estero per imporre l'"ordo christiano" contro il meccanicismo internazionale; facciamo piuttosto guerre all'interno dell'orbita delle alleanze e delle controalleanze. Non pugnamo mossi dagli ideali della fede; combattiamo per patti di famiglia, per contribuire al benessere della Casa di Borbone, riconoscenti per il beneficio di averci infrancesizzato. E all'interno la moda francese raderà al suolo i nostri residui di ispanismo. Le "navi della Ilustración" (11) distribuiranno fra i gruppi intellettuali più selezionati di America il seme europeo che sarà il discredito del nostro meraviglioso chisciottismo, o insegneranno dottrine roussoviane o mostesquieuane, senza per nulla rammentarsi delle nostre libertà che un giurista traditore e un ambasciatore francese avevano terminato di estinguere (12).
Il popolo si opporrà sino alla fine, nonostante vengano proibite le ordinanze sacre (13), all'espulsione dei figli del Loyola in quanto nemici delle Spagne - cosa che, senza dubbio, incarnavano rispetto ai ministri massoni di Carlo III -; e a che la corte sia una piccola Versailles negli scandali come nei vizi. Dalla mia terra di Estremadura, la terra rissosa dei conquistatori, usciranno i paladini: nel teatro, Garcìa de la Huerta; nella polemica, Forner. Qui, nell'angolo meno europeo, la tradizione aveva i suoi teorici; ma l'onda soggiogatrice dell'europeizzazione guadagnava adepti giorno dopo giorno.
Durante il XVIII secolo contempliamo due Spagne una contro l'altra: quella che vuole tornare ai suoi modi tradizionali e quella che vuole essere come é; quella popolare e quella ufficiale, quella spagnola e quella europea. Nel 1776, padre Jerónimo Ferdinando de Zevallos pensa ancora che la grandezza della monarchia fosse legata al suo carattere cattolico (14); ma al doppiare il capo del 1800, le classi illuminate sono completamente europeizzate ed iniziano l'opera di abbattimento della Spagna tradizionale in ciascuno dei popoli spagnoli: in Cadice, votando la Costituzione del 1812; nelle terre americane, rinnegando l'unità delle Spagne. Lo staterello che dal 1810 disgrega in venti pezzi il colossale impero castigliano, non fu solo rottura tra popoli, ma anche rinnegamento del passato.
La tradizione comune della Chiesa venne rinnegata tanto nella chiesa di san Filippo Neri a Cadice quanto nei conciliaboli di Caracas; l'una e gli altri, da ambo i lati dell'Atlantico, aspirano all'europeizzazione, a farla finita con l'eredità di Castiglia per copiare i seducenti modi dell'Europa. Il vento spazza le sponde tuonando con burrasca rivoluzionaria; e in quella vertigine di tradimenti collettivi, accentuata dalla politica borbonica ufficiale del secolo XVIII, le Spagne venivano tradite sia dagli europeizzanti di Quito che dagli europeizzatori delle Cabezas de san Juan (15). La frammentazione ebbe luogo perché, con lo scomparire dei pilastri spirituali dell'impresa antieuropea - l'unità nella fede e la lealtà verso il re -, l'unità delle Spagne mancava della ragione d'essere e ogni popolo si lasciava trascinare dal richiamo tellurico della stretta geografia.
Tutti quanti i mali che caddero su di noi provennero dal non aver ascoltato i consigli del marchese di Villena, non restaurato le tradizioni politiche di Castiglia, non rinvigorito quelle degli altri popoli peninsulari e non stabilito analoghi regimi di libertà forali nelle Americhe. Al contrario, si infrancesizzò la Castiglia, si soppresse quel che restava di vita libera nei regni aragonesi e non si pensò di educare alla nostra tradizionale libertà i sudditi americani; tutto l'impegno di Filippo V, duca d'Anjou seduto sul trono di Castiglia, fu, al contrario, di ottenere che le ampiezze delle Spagne si aprissero al veleno dell'europeizzazione in voga: l'assolutismo di Luigi XIV.
La europeizzazione liberale
Ma giunse il giorno in cui anche la formula europea rovinò. Gli stessi principi che ci avevano "illuminato" nel 1789, cadono schiacciati dall'inesorabile ruota dei tempi. L'Europa ora condanna quel ci aveva insegnato come modello incomparabile. Un vento di revisioni scuote il palco e lo scenario francese alza il telone per sostituire, alla lenta commedia di parrucche e alessandrini, il dramma sanguinoso della grande rivoluzione.
