domenica 15 gennaio 2012

IL 45° Imperial Regio Reggimento di Fanteria Arciduca Sigismondo (1814-1866):I soldati veronesi nella bufera risorgimentale


La retorica patriottarda, che imperversa in questi giorni sui mezzi di comunicazione di massa, dà
per scontato quello che scontato non è, ovvero che il cosiddetto Risorgimento nazionale sia stato un
processo politico-militare legittimo e doveroso, che fece finalmente uscire la sfortunata penisola italiana
da un’epoca di oscurantismo e arretratezza.
Ma fu veramente così?
Qualche pubblicazione, tuttavia, è venuta nel frattempo alla luce, illuminando episodi che, anche
se limitati ad un particolare settore, come la storia militare, di una particolare regione, come il Veneto,
possono benissimo essere assunti a livello generale per il loro valore di esempio. I fatti che emergono da
questi studi confutano, però, (ed è questo il risultato sorprendente, che forse il lettore comune non si
aspetterebbe affatto) la vulgata risorgimentale.
L’opposizione al Risorgimento, prima che ideologica, fu nei fatti stessi e nel numero di coloro che
o vi aderirono passivamente, subendo la violenza illegittima dei vincitori, o, altrettanto spesso, lo
contrastarono anche al prezzo della vita, come è il caso, stando al nostro assunto, delle migliaia e migliaia
di veneti e lombardi che tra il 1814 e il 1866 furono arruolati nei reparti dell’Imperial- Regio esercito
austriaco e parteciparono – ma dalla parte opposta – a tutti o quasi gli episodi salienti del Risorgimento:
le Cinque giornate di Milano, le Dieci di Brescia, le battaglie di Santa Lucia, Goito, Curtatone,
Montanara, Novara, l’assedio di Vicenza, quello di Venezia ecc. ecc.
Le cifre sono imponenti.
È stato infatti stimato che tra il 1814 e il 1866 non furono meno di 500.000 i lombardo-veneti che
militarono sotto le insegne dell’aquila bicipite della Casa d’Austria.1 Questi fatti, che cominciano
lentamente ad emergere e venire alla luce, ci aiutano sempre più a comprendere che il Risorgimento non
fu per nulla una sorta di “guerra allo straniero”, ma una vera e propria guerra civile, che dilaniò per
decenni le popolazioni italiane del nord e del sud.
Restringendo ancor più il nostro campo d’indagine, ci concentreremo solo su di un reparto di
quell’esercito quasi sempre vittorioso, ovvero sulla sorte dei soldati di origine veronese e rodigina, che combatterono nelle file del 45° Reggimento di fanteria Arciduca Sigismondo d’Este dell’Armata austriaca
tra il 1814 e il 1866.

                                                1. Il 45° Reggimento dal 1814 al 1847

Il 45° Reggimento di Fanteria venne costituito tra il 1814 e il 1816. La sua circoscrizione
principale di reclutamento era data dalle provincie di Verona e Rovigo. Solo a partire dal 1860 anche i
soldati mantovani (provenienti dal 38°) confluirono stabilmente nel Sigismondo e vi rimasero fino al
1866.
I soldati portarono fino al 1836 un’uniforme composta da giacca bianca e pantaloni bianchi fino
al ginocchio, da cui partivano ghette nere. I paramani e le filettature erano rosso chiaro, i bottoni di color
giallo. Successivamente al 1836 i pantaloni da bianchi divennero azzurri con la banda bianca. Gli ufficiali
ne indossavano invece una d’oro. I fucilieri continuarono a portare il caratteristico tschako, mentre i
granatieri il berrettone di pelo d’orso2.
Nel 1850 ci fu un ulteriore cambiamento nell’uniforme: la giubba bianca aggiunse un’altra fila di
bottoni, i pantaloni divennero blu con la banda bianca, mentre gli ufficiali ebbero in dotazione cappotto
grigio3.

