martedì 29 novembre 2011

I tre passaggi fondamentali per la restaurazione.


Per riportare la Penisola alla sua condizione naturale, che consiste nell'essere divisa in sette  stati, i quali una volta restaurati  andranno a formare una Confederazione Italica, sono necessari tre passaggi fondamentali.
Non è plausibile riportare l'ordine dal giorno alla notte, specie in una situazione come quella che viviamo oggi, ed è per questo che bisogna attraversare dei passaggi fondamentali per, adattare, plasmare, e riportare l'assetto geo-politico Italiano così come è sempre stato , e come si addice alla prosperità dei suoi popoli.
Qui di seguito elencherò i tre passaggi , a mio parere fondamentali, per la restaurazione degli stati legittimi della Penisola Italiana, un bene auspicabile per tutte le sue genti.

1)La Federazione delle tre Repubbliche:

Il primo passaggio, consisterà nella prima scissione del territorio peninsulare in tre Repubbliche:Repubblica dell'Italia Settentrionale, Repubblica dell'Italia Centrale, Repubblica dell'Italia Meridionale.Queste tre Repubbliche saranno le componenti di una Federazione Repubblicana, la quale avrà come capitale Federale sempre Roma , ma ognuna delle tre Repubbliche avrà come ovvio una capitale propria. Il sistema Repubblicano sarà però diverso da quelli conosciuti, esso avrà un parlamento eletto per il primo quadriennio per via di un estrazione , i parlamentari non dovranno superare mai la soglia dei 100 membri , e non riceveranno nessuno stipendio se essi non parteciperanno attivamente alla vita politica, il salario dei parlamentari sarà limitato all'essenziale, il capo di stato di ogni Repubblica verra eletto con suffragio universale dalla popolazione (fatta eccezione per il primo quadriennio).Il presidente della Federazione sarà eletto tra i rappresentanti delle tre Repubbliche , esso avrà un potere limitato sulle autonomia statali , e la sua maggiore funzione sarà quella rappresentativa. La moneta utilizzata nei primi periodi sarà composta da fedi di credito rimborsabili fino a che la situazione non si sarà stabilizzata totalmente.

1)Cartina Geo-Politica.


2)La Federazione delle sette Repubbliche Aristocratiche:

Una volta che la situazione delle tre Repubbliche Federate sarà stabile, e l'ordine sociale riassettato su sani valori e principi, si passerà alla scissione del territorio in sette Stati Federati tra loro, questi stati saranno di matrice Repubblicana, ma passando da  Repubbliche rette da un governo "Borghese", a  Repubbliche Aristocratiche. Questo passaggio è fondamentale , perché rappresenta una lenta ma graduale e funzionale metamorfosi da un governo farraginoso e instabile(tipico delle Repubbliche odierne)a un governo serio e funzionale.I sette Stati saranno i seguenti: Repubblica di Piemonte, Liguria, e Sardegna-Repubblica Lombardo/Veneta*-Repubblica di Parma-Repubblica di Modena-Repubblica Toscana-Repubblica Romana-Repubblica di Napoli e Sicilia*.La capitale Federale sarà sempre Roma, ed il presidente della Federazione sarà il Pontefice.La moneta utilizzata sarà unica per tutta la Federazione.

2)Cartina Geo-Politica.

3)Le sette Monarchie Confederate:

Dopo il doveroso periodo di assestamento politico e sociale del secondo passaggio, nel terzo ed ultimo passaggio verranno restaurate definitivamente e con criteri legittimisti le Monarchie in ognuno dei sette Stati , che non formeranno più una Federazione, ma una Confederazione, perché tale forma garantisce larghissime autonomie agli stati membri , che a loro volta daranno larghissime autonomie all'interno dei loro territori, ogni stato membro sarà caratterizzato dal Municipalismo amministrativo.La confederazione avrà come capitale confederale Roma , e il presidente onorario della confederazione sarà il Pontefice.La moneta sarà unica per tutti gli stati membri.


3)Cartina Geo-Politica.


Precisazioni:

1)Ogni stato, in ognuno dei tre passaggi sarà dotato di una Carta dei Diritti e dei Doveri(Costituzione) su base Cristiana, con oneri e doveri ripartiti egualmente ad ogni classe sociale, oltre ad avere una Carta dei Diritti e dei Doveri Federale-Confederale in comune.

2)*Nei casi della Repubblica del Lombardo-Veneto e della Repubblica di Napoli e Sicilia le capitali saranno due, nel primo caso saranno, Milano e Venezia, in cui Milano ospiterà un Parlamento Lombardo che si occuperà nello specifico della gestione del territorio della Lombardia, mentre  Venezia ospiterà un Parlamento Veneto che si occuperà della gestione dei territori del Veneto, e del Friuli(Trento e Trieste saranno sottoposti a Plebiscito che li farà scegliere se unirsi allo Stato oppure annettersi all'Austria), nel secondo caso saranno Napoli e Palermo, con lo stesso criterio usato per lo stato Lombardo-Veneto, cioè : Napoli ospiterà un Parlamento Napoletano che si occuperà della gestione del territorio Napolitano, mentre Palermo ospiterà un Parlamento Siciliano che si occuperà della gestione del territorio Siciliano.

3)Le Monarchie saranno tradizionali(da non confondere con Monarchie assolute) e dotate di una Carta dei Diritti e dei Doveri(Costituzione).

Scritto da:

Il Principe dei Reazionari.

lunedì 28 novembre 2011

Lettera sui lavoratori di Enrico V° di Borbone-Francia conte di Chambord (20 aprile 1865):Le origini della società cattolica




Mirabile testo in cui Enrico V° di Borbone-Francia conte di Chambord, legittimo re che non ha mai regnato, difende i lavoratori e offre un modello sociale che è più attuale che mai.

Prefazione di VLR:

Dal 1791 e la legge Le Chapelier ad abolire le corporazioni e il diritto di associazione, i lavoratori gestiti dalla borghesia rivoluzionaria, sono stati immersi nella miseria più spaventosa. Al di fuori della carità cristiana, nessuno si preoccupava per la sorte di questi sfortunati. La preoccupazione costante di Enrico V per i poveri, riguardano in particolare le riflessioni nella lettera dei lavoratori, portertando l'appello di molti cattolici sociali (come ad esempio La Tour du Pin e Albert de Mun), che erano alla base di ciò che  dopo sarà chiamata la dottrina sociale della Chiesa.

