venerdì 4 novembre 2011

Cecco Beppe e l’impero «multicolore»



Alla “Festa dei popoli della Mitteleuropea”, che dal 15 al 17 agosto si tiene a Giassico (località di Cormòns, in provincia di Gorizia), ci si può andare per le ragioni più diverse. Per gustare un clima piacevolmente rétro, per imparare qualcosa della propria storia o per tenere vivi la speranza e il sogno di ordini giuridici differenti e di geografie politiche “altre”.

Sono tutte buone ragioni, senza dubbio, perché questa manifestazione – che l’Associazione Culturale Mitteleuropea organizza dal 1975 nel fine settimana più vicino al genetliaco dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo-Lorena (nato, appunto, il 18 agosto 1830) – ha il merito di rammemorare quella Felix Austria che fu a lungo una mirabile “eccezione” proprio nel cuore del Vecchio Continente.

Giunto al trono solo diciottenne in un’Europa sconvolta da fremiti rivoluzionari, Cecco Beppe (com’era affettuosamente chiamato nei territori di lingua italiana) sapeva di essere stato chiamato a gestire un’istituzione vinta dalla storia. Nell’età che avrebbe portato all’«inutile strage» (disse Papa Benedetto XIV) della Prima guerra mondiale, la Mitteleuropea imperialregia poteva essere solo detestata dai protagonisti della scena europea.

Eppure, proprio in quei sei decenni che vanno dal 1848 al 1916, Vienna si affermerà quale capitale culturale del mondo intero. Entro l’impero retto «con saggio amore», come recitava una canzone popolare, si formeranno i maggiori filosofi, scienziati e artisti del tempo: da Johannes Brahms a Carl Menger, da Heimito von Doderer a Gustav Klimt, da Edmund Husserl a Oskar Kokoschka, da Sigmund Freud a Karl R. Popper, da Ludwig Wittgenstein ad Hans Kelsen, da Adolf Loos a Gustav Mahler, e via dicendo; ma l’elenco delle grandi personalità viennesi e “asburgiche” (si pensi solo alla Praga di Franz Kafka) sarebbe davvero troppo lungo.

Dall’«otium» nasce la cultura

Quella vivacità d’idee non fu casuale. La cultura emerge in contesti di libertà e di prosperità, e specialmente in quelle società che valorizzano lo scambio e il dialogo. L’impero fu tutto questo perché, fin dall’inizio, rigettò il modello dello “Stato nazionale”, che nel secolo XIX si era imposto come sola istituzione legittima, e fu quindi naturalmente pluralista: lasciando convivere lingue, religioni e culture differenti.

A Giassico, allora, i rappresentanti dei popoli dell’impero si ritrovano ogni anno anche per esprimere la legittima nostalgia verso quell’Europa tradizionale e tollerante che è stata cancellata dal nazionalismo, massimamente virulento durante la Grande Guerra. Come ebbe a dire un protagonista di quel mondo, Franz Werfel, «gli Stati nazionali sono nella loro essenza stessa unità demoniache»; l’impero, invece, era un vasto spazio aperto entro il quale tante piccole comunità trovavano una “casa comune” capace di proteggerle. D’altra parte, gl’irredentismi promossi da Cesare Battisti e da Tomas Masaryk hanno creato un “vuoto” di potere proprio nel centro dell’Europa: riempito dapprima dall’espansionismo hitleriano, poi dall’Unione Sovietica.

La periferia è il fulcro

In questo senso, il federalismo “implicito” sotteso alle istituzioni imperiali ha ben poco a che fare con lo spirito unificatore che oggi spinge le classi politiche europee a concentrare sempre più poteri a Bruxelles. Mentre l’Europa in costruzione è modellata sullo Stato nazionale (e punta a rappresentarne una “proiezione” ampliata e abnorme), l’antico impero affondava le radici nel policentrismo medievale e nel pluralismo, erede dell’universalismo cattolico, che caratterizzava l’Europa prima dell’avvento del “principio di sovranità”. Non stupiamoci, allora, se ogni anno a metà agosto quanti ricordano con simpatia l’imperatore Francesco Giuseppe e il suo mondo si danno appuntamento nella periferica contrada di Giassico. Come rilevò lo scrittore Joseph Roth ne “La cripta dei cappuccini”, «l’anima dell’Austria non è il centro, ma la periferia». Ed è quindi tutt’altro che sorprendente se i rappresentanti di quei piccoli popoli tornano a ricordarlo proprio in un minuscolo villaggio, che per tre giorni diventa capitale di un’istituzione capace ancora di far parlare di sé.