Tra il 1821 e il 1840 i tre battaglioni del Reggimento sono di guarnigione principalmente nei
territori del Regno d’Ungheria. Li troviamo tra la Stiria e la Craina nel 1821 e il 1823. In quell’anno
hanno modo di ricevere a Pressburg la visita dell’Imperatrice Carolina Augusta, e, poco dopo, dello
stesso sovrano Francesco I4. Nel 1829 partecipano alle grandi manovre di Traiskirchen alla presenza
dell’Imperatore e dell’Arciduca Ferdinando d’Este. Nel 1830 il I e II battaglione sono destinati in Bosnia
per fronteggiare i banditi provenienti da sud. Il III battaglione, invece, rientrato in Italia, partecipa alle
manovre organizzate dal nuovo Comandante in Capo, Feldmaresciallo Radetzky, tra Montichiari,
Castiglione, Medole e Valeggio sul Mincio. Negli anni successivi il II battaglione, rimasto in Bosnia,
continua l’opera di controguerriglia contro i predoni bosniaci guidati da Hassan Aga Bechy lungo il
confine coi territori sotto sovranità turca. Nel 1839, finalmente, anche gli altri due battaglioni
ricevettero l’ordine di tornare in Veneto5.
Nel 1841 la storia reggimentale segnala una cerimonia particolarmente commovente. Vennero
infatti consegnate solennemente ai tre battaglioni in Campofiore a Verona, dopo la Santa Messa, le
nuove bandiere. Dopo la consegna, il Comandante del Reggimento, conte Gyulai, elevò in lingua italiana
l’invocazione di rito: Iddio conservi il nostro clementissimo Sovrano, l’Imperatore Ferdinando! A cui fecero
eco tre forti Evviva! Le tre bandiere furono decorate con altrettanti nastri. Il primo con preziosi ricami
d’oro, opera della Arciduchessa Maria Luisa, Duchessa di Parma, portava il motto latino: Si Deus pro
nobis, quis contra nos?6 Il secondo di colore azzurro, donato dalla Città di Verona, aveva la scritta:
Fideliter e Constanter. Verona Militibus civibus suis anno MDCCCXLI7. Il terzo fregio fu omaggio della
città di Rovigo: La Regia città di Rovigo l’anno 1841 D.D., con l’aggiunta: L’ultimo dei nostri ti perderà.
Tra il 1842 e il 1847 il 45° Regt. stazionò di guarnigione soprattutto in territorio veneto: Vicenza,
Legnago, Bassano, Padova, Monselice. Nel dicembre 1846 i soldati veronesi erano a Venezia in occasione
della visita dello Zar di Russia. Poco dopo il II battaglione partì per la Dalmazia, dove fu impegnato
contro le bande montenegrine, che passavano il confine e compivano incursioni. Vi rimase fino al 1849.