Quella che segue è la lettera di Enrico V, ma i titoli sono scritti da VLR.


introduzione:

Il popolo ha una premonizione di una crisi che si avvicina. Gli operai lo condividono, e l'espressione dei loro desideri dopo lo spettacolo a Londra è sufficiente a convincerci. Essi hanno quindi ritenuto che era giunto il momento di dimostrare  che ci prendiamo cura dei loro interessi, sappiamo i loro bisogni, e abbiamo a cuore di migliorarli, per quanto in nostro potere, la loro situazione. Pertanto, ho pensato che fosse utile per attirare l'attenzione e la preoccupazione dei nostri amici su questo grave problema.

Prova qui, dopo aver segnalato la malattia, ad indicare il rimedio.

La classe operaia nel 1865 la valutazione fatta da Enrico V:

La monarchia è sempre stato il patrono delle classi lavoratrici. Istituzioni di St. Louis, mestieri regolamenti, il sistema delle gilde, sono la prova evidente. E 'sotto questo ombrello che l'industria francese è cresciuta, e che ha raggiunto un grado di prosperità e la buona fama che nel 1789 nessuno ha lasciato meno di qualsiasi altro.Con il tempo, e nelle istituzioni lungo termine sono degenerate, che gli abusi vengono introdotti è ciò che nessuno contesta. Luigi XVI, uno dei nostri re che più ha amato la gente, aveva portato le sue idee sui miglioramenti necessari, ma gli economisti hanno consultato il padre e servito con cattive intenzioni, e tutti i loro piani fallirono.L'Assemblea costituente non era soddisfatta, così come richiesto dalle specifiche, per dare più libertà di industria, commercio e lavoro, gettò tutte le barriere, e invece di identificare le barriere che le associazioni l'interferenza, proibì al diritto di riunione e il concerto di facoltà e in-tenda. Le gilde e maestro scomparso. La libertà di lavoro è stata proclamata, ma la libertà di associazione è stata distrutta nel processo.Quindi in questo individualismo  il lavoratore è ancora la vittima. Condannato ad essere solo, per legge se si unisce con i suoi compagni, vuole formare una difesa, per proteggere se stesso, per essere rappresentato, da uno di quei sindacati che sono un diritto naturale e  controllo di necessità, e che nella società dovrebbero essere incoraggiate impostandole.Quindi, questo isolamento contro  natura no puo essere sopportare. Nonostante le leggi, associazioni, corporazioni, aziende,  sono state  mantenute o ripristinate. Essi sono stati perseguitati, non  potendoli distruggere. E 'solo riuscito a costringerli a rifugiarsi sotto l'ombra di mistero, e l'individualismo ha prodotto fuorilegge società segrete, tra cui ne bis in idem 60 anni di esperienza hanno rivelato in modo corretto.L'individuo, è rimasto senza uno scudo per i suoi interessi, è stato consegnato nel corso  ad una concorrenza senza limiti, contro la quale non aveva altra risorsa che la coalizione e lo scioperi. Fino all'anno scorso, queste coalizioni sono state sottoposte a pene severe, che caddero per lo più sui lavoratori più capaci e più onesti, e che la fiducia dei loro compagni aveva scelto come leader o come rappresentanti.E 'stato un torto, avrebbero dovuto far legalmente per fermarlo, permettendo la coalizione, che è stata un crimine di ieri, e oggi è diventato un diritto: il più grave, perché non aggiunge al diritto che sarebbe servito a formare la pratica. Allo stesso tempo, è costituito dallo sviluppo della prosperità pubblica una sorta di privilegio industriale, tenendo in mano la vita dei lavoratori, è stato investito con una sorta di dominazione che potrebbe diventare oppressiva, e portare a conseguenze di attacchi mortali .E 'giusto riconoscere che egli non ha commesso abusi tanto quanto poteva. Ma nonostante la bontà generosa di molti capitani d'industria e di zelo dedicato molti cuori nobili, nonostante la costituzione di società di mutuo soccorso fraterno, fondi di soccorso, casse di risparmio, fondi pensione , lavora per l'alloggio per i malati, per l'istituzione di scuole nelle fabbriche, per l'intrattenimento morale per la riforma della compagnia, la cura per i malati, orfani, anziani, nonostante tutte gli sforzi della carità cristiana che è soprattutto l'onore della nostra Francia, la protezione non è ancora sufficientemente esercitata ovunque, e gli interessi morali e materiali delle classi lavoratrici stando ancora soffrendo molto.Che il male, come uno schizzo  incompleto può dare l'idea. E 'ovviamente una minaccia per l'ordine pubblico. E 'quindi necessario prima esaminarlo con la più seria attenzione.


Rimedi proposti:

Per quanto riguarda i rimedi, qui ci sono quei principi che le esperienze sembrano indicare. L'individualismo contro l'associazione alla concorrenza sfrenata controbilanciando la difesa comune, la costruzione industriale set di privilegi delle corporazioni volontario e gratuito.Dobbiamo dare ai lavoratori il diritto di consultare, conciliare questo diritto con le necessità impellenti della pubblica pace, di armonia tra i cittadini ei diritti di tutti. L'unico modo per farlo è la libertà di associazione saggiamente regolamentata e limitata nel giusto limite. Tuttavia, va notato che questo è proprio l'insistenza con cui termina la volontà di tutti i delegati alla mostra di Londra.Sarà, inoltre, che la disciplina giuridica di una situazione che, in connessione con questa mostra, è stato improvvisamente, con grande sorpresa l'amministrazione allarmata. Perché siamo stati costretti a riconoscere quando, in realtà, nonostante la legislazione e contro di essa, queste associazioni esistevano, avevano riformato sotto il riparo del segreto e senza alcuna garanzia. Le relazioni dei delegati sono stati pubblicati, e tutti concludono con la libera associazione e sindacati. Il colore in cui questi rapporti vengono a volte segnati è un motivo in più per preoccuparsi, ci preoccupiamo, e cercato di individuare quello che erano false e perniciose quali 'possono avere giusto e vero.In breve, ciò che è dimostrato è la necessità di associazioni di volontariato e di circolazione dei lavoratori per difendere i loro interessi comuni. Pertanto, è naturale che in queste associazioni sono formate sotto qualsiasi nome, i sindacati, le delegazioni, le rappresentazioni, che può essere contattato dai datori di lavoro e sindacati dei datori di lavoro di risolvere le controversie in via amichevole condizioni di lavoro, compreso lo stipendio. Qui, la comunità di interessi tra imprenditori e dei lavoratori sarà una causa di armonia, non antagonismo.Pace e l'ordine emergerà da queste riflessioni, che, in ragione ed esperienza, gli agenti sembrano più capaci e più conciliante dei due lati. Una fiera e la soddisfazione saranno forniti ai lavoratori, gli abusi della concorrenza saranno evitati ove possibile, e il dominio di privilegio industriale stretto in angusti limiti.L'autorità pubblica non avranno nulla da temere, per la tutela dei diritti degli altri, lungi dal disertare la sua famiglia, al contrario, manterrà le prestazioni con elevata influenza come mezzo di forza e le precauzioni legge appartengono.Tutti gli incontri saranno accessibili agli agenti del potere. Nessuno si svolgeranno senza preavviso e senza autorità, se lo ritiene opportuno, avere il diritto di essere presenti. I regolamenti saranno divulgate, e sarà attentamente che mai l'oggetto e lo scopo delle riunioni o non può essere ignorato o superato. Permettendo una completa libertà nei dibattiti e transazioni, qu'amiablement intervenire, e su richiesta di entrambe le parti, per facilitare l'accordo.Lei sarà sempre in grado di reprimere i problemi, le manovre e disturbi. Commissioni paritetiche, i sindacati degli imprenditori e dei lavoratori, si riuniranno sotto il suo ombrello di mantenere buone relazioni ed evitare controversie o vuoto.Infine, l'intervento generoso di persone sono ammessi ad assistere i lavoratori, e di esercitare in modo indipendente, e con la piena libertà del bene, i ministeri della carità cristiana e di tutela di cui sopra.
Conclusione:

In sintesi, il diritto di associazione, sotto la supervisione dello Stato, e con l'assistenza della moltitudine di opere meravigliose, frutti preziosi delle virtù evangeliche, questi sono i principi che potrebbero servire effettivamente per sciogliere il nodo della complicata questione del lavoro.

Chi non vede, inoltre, che la formazione di corporazioni e di volontariato gratuito sarebbe diventato uno degli elementi più potenti di ordine e di armonia sociale, e che queste società potrebbe entrare, per l'organizzazione della città e la base degli elettori e il suffragio? Considerazione che colpisce uno dei più gravi della politica del futuro.

Soprattutto in presenza delle attuali difficoltà, sembra non vero a tutte le tradizioni del suo glorioso passato, royalty veramente cristiano e il francese ha davvero bisogno di fare oggi per l'emancipazione e il benessere morale e materiale delle classi lavoratori quello che ha fatto altre volte per la liberazione dei Comuni? Non è forse lei la responsabilità di chiamare la gente lavora di godere della libertà e della pace, sotto la garanzia della necessaria autorità, sotto la tutela di devozione spontanea e sotto gli auspici del la carità cristiana?


Traduzione a cura di:

Il Principe dei Reazionari.

Fonte:http://www.viveleroy.fr/Lettre-sur-les-ouvriers-par-Henri,14

sabato 26 novembre 2011

Maria Beatrice d'Este Regina d'Inghilterra e Scozia

 
 
                        Modena, 5 ottobre 1658 - Francia, 7 maggio 1718
 
Maria Beatrice d'Este, moglie del re Giacomo II d'Inghilterra, ultimo re cattolico, cacciato dopo la rivoluzione protestante del 1688. La regina visse tutta la sua vita con animo purissimo e fermo nella difesa della Fede Cattolica: visse con grande dignità l'esilio in Francia dove morì nel 1718, subendo post mortem l'oltraggio della profanazione del corpo durante la rivoluzione francese. Maria Beatrice rifiutò di tornare sul trono quando domandarono a lei e a suo figlio, il pretendente cattolico Giacomo Stuart, di abiurare il Cattolicesimo: lei rispose che la Verità non è barattabile con un trono. Quando morì le damigelle trovarono nel suo corpo un cilicio, segno di penitenza e umiltà.
 
 
 