Fra noi, il cambiamento della banderuola europea coincide con quello dell'invasione napoleonica e col risveglio di una reazione antifrancese, ossia contraria all'Europa, nelle masse popolari. Un testimone poco sospetto - quale Rico y Amat - confessa che la guerra d'Indipendenza fu una fiammata patriottica, anelito del ritorno alla nostra tradizione peculiare: "L'unica idea che agitava quelle ardenti fantasie, che commuoveva quelle anime nobili e valenti, non era altra che salvare la propria fede, la propria monarchia, la propria indipendenza" (16). Vale a dire il Dio, la Patria ed il Re della tradizione, che molto presto saranno inalberati dal carlismo contro il liberalismo, giacché lo stesso autore liberale confessa che "nessuno potrà negare che i liberali di quell'epoca erano gli infrancesizzati" (17).
Ciò nonostante, nell'ora in cui un'opportuna congiuntura dava luogo alla rovina della formula assoluta con cui l'Europa ci aveva illuminato nel 1700, il confusionismo che protegge le cose strane servì anche stavolta per far svanire la possibilità del ritorno alla tradizione politica caratteristica. Il campo si delimita in tre gruppi: quello assolutista, che Ferdinando VII imporrà a pugno duro sino al 1833; quello liberale, che occulta la nuova europeizzazione sotto l'ingannevole pretesto secondo cui, più che qualcosa di nuovo, si trattava della restaurazione delle anelate tradizioni peculiari, e quello tradizionalista, affogato tra l'assolutismo regio e l'equivoco liberale.
Il novello Macanaz che si accinge a commettere la frode di proteggere merce francese sotto il padiglione ispanico é, per miglior riuscita dell'equivoco, un uomo rispettabile, accademico dottissimo e persino sacerdote: Francisco Martìnez Marina. Il suo era un caso di miraggio, molto intonato con l'ingenuità delle illusioni romantiche, ma non per questo meno nocivo, giacché sviò per la seconda volta la rotta della nostra gente dal sentiero della tradizione spagnola. "Martìnez Marina fa parte - ha scritto Romàn Riaza - di quella pleiade di spagnoli, che potremmo chiamare delle Cortes di Cadice, che coincidono con un ideale politico, ma che nel loro tempo si nutrono con una sostanza estratta dalla storia spagnola, con un tradizionalismo che non capisce la tradizione..., ma che, per un fenomeno simile a un miraggio, vogliono vedere nelle nuove idee tutto un programma estratto dalle pagine più dimenticate della storia patria" (18).
Martìnez Marina coglieva nel segno nel voler tornare a quelle libertà che "con la disgraziata battaglia di Villalar... restarono soffocate per sempre" (19); ma nei suoi Principi naturali della Morale, della Politica e della Legislazione sostiene che tali libertà consistono "nello stabilire una morale pubblica e un diritto delle nazioni adattato alla situazione, circostanza e lumi del secolo" (20).
Se l'intenzione sia stata delusa o raggiunta pienamente, a seconda di come si giudichi Martìnez Marina, lo canta l'articolo 29 della Costituzione del 1812. La rappresentanza alle Cortes avrà luogo, non sulla base degli antichi criteri di libertà concrete, ma sulla base della popolazione, "composta dai nativi che per entrambe le linee siano originari dei domini spagnoli, e da coloro che dalle Cortes abbiano ottenuta la patente di cittadino".
In quei gruppi di ingenui liberali che nei primi anni del secolo XIX confondevano la questione - ripetendo il tragico equivoco del leguleio Melchor de Macanaz e la testardaggine assolutista di Deseado Ferdinando -, naufragò la possibilità di un ritorno alla tradizione spagnola. E non mancò neppure il forte battito - ancora una volta inascoltato - al portone della coscienza nazionale, costituito dal deputato alle Cortes per Siviglia, Bernardo Mozo de Rosales: un nuovo marchese di Villena, sebbene con tratti un poco diversi.