                    2. Dalle Cinque Giornate di Milano alla battaglia di Santa Lucia (1848)

Dopo l’esplodere della rivoluzione nel Lombardo-Veneto, il 5 marzo 1848 il I battaglione
ricevette l’ordine di partire alla volta di Bergamo, con il compito di rastrellare la Val Brembana e la Val
Seriana, dove si annidavano dei ribelli. Tuttavia il 20 marzo il battaglione fu comandato a Milano, dove
la situazione stava precipitando. La cosa non fu affatto semplice: i soldati scaligeri vennero subito
attaccati dai rivoluzionari, e, ancora in Bergamo, furono oggetto di fitte sassaiole, lancio di tegole e tiri di
fucile. Inoltre impedivano e rallentavano loro la strada numerose barricate. Il comandante del
battaglione, Ten. Col. Von Arno venne gravemente ferito e fatto prigioniero. Solo dopo due ore di aspri
combattimenti, così, il 45° riuscì a sfuggire alla guerriglia urbana per dirigersi verso Milano. A
Gorgonzola il battaglione di veronesi dovette però affrontare nuovi scontri e – stanco per i continui
combattimenti – soggiornò a Fornace10.
Il 21 marzo il battaglione fu nuovamente investito dai rivoluzionari e, solo il giorno dopo, poté
ricoverarsi nel Castello Sforzesco. A Milano il I battaglione trovò anche i granatieri del medesimo 45°,
che furono subito impiegati a tener libere e sicure le Porte Ludovica, Romana e Tosa. Porta Ludovica,
però, cadde nelle mani dei ribelli e il Maggior Generale Clam-Gallas ordinò alle truppe del 45° di
riprendere la posizione. Dopo alcune ore di combattimenti e alcune perdite la Porta e le abitazioni
circostanti furono riconquistate. Poi fu la volta di Porta Tosa e, ancora una volta i militi veronesi,
supportati da altre unità, ne ripresero il possesso. Il 23 marzo Milano era abbandonata a se stessa e le
truppe imperiali prendevano faticosamente la via della ritirata verso Verona.
La situazione era drammatica. L’esercito piemontese, infatti, era penetrato nel Lombardo–
Veneto senza dichiarazione di guerra, mentre vi convergevano da sud le truppe pontificie, del Regno di
Napoli e quelle del Granduca di Toscana.
Dopo cinque giorni di combattimenti, le truppe presero a marciare verso est, attraverso
Landriano, Lodi, Romanengo, Soncino, Manerbio, Montichiari e Lonato, dove attraversarono il Chiese a
Ponte San Marco.
Dal 31 marzo al 4 aprile il 45° tenne Calcinato. Riunitosi col resto dei battaglioni a Villafranca, il
reggimento fu inviato a Goito, attestandovisi l’8 aprile, dopo qualche scaramuccia coi piemontesi nella
frazione di Quaderni. Il II battaglione con 8 cannoni si schierò poco lontano, presso il ponte di
Borghetto, sul fiume Mincio, che venne attaccato violentemente dai sabaudi. I veronesi ebbero nello
scontro 6 morti e 10 feriti, ma tennero la linea, fin quando ricevettero l’ordine di ripiegare nelle fortezze.
Il III battaglione fu schierato tra le località di Tombetta e Santa Lucia e il 6 maggio 1848 finì col
trovarsi nel punto di maggior pressione nemica. La zona a Sud–Ovest di Verona fu attaccata dai
piemontesi con forze preponderanti provenienti dalle alture di Custoza, Sommacampagna e Sona. I sardi
tentarono di aprirsi un varco tra i villaggi di San Massimo e Santa Lucia, isolati a pochi km dalle mura
cittadine.
Trovarono però un’inaspettata resistenza da parte della brigata Strassoldo, di cui faceva parte il
III battaglione del 45° Regt. Arciduca Sigismondo. Ben presto l’assalto nemico si concentrò sul piccolo
borgo di Santa Lucia, ma gli imperiali – benché di gran lunghi inferiori di numero – nonostante le cariche
della cavalleria piemontese e un ininterrotto cannoneggiamento, ricacciarono l’assalto alla baionetta dei
granatieri della Guardia sabauda. Dopo tre ore la battaglia perse vigore e gli invasori dovettero
retrocedere. Da Verona giunse nel frattempo a dar man forte anche il II battaglione. I piemontesi alla
fine cedettero il campo e volsero in ritirata. Due soli battaglioni avevano tenuto testa a cinque brigate
nemiche. L’Arciduca Francesco-Giuseppe, erede al trono, era presente a Santa Lucia ed ebbe allora il suo
battesimo del fuoco.
Il 18 maggio ancora il I e III battaglione parteciparono alla controffensiva imperiale, battendosi
con ardimento a Goito e Ceresara, dove ebbero numerosi caduti.
Il valore dei fanti del 45° non passò inosservato. Non pochi furono decorati al valore in quei
giorni.
Medaglia d’oro al valore:
maresciallo Francesco Durino
Medaglia d’argento al valore:
maresciallo Giovanni Magagna
caporale Ludovico Lavezzo
caporale Lorenzo Negrini
soldato scelto Ottilio Marchesi
soldato scelto Stefano Calgaro
soldato scelto Giuseppe Casagrande
soldato Giuseppe Petrosin
soldato Andrea Siviero
soldato Serafino Maggioni
soldato Francesco De Vittor
soldato Santo Mercanti
Ricevettero un encomio speciale dall’Imperatore:
sergente maggiore Antonio Lupato
sergente maggiore Aldighieri
caporal maggiore Zaparoli
caporal maggiore Cherubino
soldato Carlo Vizzoni
soldato Giovanni Zorzella.