L’epoca in cui il divario e la contrapposizione tra l’Europa cattolica e quella protestante si cristallizzarono e che segnò la crisi definitiva dello stato di tipo rinascimentale, tanto che il sostantivo rivoluzione divenne patrimonio del linguaggio politico, vide anche una modenese, appartenente alla casa D’Este, tra i suoi protagonisti.
Oggi scarsamente ricordata nella città, che le aveva dato i natali, nel 1658, Maria Beatrice D’Este, figlia del duca Alfonso IV, fu regina d’Inghilterra, assieme al consorte Giacomo II Stuart, proprio in quel periodo storico in cui andava affermandosi il modello dello stato rappresentativo, a scapito della monarchia assoluta di diritto divino. Cresciuta ed educata nella piccola ma raffinata corte modenese, Maria Beatrice assimilò l’amore per la cultura di ascendenza umanistica, ma anche il rigorismo cattolico che furono tra i caratteri distintivi della madre, Laura Martinozzi, e che le ispirarono, nel corso della sua lunga reggenza, una politica di austerità e misura, onde ovviare al dissesto economico ed arrestare il degrado morale del piccolo stato.
Poco più che bambina, Maria Beatrice aveva espresso la volontà di seguire la sua sincera vocazione religiosa e di prendere i voti, per potere essere ammessa al Convento della Visitazione, edificato per volontà materna nei giardini del palazzo ducale, quando, appena quattordicenne, venne proiettata nello scenario internazionale, attraverso quel peculiare aspetto della politica seicentesca, rappresentato dalle alleanze matrimoniali, che obbedivano sempre a criteri di opportunità diplomatica, e che sottendevano logiche di prestigio. In quel lontano 1673, Giacomo Stuart, Duca di York, destinato a succedere al fratello Carlo II, sul trono d’Inghilterra, aveva investito, uno tra i suoi più fidati cortigiani, il conte di Peterborough, della carica di ambasciatore straordinario allo scopo di trovargli una moglie, che per natali, bellezza ed educazione fosse adeguata a divenire regina. Giunto a Parigi, il diplomatico inglese venne a sapere dell’esistenza di Maria Beatrice, da un suo ritratto che aveva ammirato nella dimora della zia materna ed ottenuto il consenso da parte del Duca di York si diresse verso la capitale dello stato estense.
Intanto anche il sovrano francese, Luigi XIV, inviò un suo funzionario a Modena, in appoggio alla delicata missione dell’ambasciatore inglese, dal momento che il matrimonio del futuro re con una nobildonna, appartenente ad una famiglia vincolata da una storica alleanza con la Francia, favoriva il suo disegno politico volto alla realizzazione e al consolidamento di una egemonia continentale, che si imponesse quale modello per tutte le monarchie assolute. Sottoposta a siffatte pressioni, Maria Beatrice resisteva eroicamente e si appellava alla madre, confidando nel suo aiuto: senza dubbio ella era animata da una autentica vocazione religiosa, e poco allettata dalla prospettiva di sposare un uomo, che per età poteva esserle padre e che avrebbe dovuto raggiungere in un paese, assai distante dalla sua terra natale e dalla sua famiglia. Tuttavia, vi fu una sollecitazione alla quale la giovane duchessa non osò opporre un rifiuto, quella che le fu rivolta dal pontefice, Clemente X, che le indirizzò un breve, nel quale la esortava ad accettare la proposta di matrimonio dello Stuart, essendo una coppia di sovrani cattolici, uno strumento ideale per contrastare la religione riformata, all’epoca trionfante in Inghilterra. Lusingata ed al contempo intimorita dalla rilevanza del compito cui veniva destinata, Maria Beatrice non poté che acconsentire alle nozze, celebrate per procura il 30 Settembre 1673 e seguite da un solenne Te Deum, nonché da un principesco banchetto nuziale.
Il successivo 5 Ottobre, compiuti i quindici anni, con un seguito di 60 persone, di cui faceva parte anche la madre reggente, si mosse alla volta della sua nuova patria. Si rese necessaria una sosta prolungata a Parigi, dove fu ospite alla corte del Re Sole, poiché il parlamento inglese stentava a concederle il permesso d’entrata, in ragione del suo essere cattolica, circostanza che la rendeva poco gradita, se non addirittura invisa. Dopo estenuanti e accesi dibattiti, infine, la riserva venne sciolta e la duchessa di York poté approdare a Dover nel Dicembre di quel medesimo anno, per conoscere il marito. Il primo incontro tra i due coniugi non avvenne sotto i migliori auspici e parve confermare coloro che avevano espresso dubbi circa l’opportunità dell’unione: se Giacomo rimase colpito dalla grazia adolescenziale e dall’eleganza innata di Maria Beatrice, l’impressione positiva non poté dirsi reciproca, per lei che, giovanissima si ritrovò sposata ad un uomo assai poco avvenente e per nulla brillante, oltre che di ben venticinque anni più vecchio. Dopo essere stati ammessi e presentati a corte, dove un banchetto venne offerto in loro onore, i duchi di York presero alloggio nel palazzo di St. James, che, edificato per volere di Enrico VIII, all’interno del parco omonimo, era già stato residenza di reali, ma che rispetto al livello qualitativo consueto nell’architettura italiana della seconda metà del Seicento risultava austero e spoglio.
Pertanto, la duchessa si circondò di pittori, scultori e arredatori allo scopo ingentilire la nuova dimora, operazione nella quale dimostrava di possedere un’attenzione per l’estetica, tutta italiana, che la qualificava quale degna discendente della casa d’Este, che aveva dato i natali a molti e celebrati mecenati e cultori delle arti. Seguendo la consuetudine dell’epoca per quanto concerneva i dibattiti intellettuali, Maria Beatrice a palazzo St. James animò un salotto letterario, in cui persone legate da affinità sociali e culturali si incontravano sistematicamente per discutere di poesia, filosofia ed arte, finendo per dar vita ad una sorta di circolo informale, che favoriva le circolazione delle idee e degli orientamenti più innovativi del pensiero. Intelligente e colta, dolce e al contempo volitiva, la duchessa di York si adoperò in ogni modo per guadagnarsi la benevolenza della nuova famiglia, facendo ricorso alle proprie capacità di ambientazione: si adattò rapidamente alle abitudini di palazzo, imparò un inglese impeccabile, si mostrò sempre allegra e compiacente, discreta ed affettuosa anche con coloro che erano prevenuti nei suoi confronti. Riuscì a stabilire un’ottima intesa col sovrano Carlo II e tentò con minore successo di entrare nelle grazie di sua moglie Caterina di Braganza e delle figlie di primo letto di Giacomo, Maria e Anna, per le quali ebbe sempre la tenerezza e le attenzioni di una madre. Anche il rapporto con il marito andava migliorando, l’affetto che questi le dimostrava l’avevano col tempo aiutata a superare la repulsione iniziale ed in lui aveva scoperto ed imparato ad apprezzare qualità quali la tenacia, il coraggio e l’abnegazione assoluta nel perseguire la realizzazione dei propri ideali. Nel Gennaio 1675 nacque la prima figlia dei duchi di York, Caterina Laura, battezzata secondo il rito cattolico e il giorno seguente secondo quello anglicano, purtroppo solo dieci mesi più tardi la piccola moriva, assalita da improvvise e violente convulsioni.