Spetta a Federico Suàrez Verdeguer il merito di aver analizzato il valore del famoso Manifesto detto dei Persiani, che Bernardo Mozo de Rosales, alla testa di un gruppo di sessantanove deputati monarchici, presentò a Ferdinando VII in Valencia al suo ritorno nel 1814. Contro i due estremi del costituzionalismo infrancesizzato e dell'assolutismo ugualmente infrancesizzato, il tanto ingiustamente denigrato Manifiesto de los Persas é un richiamo al ritorno alla tradizione, parallelo a quello che centotredici anni prima verificò il marchese di Villena. "Raccogliamo noi questo manifesto - dicono i dottissimi storici Melchor Ferrer, Domingo Tejera e José F. Acedo, stampandolo in una delle appendici al tomo I della loro benemerita "Historia del tradicionalismo español" - integro..., perché ben meditato, illumina gli orizzonti alla comprensione del cammino del pensiero spagnolo, e al tempo stesso supplirà la mancanza di quegli storici che hanno sperato che la difficoltà della sua lettura, dovuta alla sua estensione, aiuti la mancanza di equanimità che essi fanno supporre per averlo omesso. Quando analizza la Costituzione, quando parla della questione forale di Navarra e delle Provincie Basche, quando scrive quel che devono essere le Cortes secondo lo stile spagnolo, quando specifica il concetto dell'autorità regia, il "Manifesto" detto "dei Persiani" dimostra che chi lo scrisse... non era a servizio della monarchia assoluta quale si stava erigendo in Spagna, bensì pensava al ritorno alle patrie tradizionali attraverso la confusione imperante" (21).
Sarebbe compito difficile precisare con meno parole e maggiore esattezza l'eccellente importanza del lungo, ma luminoso scritto di Bernardo Mozo de Rosales, deputato alle Cortes per Siviglia. In sereno contrasto con lo stupido miraggio che abbagliava Martìnez Marina, i "persiani" sanno racchiudere in una sola frase il modo di smascherare quel documento gaditano (22), imitazione servile dell'europeismo liberale del 1789. "Ma mentre i deputati di Cadice - dice il Manifiesto al paragrafo 90 - "trovavano umiliante seguire i passi degli antichi spagnoli, non disdegnarono di imitare ciecamente quelli della rivoluzione francese" (23).
Osteggiando a viso aperto l'europeizzazione liberale, i "persiani" ripetono un grido di incitamento identico a quello proferito dal marchese di Villena, con una continuità nella proposta di soluzioni che rivela la linea sicura e ferma del pensiero tradizionale, vivo nonostante gli esotismi ufficiali: il ritorno alle Cortes, nella loro forma suprema della fine del medioevo, cioè prima che l'ordine politico del governo castigliano fosse perturbato dalle esigenze di una politica militare che portò con sé l'esagerato irrobustimento del potere regale. Nel paragrafo 112 (24) si vede chiaro l'ultimo dei loro ideali: la Castiglia anteriore alla sconfitta di Villalar; ossia il ritorno alle feconde tradizioni delle libertà concrete, incompatibili sia con lo smisurato assolutismo dell'esotismo settecentesco, che con lo sfrenato schiamazzo dell'esotismo liberale. Parlano "secondo le leggi, i fueros, gli usi e i costumi di Spagna" (25).
Il Manifiesto de los Persas é il campanello d'allarme destinato a suonare dolorosamente nel deserto. Ferdinando VII accetta il suo spirito nel decreto del 4 maggio 1814; ma molto presto nel suo sangue rinverdisce la ruggine assolutista tesa a uccidere la soluzione alla spagnola, né più né meno come era affiorata nel suo bisnonno, un rampollo reale formato alla corte del Re Sole. Per la seconda volta, al secondo crocevia della possibilità di recuperare il filo della nostra tradizione politica, i popoli spagnoli si vedono trascinati dalla voragine di un'europeizzazione contraddittoria e ingannevole, oscillando tra l'iniziale conservazione dell'assolutismo e la definitiva vittoria dell'esotismo liberale.
Nel corso del secolo XIX, voci isolate, molto spesso povere di idee e fecondate da tremori intuitivi, grideranno il dolore per quest'occasione perduta: il carlismo militante e contadino, reazione popolare ed eroica in chiave romantica; Jaime Balmes ripeterà alla lettera (26) le vecchie cangianti dottrine del giuscostituzionalismo di Mieres e Marquilles, passate persino in Catalogna; Juan Donoso Cortés, sedotto dall'impulso intimo della sua condizione dell'Estremadura, inalbererà sotto Isabella II la stessa attitudine serratamente antieuropea che nel secolo XVIII era stata sollevata in altri territori dai miei compaesani Forner e Garcìa de la Huerta; Orti e Lara defenestreranno le pignolerie krausiste; Menéndez y Pelayo riscoprirà il nostro patrimonio culturale, benché accecato dalle conseguenze dirette della sua stessa impresa eroica di dissotterratore eruditissimo; gli uomini del '98 cercheranno a tentoni la nostra essenza tradizionale, sebbene, nella maggioranza, fossero persi nelle dense nebbie del loro positivismo filosofico e del loro indifferentismo religioso... Ma il male iniziale era già stato compiuto, e le Spagne si incammineranno, di caduta in caduta, rannicchiate su entrambe le rive dell'Atlantico, lungo i Calvari tracciati dalle persone che troncarono la continuità della sua esistenza storica.