                                        3. La battaglia di Novara e la caduta di Venezia (1849)

Dopo la battaglia di Custoza del giugno 1848, le truppe piemontesi iniziarono il ripiegamento
verso la Lombardia, da dove rientrarono nei territori sabaudi. L’armistizio che ne seguì, non spense le
velleità di conquista del Re Tentenna, com’era soprannominato Carlo Alberto, che già durante i primi
mesi del 1849 diede chiari segni di voler riprendere quanto prima le ostilità, mentre Venezia manteneva
ancora un’effimera indipendenza.
Tra Novara, Vercelli e Vigevano si andava così concentrando il grosso dell’armata sarda forte di
circa 100.000 uomini. I due battaglioni del 45° (ricordiamo che il II rimase ininterrottamente per tutto il
corso della guerra in Dalmazia a difesa dei confini meridionali) furono uniti alla brigata Maurer del III
corpo d’armata e, raggiunta Pavia, si attestarono sul Ticino.
La breve campagna militare, dopo i fatti d’arme di Mortara, Gambolo e Borgo San Siro, si
concluse nella grande battaglia di Novara, dove si distinse in particolare il I battaglione al comando del
Capitano Federico Ferrari, che sul fianco destro continuò combattendo la marcia verso la città, conquistò
cinque cannoni, e sopraffece una batteria da 16 libbre, giungendo fin sotto le mura di Novara.
Terminate le ostilità con l’esilio inflitto al sovrano subalpino, il 28 marzo 1849 il 45° marciò su
Milano e, di lì, a Brescia dove furono decorati i soldati più valorosi della breve campagna. Tra gli altri
furono anche ricordati i 35 soldati che perirono a Brescia, durante le famigerate Dieci Giornate12.
Rimaneva ancora Venezia.
Dopo un breve riposo a Verona i due battaglioni presero la strada verso est e attraverso Vicenza e
Padova, giunsero a Mestre, dove si unirono alla brigata Macchio, che assediava la città adriatica. I fanti
del Sigismondo parteciparono così all’attacco del Forte Marghera, lasciando sul terreno un caduto e tre
feriti. Dopo la capitolazione dei rivoluzionari di Venezia ad agosto, il 45° fu trasferito a Brescia.
Medaglia d’oro al valore:
caporalmaggiore Giuseppe Cameran
Medaglia d’argento di 1° classe:
caporalmaggiore Zaparoli
caporalmaggiore Bianchi
tamburino Visentini
soldato Saccon
soldato Rossi
soldato Nibale
soldato Veronesi
soldato Rossetto
Medaglia d’argento di 2° classe:
sottotenente Camillo Soranzo
sottotenente Carlo Formenti
maresciallo Zini
caporalmaggiore Pimazzoni
caporalmaggiore De Battisti
caporalmaggiore Belucco
caporalmaggiore Guarnieri
caporale Galghero
caporale Boldrini
caporale Toso
caporale Cacianiga
caporale Mantovani
caporale Massagrande
soldato scelto Sgarbi
soldato scelto Manfrimati
soldato Giacomuzzi
soldato Sacheto
soldato Grottolo
soldato Pasetto
soldato Zangrande
soldato Gasperini
soldato Panigalli
soldato Marchiori
soldato Piccoli
soldato Steffanini
soldato Dallocco
soldato Favalli
soldato Castellini
soldato Carminati
soldato Ferrari
soldato Attrappelli
soldato Vincenzi
soldato Argenti
soldato Bianchi
soldato Pasqualin
soldato Zanca
soldato Riziolli
soldato Dainese.