La medesima sciagurata sorte accomunò quasi tutti i figli generati dalla coppia: nel corso del suo matrimonio con Giacomo, Maria Beatrice si sottopose a ben dieci gravidanze, allo scopo di dare alla luce un figlio maschio, che incarnasse i diritti della dinastia e la promessa di continuità. Due soli figli raggiunsero l’età adulta ed è significativo, che fossero stati allevati lontano dalla corte inglese, circostanza che avvalora il sospetto, più volte espresso, soprattutto nell’ambiente dei diplomatici stranieri residenti a Londra, che fossero stati avvelenati da coloro che non gradivano il consolidamento della discendenza stuarda. In seguito alla scomparsa dei figli Maria Beatrice e Giacomo furono assaliti da profondi periodi di scoramento, e non ebbero remore nel mostrarsi in pubblico addolorati e sofferenti, in un’epoca in cui il decoro e l’etichetta, unitamente all’elevata mortalità infantile, imponevano agli esponenti delle classi dirigenti ed in particolare a quelli di stirpe reale di vincersi e di non mostrarsi affranti, in nessun caso. Frattanto si andava profilando una grave crisi politica, quando, abilmente orchestrate da ambienti filo-costituzionali, si diffusero voci, circa una congiura regicida, ordita dai gesuiti, ai danni di Carlo II.
Se la reazione del sovrano fu improntata alla totale indifferenza, ritenendo egli la veridicità della notizia del tutto infondata, diversa fu la condotta del suo consiglio privato, che inaugurò una triste stagione, compresa tra il 1678 e il 1681, che fu contraddistinta da provvedimenti vessatori, incarcerazioni ed esecuzioni capitali ai danni degli esponenti del cattolicesimo inglese. Il parlamento approvò la legge di esclusione, che obbligava i cittadini titolari di un ufficio pubblico o militare a professare la fede anglicana ed un editto reale vietava l’ingresso dei cattolici a corte. La violenza era dilagante: vi furono 35 condanne a morte e più di 2000 detenzioni. Gli stessi duchi di York, bersagli ideali della propaganda negativa, nella quale si mescolavano confusamente la difesa delle tradizionali libertà anglicane, il timore dell’assolutismo, il sospetto nei confronti dei Francesi ed il disprezzo per gli Irlandesi, vennero costretti dal re ad abbandonare il paese e per tutelare la loro incolumità e la loro libertà, furono esuli prima a Bruxelles, poi ad Edimburgo. In particolare, la posizione di Giacomo, destinato a succedere al fratello, appariva compromessa: fin dal 1676, rifiutandosi di assistere alle funzioni del Venerdì Santo nella cappella di corte, egli aveva ufficializzato la propria abiura alla religione di stato e da quel momento con estrema coerenza, ma poca avvedutezza politica, aveva fatto a più riprese professione di fede cattolica.
Il rischio più grave, consisteva in un’estensione del principio accolto dalla legge di esclusione, che in teoria poteva essere applicata anche al duca di York e alla sua discendenza, precludendo loro il trono, poiché non anglicani. Tuttavia, il parlamento equamente diviso tra Winghs, sostenitori della libertà parlamentare e Tories, filomonarchici, non votò mai un provvedimento di proscrizione nei confronti del fratello del legittimo sovrano. In modo tale che quando nel febbraio del 1685 Carlo II morì, Giacomo e Maria Beatrice divennero re e regina d’Inghilterra. La cerimonia d’incoronazione, avvenuta nella chiesa collegiale di St. Peter fu sontuosa: i sovrani percorsero in nave un breve tratto del Tamigi tra musiche e giochi d’acqua e Maria Beatrice, la cui elegante e snella figura era fasciata da un abito tempestato di gemme e da un mantello di porpora ed ermellino, spiccava per bellezza e raffinatezza; in quella occasione, il re e la regina si astennero dai sacramenti di rito anglicano, ma i sudditi li accolsero ugualmente con manifestazioni di deferenza e di giubilo. Nessuno realisticamente poteva ritenere che Giacomo II e la consorte si sarebbero allontanati dalla loro confessione religiosa, ma l’attaccamento e il rispetto, in particolare dei ceti più umili, nei confronti della stirpe stuarda rimanevano integri. Il dovere di lealtà, obbedienza e assistenza nei confronti del sovrano, fu alla base del rapporto monarchia-nazione per tutta l’età moderna: il concetto di fedeltà esprimeva in maniera comprensibile alla maggior parte della popolazione, l’esigenza della coesione, della autorità e della disciplina, e, più in generale, l’idea della collettività statale e degli obblighi connessi con la sua esistenza e il suo riconoscimento. Dal punto di vista storico, politico e culturale quell’esigenza e quell’idea furono concretamente impersonate nella figura del sovrano, circostanza tragicamente sottovalutata da Giacomo II, che nel momento in cui il suo trono veniva insidiato non seppe appellarsi all’alto valore etico connaturato alla fedeltà popolare. Il regno dei nuovi monarchi iniziò, sotto i peggiori auspici, inaugurato dal tentativo di sollevazione guidato dal duca di Monmouth, figlio naturale di Carlo II; ma se la sedizione fu soffocata con relativa facilità dalle truppe regolari, ciò che contribuì a distruggere il limitato consenso di cui Giacomo II godeva, furono la sua mancanza di tatto e sensibilità diplomatica: egli aveva carattere, ma mancava di duttilità e sottigliezza, profondamente incapace di una visione d’insieme, adottò una politica, contraddistinta da una pericolosa commistione di intransigenza ed ingenuità. Se egli sottovalutò costantemente il potenziale pericolo rappresentato dalle due figlie di primo letto, Maria e Anna, ferventi protestanti, d’altro canto non esitò mettere in pratica una palese politica filo-cattolica, disattendendo quanto gli suggeriva Maria Beatrice, che lo esortava a non ostentare il suo credo religioso. Egli aumentò notevolmente il numero e l’importanza dei cattolici, presenti a corte, quattro dei quali entrarono nel consiglio della corona, inoltre favorì l’apertura di seminari e la costruzione di chiese ed incoraggiò i sacerdoti inglesi, esuli nel continente, a fare ritorno in patria. All’epoca dell’insediamento di Giacomo e Maria Beatrice erano oramai trascorsi quattro anni, dall’ultima volta in cui parlamento si era riunito, il nuovo monarca, dopo aver convocato secondo la prassi le camere e averle sciolte al primo conflitto, cercò, come in precedenza aveva fatto il fratello, di esercitare un governo personale. Forte delle proprie prerogative, Giacomo II tentò di fare abolire il Test Act di professione anticattolica e chiese una sospensione dell’Habeas Corpus, avendo opposto il parlamento un netto rifiuto, ricorse alla dichiarazione d’indulgenza, che concedeva libertà di culto e accordava protezione alle confessioni religiose minoritarie. Quando il sovrano ordinò che il testo della dichiarazione d’indulgenza fosse letto in tutte le chiese del regno, sette vescovi anglicani si rifiutarono di obbedire e sfidando l’autorità regia, proposero di essere trattati come criminali. Nonostante il parere contrario dei più fidati consiglieri e soprattutto della moglie, il re li prese in parola e stabilì che fossero rinchiusi nella torre di Londra: l’immagine dell’Arcivescovo di Canterbury che assieme a sei confratelli veniva condotto nella famigerata prigione fu micidiale per l’immagine della corona. Dopo essere stata incoronata, Maria Beatrice si era augurata di potere finalmente contribuire alla realizzazione della missione, che aveva iniziato quando