Il dilemma presente
Nel 1936, con la rovina della formula di europeizzazione liberale - che uno sciocco confusionismo aveva fatto trionfare un secolo prima -, si aprì un'altra volta il dilemma, giunto così alla terza congiuntura: tornare alle tradizioni patrie o copiare i nuovi stili in moda nell'esotica Europa, il totalitarismo nelle sue due modalità nazionalista e internazionalista, del totalitarismo fascista o del totalitarismo bolscevico.
NOTE
1) Rientro in me stesso alla fine degli anni, dopo aver peregrinato per i diversi campi della moderna cultura europea, e, solo con la mia coscienza, mi chiedo: "Sono europeo? Sono moderno?" E la mia coscienza mi risponde: "No, non sei europeo, per ciò che si intende con europeo; no, non sei moderno, per ciò che si intende con moderno...".
2) Christopher Dawson, The making of Europe. An introduction to the history of European Unity, Londra, Sheed and Ward, 1939, pp.284-285; trad. it. La nascita dell'Europa, Einaudi 1959.
3) Vicente Palacio Atard, Derrota, agotamiento, decadencia en la España del siglo XVII, Madrid, Rialp, 1949, pp.194-195.
4) Generaciones y semblanzas, España, Madrid, 1924, pp.51-52.
5) Ernesto Giménez Caballero, Genio de España, Ediciones de "La Gaceta Literaria", Madrid, 1932, pp.27-28.
6) Cfr. il mio libro Doce nudos culturales hispanos-suecos, Universidad, Salamanca, 1950.
7) Miguel de Cervantes, Don Quijote da la Mancha, II, 31 (trad. it. Don Chisciotte della Mancia, A. Palazzi ed., Milano, 1965, p.298).
8) Ibid., II, 32 (trad. it. cit. p.298).
9) Il parere è trascritto dal marchese di San Felipe, Vicente Bacallar y Sanna, Comentarios de la guerra de España e historia de su rey Phelipe V, el Animoso, Matheo Garbiza, Genova, s. d., t. I, p.60.
10) Melchor de Macanaz, Regalías de los Señores Reyes de Aragón, Imprenta de la "Revista de Legislación", Madrid, 1879, p.22.
11) Si allude qui all'Illustración, movimento ideologico che culminò nel secolo XVIII e che propugnava la secolarizzazione della cultura [N.d.T.].
12) Il testo di Fabio termina qua, e non vi ho posto mano più di tanto.
13) "autos sacramentales"
14) Fr. Ferdinando de Zevallos: La falsa filosofìa, o el ateìsmo, deìsmo, materialismo e demàs nuevas sectas, convencidas de crimen de Estado, Madrid, Antonio Fernàndez, VI (1776), 374.
15) Paese vicino a Siviglia, in cui insorse il generale Rafael del Riego y Nuñez (1785-1823) il 1 gennaio 1820 (N.d.T.)
16) Juan Rico y Amat: Historia polìtica y parlamentaria de España, Madrid, Imp. de las Escuelas Pìas, I (1860), 154.
17) Juan Rico y Amat: op. cit., I, 157.
18) Romàn Riaza: Las ideas politicas y su significación dentro de la obra cientifìca de Martinez Marina, Madrid, Tip. de Archivos, 1934, p. 6.
19) Francisco Martìnez Marina: Teoria de las Cortes, Madrid, Villalpando, 1813, II, 90.
20) Francisco Martìnez Marina: Principios naturales de la Moral, de la Polìtica y de la Legislación, Madrid, Academia de Ciencias Morales y Polìticas, 1933, p. 13.
21) Melchor Ferrer, Domingo Tejera e José F. Acedo: Historia del Tradicionalismo español. Siviglia, Ediciones Trajano, I (1941), 240.
22) di Cadice (N.d.T.)
23) Il testo del Manifiesto, firmato a Madrid il 12 aprile 1814, nella Historia del Tradicionalismo español, I, 273-302. La citazione alla pagina 289.
24) Historia del Tradicionalismo español, I, 294.
25) Ibidem, paragrafo 141, p. 300.
26) Si veda il mio studio Balmes y la tradición polìtica catalana, Barcellona, Congreso Internacional de Filosofìa, 1949.