                                                       4. Tregua armata dal 1850 al 1858


Negli anni 1850 e 1851 troviamo i soldati veronesi in varie guarnigioni dell’Impero tra Dalmazia
e Ungheria. Nel 1853 il neo costituito IV battaglione ricevette in dono dall’Imperatrice Elisabetta la
bandiera col nastro rosso, che recava la scritta in italiano: Fedeltà e valore vi unisca al sacro pegno. La
consegna avvenne a Verona e la Congregazione Municipale offrì ai soldati 500 lire austriache13.
Nel 1857 fu stabilito che, in caso di ostilità, il 45° reggimento doveva consistere di una forza
complessiva di 4 battaglioni, formati da 32 compagnie, per un totale di 6.886 uomini14.
Nel 1858 morì a Milano l’anziano Feldmaresciallo Radetsky.
Quell’anno, in cui cadeva il 10° anniversario della battaglia di Santa Lucia, fu anche l’occasione
per commemorare con la dedica di un monumento i caduti del reggimento nella battaglia del 1848. Il 6
maggio, anniversario dello scontro, venne ufficialmente inaugurato un cippo marmoreo costruito a spese
del Reggimento e con la manodopera dei soldati. Alla presenza del Feldmaresciallo Gyulai, del Vescovo e
delle autorità cittadine, venne celebrata la Santa Messa dal cappellano del reparto, Don Antonio
Mazzani. Tutta la cerimonia si svolse in lingua italiana.
Il cippo (tuttora visibile nel Cimitero di Santa Lucia) porta la seguente scritta:
L’Imperial Regio Reggimento fanti Arciduca Sigismondo
Ai suoi commilitoni
Qui caduti
Nel combattimento di Santa Lucia
Il 6 maggio 1848
Erigeva.
Pace alle loro ceneri
Onore alla loro gloriosa memoria
Colla morte dei valorosi
Suggellarono la loro fedeltà
Al Sovrano e alla patria.
Inaugurato con solennità il giorno 6 maggio 1858.
In settembre il reggimento era a Vienna ed ebbe l’onore di esser di guardia ai palazzi imperiali.

                                                                      5. Magenta (1859)

Il 28 febbraio 1859 il 45° ebbe l’ordine di mettersi sul piede di guerra. Le continue provocazioni
del Regno di Sardegna sui confini occidentali del Lombardo-Veneto, spingevano fatalmente l’Austria
verso la mobilitazione generale e la guerra. L’intesa tra Piemonte e Francia, infatti, prevedeva che
quest’ultima sarebbe intervenuta a fianco dei subalpini solo nel caso in cui fosse stata l’Austria ad aprire
per prima le ostilità.
L’alto comando decise di inviare in Italia i battaglioni del Sigismondo, tanto grande era la fiducia
e la considerazione che a Vienna si aveva dei soldati veneti. Il 31 aprile il 45° era acquartierato a Milano
presso la caserma San Francesco. Il Reggimento fu aggregato al II corpo d’armata comandato dal
Feldmaresciallo Jelacic e dispiegato tra Milano e Pavia. Il 2 maggio i reparti (raggiunti nel frattempo
anche dal battaglione Granatieri) attraversarono il Ticino in direzione Guarlasco, Mede, Ottobiano,
Nicovo, Sesia, giungendo nelle vicinanze di Vercelli. Il 9 maggio ripiegò su Cilavegna. Il 18 era a San
Giorgio, mentre il 30 sostava nei pressi di Palestro, pronto ad entrare nella mischia.
Dopo le battaglie di Palestro e Montebello, l’armata si schierò sulla difensiva lungo la linea
Vercelli-Pavia-Piacenza. Il nemico occupò le due rive del Tanaro. Il 3 giugno l’esercito imperiale si ritirò
su Magenta, e il II battaglione ebbe l’ordine di tenere Robecco sul Naviglio e Ponte Vecchio di Magenta.
Il I battaglione invece era schierato a difesa di due postazioni sul Naviglio Grande.