quindicenne e armata della sua sola fede aveva accettato di divenire regina di un paese protestante: se oramai era evidente come fosse impensabile riportare l’Inghilterra al cattolicesimo, si potevano almeno limitare le discriminazioni e le vessazioni cui erano sottoposti i fedeli a Roma. Fortemente danneggiata dalla politica intransigente e poco accorta inaugurata dal consorte, ella assai raramente divenne quello strumento di mediazione per il quale non le sarebbero mancate le qualità, e per mitigare l’amarezza delle sue ripetute delusioni anelò al conforto che le offriva la cultura, coltivando il gusto per l’arte e l’amore per il teatro, la pratica del mecenatismo e la curiosità intellettuale. Maria Beatrice divenne il fulcro della vita di corte, dettando legge in materia di stile ed eleganza, ma restando, al contempo, devota e inaccessibile, ligia nell’attenersi alla ritualità delle sue funzioni di sovrana e consapevole del significato simbolico di ogni suo gesto. Purtroppo il suo più grande momento di gioia privata, andò ad innescare una serie di conseguenze, che provocarono la perdita della corona: nel 1688 nasceva il figlio, Giacomo Francesco Edoardo, che era l’erede tanto atteso, l’unico che sopravviverà alla madre e che ella scoprì di amare al di sopra di ogni cosa in un’epoca e in un ambiente in cui il sentimento materno era ancora difficilmente disgiungibile dagli interessi di lignaggio. Per Maria Beatrice che aveva intenzione di porre la maternità al centro della sua regalità, rendendola l’origine della sua carità, del suo sentimento di protezione e della sua ricerca d’ordine, fu incredibilmente umiliante venire a conoscenza che nel paese circolavano pubblicazioni oscene nelle quali si metteva in dubbio la paternità del figlio o la stessa veridicità della gravidanza, sostenendo una delle voci più infamanti, che il piccolo, nascosto in uno scaldaletto, fosse stato introdotto nel camera della regina da un gesuita. Dapprima solo la pubblicistica scandalistica clandestina, poi i giornali d’opinione, infine lo stesso parlamento misero in dubbio la legittimità del figlio, facendosi portatori di un messaggio di grande violenza, che ledendo la credibilità e l’intangibilità delle figure dei sovrani, minava i fondamenti stessi dell’autorità del loro potere. Di fronte al pericolo insito nel perpetuarsi di una dinastia cattolica e assolutistica, le divergenze tra le fazioni parlamentari si appianarono, ed anche coloro che erano contrari, in linea di principio, a turbare l’ordine tradizionale della successione, con un intervento lesivo delle prerogative regie, mutarono la loro posizione e rivolsero un appello a Guglielmo d’Orange, poiché si recasse in Inghilterra, onde verificare le circostanze della nascita del principe di Galles e lo stato delle libertà civili e religiose. L’invito non giungeva inatteso: Stadthouder d’Olanda e marito di Maria Stuart, figlia maggiore di Giacomo, Guglielmo, che in precedenza era ricorso ad ogni mezzo per accreditarsi quale campione del protestantesimo, aveva già apprestato una flotta di 15.000 uomini, coi quali si accingeva a sbarcare sulle coste inglesi. Oramai il disegno politico dell’Orange era evidente: solo il sovrano si ostinava a non voler prendere in seria considerazione l’ipotesi di tradimento da parte della figlia e del genero e, perdurando nel suo atteggiamento quasi infantile di fiducia incondizionata, si rifiutava di organizzare una difesa adeguata alla minaccia, che si profilava all’orizzonte. Nel Novembre del 1688 le truppe olandesi sbarcarono nel Devonshire; mentre il re, a capo dell’esercito inglese, muoveva contro il nemico, per contenere l’invasione, la regina divenne reggente in luogo del marito. Fu tipico dell’età moderna, quando il potere e la responsabilità di governo venivano esercitati dalle donne, che la loro autorità fosse provvisoria e soggetta a contestazioni e la loro affermazione fosse imputabile alla mancanza o alla lontananza degli esponenti maschili del casato; del medesimo segno fu il caso di Maria Beatrice, cui, tuttavia, bastò la breve esperienza di reggenza, per dare prova di possedere acume psicologico, lungimiranza politica e arte diplomatica. Intanto le sorti del confitto volgevano al peggio e tra le fila dell’esercito regolare le defezioni furono così numerose, da convincere Giacomo II che l’unica strategia praticabile, fosse quella di arrendersi prima ancora di aver tentato una difesa. Addolorato ed umiliato anche dal tradimento della secondogenita Anna, che assieme al marito Giorgio di Danimarca andò ad ingrossare le schiere degli insorti, il legittimo sovrano, paventando il ripetersi dei sanguinosi conflitti che quarant’anni prima avevano lacerato il paese, preferì non radicalizzare lo scontro, che rischiava di degenerare in un’altra guerra civile. Se con questa scelta di elevato profilo etico, Giacomo II dimostrava di avere a cuore le sorti dei suoi sudditi, tuttavia il rifiuto di appellarsi alla fedeltà popolare verso la dinastia regnante, sancì la definitiva rinuncia al trono. Per la famiglia reale si apriva la via dell’esilio francese, a Saint Germain en Laye, sotto la protezione di Luigi XIV, l’unico sovrano europeo disposto a schierarsi in favore del re, spodestato a causa della sua fede. Il dramma politico che si era abbattuto sugli Stuart paradossalmente li aveva avvicinati: Giacomo e Maria Beatrice, si dimostrarono assai coraggiosi di fronte alle peggiori sventure ed estremamente dignitosi anche nel momento delle privazioni economiche; mentre attendevano al governo della loro piccola corte in esilio ebbero modo di stabilire un’intesa profonda, riuscendo ad incarnare quel modello di famiglia cristiana, cui la regina aveva sempre ambito, ma che i ripetuti tradimenti del marito, incapace di rinunciare alle sue favorite, avevano reso impraticabile. Nel febbraio del 1689 Guglielmo e Maria furono proclamati sovrani d’Inghilterra, ma prima di poter essere incoronati ufficialmente si impegnarono con una promessa solenne ad osservare la Dichiarazione dei diritti, un corpus di leggi che condannavano i tentativi di Giacomo II di sovvertire e distruggere la religione protestante, fornivano un fondamento giuridico ai poteri del parlamento e riaffermavano le tradizionali libertà del paese. Col loro giuramento, Guglielmo e Maria posero termine alla storia degli Stuart, destinati a non recuperare mai più la loro corona, ed anche a quella dell’assolutismo monarchico inglese: dal riconoscimento delle prerogative parlamentari, ebbe origine una nuova forma di governo di tipo costituzionale, ispirata alle teorie contrattualistiche di Locke e fondata sulla divisione dei poteri. Quanto avvenuto nel 1688 viene generalmente indicato come “Rivoluzione gloriosa” nella interpretazione autocelebrativa della storiografia liberale inglese, coll’intenzione anzitutto di sottolinearne il carattere pacifico ed in secondo luogo il preteso unanime consenso. In realtà, non si trattò che di una svolta nell’indirizzo politico avvenuta ai vertici dello stato, a garanzia degli interessi dei gruppi sociali più attivi sul piano economico, che si posero consapevolmente il problema della conquista del potere e che, a tale scopo, riuscirono ad avvalersi della brama di comando e dell’ambizione degli stessi famigliari del sovrano legittimo.