I francesi presero a metà mattina del 4 giugno il ponte in pietra sul Ticino, sloggiandone gli
imperiali. Il II battaglione, appostato dietro una massicciata della linea ferroviaria, fu investito da due
battaglioni di granatieri, resistendo a lungo, ma per impedire che venisse isolato, fu poi fatto ripiegare su
Carpenzago. Per proteggere la ritirata, il Comando austriaco inviò allora il I battaglione a difenderne la
strada, permettendo così al II e al resto della brigata di ritirarsi agevolmente sul paese, dove si appostò.
I francesi intanto si erano attestati in alcuni punti al di là del corso d’acqua. Per questo il
Maggiore Generale Kintzl ordinò al I e II battaglione del 45° (ancora relativamente freschi) di avanzare
verso il nemico, coperti dal fuoco di batteria di due cannoni. L’assalto al Ponte Vecchio fu eseguito dai
veronesi con rapidità e le compagnie francesi vennero ributtate indietro dagli italiani fin oltre il gruppo
di case, dove affluirono le riserve austriache. Nonostante i furiosi contrattacchi francesi e il continuo
fuoco di controbatteria la posizione rimaneva ancora nelle mani dei soldati imperiali, sicché i francesi,
comandati dal generale Picard, si videro costretti a sloggiare completamente dal paese. Fatti affluire
cospicui rinforzi, con un successivo attacco, le truppe di Napoleone III riuscirono alla fine a sloggiare da
Ponte Vecchio gli imperiali, i quali però non furono inseguiti ed ebbero modo di raggrupparsi con ordine
in alcune case, sempre bersagliati dai colpi nemici.
Gli austriaci allora tentano una seconda volta la riconquista dell’abitato. Questa volta tocca a
reparti della brigata Hartung, che però vengono respinti sulle linee di partenza. Kintzl ordina di nuovo ai
veronesi di prepararsi per un ulteriore attacco, che viene preceduto da un furioso fuoco di artiglieria.
L’assalto condotto dal Sigismondo caccia da Ponte Vecchio per la seconda volta in poche ore i francesi
del 90° reggimento. Poco dopo però questi, grazie al continuo affluire di rinforzi, passano nuovamente
alla controffensiva, e i veronesi sono costretti a ripiegare, anche perché, col ripiegamento dei soldati della
brigata Hartung sulla sinistra, il 45° rischia l’accerchiamento e viene preso d’infilata.
Quella terribile giornata non era però ancora finita per i fanti del Sigismondo.
Si pretese da loro un terzo assalto alla baionetta nel tentativo di riconquistare Ponte Vecchio. Il
paese è rioccupato ancora una volta, ma i napoleonici vi ammassano truppe fresche in gran quantità, che
scacciano definitivamente gli imperiali. Per un attimo i veronesi si sbandano, ma, al suono dell’adunata,
le fila diradate si ricompattano subito a poche centinaia di passi dalle case in mano francese. Il nemico
impressionato desistette dall’inseguirli. Terminò una giornata sanguinosa per entrambe le parti. Il
reggimento veronese ebbe 43 morti e 279 feriti.
“É giusto segnalare che a Ponte Vecchio di Magenta il reggimento rimase a combattere da solo per
molto tempo, resistendo a forze preponderanti del nemico (una parte delle brigate francesi Wimpffen, Cler e
Picard, approssimativamente da 6 a 7 battaglioni) facendogli credere, per ammissione stessa delle proprie
fonti, di avere a che fare con forze a lui molto superiori”.16
Il 26 giugno 1859 i reparti si trovavano a San Vito di Legnago (Vr) dove l’Aiutante di campo
dell’Imperatore Francesco Giuseppe decorò alcuni valorosi militi del Reggimento, che si erano distinti
nella drammatica giornata di Magenta:
Medaglia d’argento al valore di 1° classe:
maresciallo Pietro Tegolin
maresciallo Pietro Temporin
sergente Carlo Colombo
caporalmaggiore Giovanni Dal Medico
soldato Giovanni Ferrante
soldato Francesco Bettoli
soldato Pietro Faustinelli
soldato Luigi Dallanogara
soldato Antonio Bonafin
Medaglia d’argento al valore di 2° classe:
portabandiera Giovanni Battistoni
sergente Giovanni Calzavacca
sergente Vincenzo Zaglio
sergente Giuseppe Cindric
sergente Abele Sicchiero
sergente Giovanni Paroli
caporalmaggiore Pietro Drera
caporalmaggiore Cesare Guaida
caporalmaggiore Antonio Barbieri
caporalmaggiore Gaetano Donà
caporalmaggiore Antonio Invirto
tamburino Orlando Molteni
tamburino Michele Campagnari
tamburino Giorgio Ascari
trombettiere Tommaso Mischiari
caporale Luigi Ragazzi
caporale Ludovico Fioresi
granatiere Michele Marcomini
soldato Giuseppe Ghidoni
soldato Emilio Piccoli
soldato Luigi Ceriani
soldato Giacomo Giardini
soldato Marco Dal Maestro
soldato Pietro Gavioli
soldato Giovanni Siviera