Fonte:
www.beatificazionemariabeatrice.it

Note:
Per informazioni: info@beatificazionemariabeatrice.it

venerdì 25 novembre 2011

Lettera di Cavour a Vittorio Emanuele II° di Savoia-Carignano.




...."La mia posizione diventava imbarazzante, perché io non avea più nulla di ben determinato da proporre. L’Imperatore (dei Francesi) venne in mio aiuto, e noi ci ponemmo a percorrere insieme tutti gli Stati dell’Italia, per cercarvi questa cagione di guerra così difficile a trovarsi. Dopo aver viaggiato inutilmente in tutta la Penisola, giungemmo senza badarci a Massa e Carrara (Estensi): e là scoprimmo quello che cercavamo con tanto ardore. Avendo io fatto all’Imperatore una descrizione esatta di quel disgraziato (?!) paese, del quale per altra parte egli aveva un concetto assai preciso, noi restammo d’accordo che si provocherebbe un indirizzo degli abitanti a V.M. (Vostra Maestà) per chiedere protezione, ed anche per reclamare l’annessione di quei Ducati alla Sardegna. [...] Vostra Maestà non accetterebbe la proposta dedizione; ma, prendendo le parti delle popolazioni oppresse, rivolgerebbe al Duca di Modena una nota altera e minacciosa. Il Duca (Modena), forte dell’appoggio dell’Austria, risponderebbe in modo impertinente, in seguito a ciò V. M. farebbe occupare Massa, e la guerra incomincerebbe. Siccome il Duca di Modena ne sarebbe la cagione (!!!), l’Imperatore pensa che la guerra sarebbe popolare non solamente in Francia, ma anche in Inghilterra e nel resto dell’Europa; poiché quel Principe a torto o a ragione, è considerato come il capro emissario del dispotismo. D’altra parte il Duca di Modena, non avendo riconosciuto alcun Sovrano di quelli che regnarono dopo il 1830 in Francia, [...] l’Imperatore ha meno riguardi da osservare verso di lui che non verso qualsiasi altro Principe.

(era chiaramente in punta di diritto una guerra di aggressione da parte piemontese neanche troppo bene mascherata)

LETTERA DEL CONTE CAVOUR AL GEN. ALFONSO LA MARMORA, MINISTRO DELLA GUERRA E MARINA DEL RE DI SARDEGNA.



Baden 24 luglio 1858
Caro amico
Ho creduto debito mio il far conoscere senza indugio il risultato delle mie conferenze coll'imperatore al Re. Ho quindi redatta una lunghissima relazione (40 pagine circa) che spedisco a Torino ad un
addetto alla Legazione del Re a Berna. Desidererei molto che il Re se la facesse leggere, giacché mi pare di avere in essa riferito quanto di notevole mi disse l'Imperatore in una conversazione che durò poco meno di otto ore.
Non ho il tempo di ripeterti ogni cosa: tuttavia in massima ti dirò che si è stabilito:
l° Che lo Stato di Massa e Carrara sarebbe causa o pretesto della guerra;
2° Che scopo della guerra sarebbe la cacciata degli Austriaci dall' Italia: la costituzione del Regno dell'Alta Italia, composto di tutta la valle del Po, delle Legazioni e delle Marche;
3° Cessione della Savoia alla Francia. Quella della contea di Nizza in sospeso ......

La fine dell'Italia secondo Foreign Policy (articolo di David Gilmour).

Perché dovremmo stupirci se l’Italia cade a pezzi? Con decine di dialetti e un’unificazione fatta in fretta e furia, si potrebbe persino dubitare che sia davvero una nazione. L’Italia sta cadendo a pezzi, politicamente ed economicamente. Di fronte a una gravissima crisi del debito e alle defezioni dalla sua maggioranza parlamentare, il primo ministro Silvio Berlusconi, la figura politica che più ha dominato il panorama politico romano dai tempi di Mussolini, la scorsa settimana ha rassegnato le dimissioni. Ma i problemi del Paese vanno oltre la scadente prova politica del Cavaliere, oltre i suoi celebri peccatucci: le loro radici affondano nella fragilità del sentimento di unità nazionale, un mito nel quale pochi italiani, oggi, mostrano di credere.
La frettolosa, forzata unificazione del XIX Secolo, cui nel XX Secolo seguirono il fascismo e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, lasciò il paese privo del sentimento di nazionalità. Ciò non sarebbe stato di grande importanza se lo stato post-fascista avesse avuto maggior successo, non solo nella gestione dell’economia, ma anche nel proporsi come un’entità in cui i cittadini potessero identificarsi, e avere fiducia. Ma negli ultimi sessant’anni, la Repubblica italiana ha fallito nel fornire un governo funzionante, nel combattere la corruzione, nel proteggere l’ambiente, persino dal proteggere i suoi cittadini dalla violenza di Mafia, Camorra e altre organizzazioni criminali. Adesso, nonostante i suoi intrinseci punti di forza, la Repubblica si è mostrata incapace di gestire l’economia.
Ci sono voluti quattro secoli perché i sette regni dell’Inghilterra anglo-sassone diventassero, alla fine, uno solo, nel Decimo secolo. Ma quasi tutta l’Italia è stata riunita in meno di due anni, tra l’estate del 1859 e la primavera del 1861. Il Papa venne spogliato di quasi tutti i suoi domini, la dinastia dei Borbone venne esiliata da Napoli, i duchi dell’Italia centrale persero i loro troni e il re del Piemonte divenne re d’Italia. In quel momento tale rapidità venne vista come un miracolo, il risultato di un magnifico insorgere patriottico da parte di un popolo che anelava ad unirsi e cacciare l’oppressore straniero e i suoi servi. Va detto, però, che il movimento patriottico che ottenne l’unificazione dell’Italia era numericamente piccolo, formato per lo più da giovani della classe media settentrionale; e non aveva alcuna possibilità di successo senza un intervento dall’esterno.
Fu l’esercito francese a cacciare gli austriaci dalla Lombardia, nel 1859; fu una vittoria della Prussia a far sì che l’Italia, nel 1866, potesse annettersi Venezia. Nel resto del paese, le guerre di Risorgimento non furono tanto una lotta per l’unità e la liberazione, quanto una successione di guerre civili. Giuseppe Garibaldi, che si era fatto un nome come soldato combattendo in Sudamerica, si batté eroicamente con le sue camicie rosse in Sicilia e a Napoli nel 1860, ma la sua campagna fu, in ultima analisi, la conquista del Sud da parte del Nord, seguita dall’imposizione delle leggi del Nord in luogo di quelle dello stato meridionale che allora esisteva, il Regno delle due Sicilie. Napoli non si sentì affatto “liberata”, soltanto ottanta napoletani si offrirono volontari per le camicie rosse garibaldine e la sua gente non tardò ad amareggiarsi del fatto che la città aveva scambiato quello che da seicento anni era il suo rango “capitale del regno” con quello di località di provincia. Ancor oggi il suo status è minore, nel quadro di un Pil del Mezzogiorno pari a meno della metà del settentrione.
L’Italia unita ha saltato la fase, normale e faticosa, di “costruzione della nazione”, diventando subito uno stato centralista ben poco disposto a fare concessioni ai diversi localismi. Si faccia il paragone con la Germania: dopo l’unificazione del 1871, il nuovo Reich era governato da una confederazione che includeva quattro regni e cinque granducati. La penisola italiana, al contrario, venne conquistata in nome del re piemontese Vittorio Emanuele II e rimase una versione ingrandita di quel regno, esibendo lo stesso monarca, la stessa capitale (Torino), persino la stessa Costituzione. L’applicazione delle leggi piemontesi su tutta la penisola fece sentire i suoi abitanti più come popolazioni conquistate che come popolo liberato. Il sud venne attraversato da una serie di violente rivolte, tutte sanguinosamente represse.
Le diversità che attraversano l’Italia hanno una storia antica, che non può essere messa da pare in pochi anni. Nel Quinto secolo dopo Cristo, gli antichi greci parlavano la stessa lingua e si consideravano greci; a quei tempi, la popolazione dell’Italia parlava 40 lingue diverse e non aveva alcun senso di identità comune. Tali diversità divennero ancor più pronunciate alla caduta dell’Impero romano, con gli italiani che si ritrovarono a vivere per secoli in comuni medievali, città-stato e ducati rinascimentali. Questi sentimenti di campanile sono vivi ancor oggi: se, per esempio, chiedete a un abitante di Pisa: “di dove sei”?, lui dirà “sono di Pisa” o eventualmente “sono toscano” ancor prima di dire “sono italiano” o magari “europeo”. Come scherzosamente ammettono molti italiani, il loro sentimento di appartenenza alla nazione emerge soltanto durante la Coppa del mondo di calcio, e solo se gli “azzurri” giocano bene.
La lingua è un altro indicatore delle divisioni italiane. Il celebre linguista Tullio De Mauro ha stimato che all’epoca dell’unificazione, solo il 2,5% della popolazione parlasse l’italiano, vale a dire, l’idioma sviluppatosi a partire dal fiorentino vernacolare con cui scrivevano Dante e Boccaccio. Anche se si trattasse di un’esagerazione e quella percentuale fosse pari a dieci, ancora così si avrebbe che il 90 per cento degli abitanti dell’Italia parlavano lingue o dialetti regionali incomprensibili alle altre genti della penisola. Persino il re Vittorio Emanuele parlava in dialetto piemontese quando non parlava quella che era la sua lingua ufficiale, il francese.
Nell’euforia tra il 1859 e il 1861, pochi politici italiani si soffermarono a considerare le complicazioni derivanti dall’unire genti così diverse. Uno che lo fece fu lo statista piemontese Massimo d’Azeglio, che subito dopo l’unificazione avrebbe detto: “Ora che è fatta l’Italia, dobbiamo fare gli italiani”. Purtroppo, la via che più di ogni altra venne seguita per “fare gli italiani” fu quella di sforzarsi di fare dell’Italia una grande potenza, una potenza in grado di competere militarmente con Francia, Germania, Austria-Ungheria. Un tentativo condannato al fallimento, perché la nuova nazione era assai più povera delle sue rivali.
Per un periodo di novant’anni, culminato con la caduta di Mussolini, la classe dirigente italiana decise di costruire il senso di nazionalità che ancora mancava trasformando gli italiani in conquistatori e colonialisti. Vennero spese grandi somme di denaro per finanziare spedizioni in Africa, spesso risoltesi in disastri; come ad Adua, nel 1896, dove un’armata italiana venne distrutta dalle forze etiopiche che uccisero in un giorno solo più italiani di quanti ne morirono in tutte le guerre risorgimentali. Sebbene il paese non avesse nemici in Europa e nessun bisogno di combattere in nessuna delle due guerre mondiali, l’Italia entrò in entrambi i conflitti, in tutti e due i casi nove mesi dopo lo scoppio delle ostilità con il governo che credeva di aver individuato il vincitore al quale chiedere, in premio, annessioni territoriali. L’errore di calcolo fatto ad Mussolini e la sua successiva caduta distrussero a un tempo, in Italia, il militarismo e l’idea di nazionalità.
Nei cinquant’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale il paese fu dominato dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista. Questi partiti, che ricevevano direttive, rispettivamente, dal Vaticano e dal Cremlino, non avevano alcun interesse nell’instillare un nuovo spirito di nazionalità, che prendesse il posto di quello naufragato nei disastri precedenti. L’Italia del dopoguerra è stata, per molti versi, una storia di successo. Con uno dei ratei di crescita maggiori del mondo, si segnalò tra i paesi innovatori in campi pacifici e produttivi come cinema, moda, design industriale. Ma anche quei trionfi furono settoriali, e nessun governo è stato mai in grado di colmare il gap esistente tra nord e sud.
I fallimenti politici ed economici del Governo non sono l’unica causa della malattia che oggi minaccia la stessa sopravvivenza dell’Italia. Alcuni difetti strutturali del Paese sono intrinseci alle circostanze della sua nascita. La Lega Nord, il terzo maggior partito politico italiano, secondo cui il 150° anniversario dell’unità d’Italia avrebbe dovuto essere materia più di lutto che di celebrazioni, non è soltanto una strana aberrazione. Il suo atteggiamento verso il sud, per quanto razzista e xenofobo, dimostra che l’Italia, in realtà, non si sente un paese unito.
Il grande politico liberale Giustino Fortunato era solito citare suo padre, secondo cui “l’unificazione dell’Italia è stata un crimine contro la storia e la geografia”. Credeva che la forza e la civiltà della penisola risiedesse in una dimensione regionale, e che un governo centrale non avrebbe mai funzionato. Ogni giorno che passa, le sue idee appaiono sempre più esatte. Se per l’Italia c’è ancora un futuro come nazione unitaria dopo questa crisi, dovrà riconoscere la realtà di una nascita travagliata e costruire un nuovo modello politico che tenga conto del suo intrinseco, millenario regionalismo, magari non un mosaico di repubbliche comunali, ducati arroccati sulle montagne e principati; ma almeno uno stato federale, che rifletta le caratteristiche principali del suo passato.