                                                     6. 1860-1866: ultime gesta. Sadowa

Tra il 1860 e il 1863 il reggimento fu principalmente di guarnigione nella Boemia meridionale.
Nel 1866 l’alleanza italo-prussiana rischiava di chiudere l’Impero d’Austria in una morsa a
tenaglia. Allo scoppio delle ostilità il Sigismondo si trovava aggregato all’Armata del Nord, in Boemia,
che doveva contrastare l’esercito prussiano. I battaglioni al completo nell’aprile furono uniti alla Brigata
Piret alle dipendenze del I Corpo d’Armata, comandato dal Generale Conte Clam-Gallas.
Dopo varie scaramucce, il 27 giugno 1866 il 45° ricevette l’ordine del Principe ereditario di
Sassonia di dar man forte all’armata principale a Jicin. Era in movimento verso quella località, quando
sulle balze del Monte Musky, il III battaglione fu assalito all’improvviso dai soldati del II battaglione del
27° reggimento brandeburghese. Mentre si ritirava ordinatamente, continuando a combattere,
sopraggiunsero a dargli manforte anche il I e III battaglione che si gettarono subito nella mischia. Nello
scontro morirono 45 uomini, compreso il tenente Ernesto Riva; i feriti furono 229, e 123 caddero
prigionieri.
Il I e II battaglione furono, quindi, inviati sul Monte Testin, mentre il III rimase di riserva. I
prussiani del IV corpo d’armata passarono all’attacco dopo un lungo bombardamento. Alcune
compagnie del I, allora, conversero verso Zames per scacciarne il nemico. Entrate nella profonda valle del
torrente Cidlina, le 6 compagnie veronesi procedevano, al canto della marcia La canna, verso il nemico
arroccato nel villaggio. A 60 passi dai prussiani sferrarono l’assalto alla baionetta, ma le 14 compagnie
del 48° fanteria e dell’8° della Guardia prussiana, sostenuti da 3 batterie, ebbero fatalmente la meglio. A
quel punto arrivò l’ordine di ripiegare verso Mitelin.
In quello scontro persero la vita 6 ufficiali, tra cui i tenenti Ascanio Colloredo e Antonio Muraro,
il sottotenente Carlo Maffei, 47 soldati e 9 sottufficiali. I feriti furono 159. Nessuno cadde prigioniero. Gli
ufficiali furono disarcionati, essendo abbattuti dal nemico tutti i cavalli18.
Ripiegato su Königgrätz, il Sigismondo fu schierato nei pressi della piazzaforte, sulla riva destra
dell’Elba. I prussiani concentravano le truppe e la mattina del 3 luglio iniziò un forte cannoneggiamento
che preludeva ad un imminente assalto. Fino al primo pomeriggio la linea austriaca resistette, ma, ben
presto, il centro, formato dal III e IV corpo, cominciò a cedere e ritirarsi. Anche i Sassoni e l’VIII corpo
cominciarono a vacillare, e alle due pomeridiane fu dato l’ordine di retrocedere.
Alla Brigata Piret, tuttavia, fu dato l’ordine di fermarsi e coprire la ritirata. Il I e II battaglione,
che ne facevano parte, si diressero combattendo verso Problus. Il III, invece, era impegnato a difendere
una brigata di artiglieria nel bosco di Bor.
A Problus, però, il nemico era già giunto e si era ben attestato. I fanti del 45° salirono le alture
per scacciarlo. Si scatenò tra le parti un intenso fuoco di fucileria. I prussiani furono costretti a rallentare
il passo, il che permise al resto dell’armata imperiale di ritirarsi in buon ordine. Alla fine, nonostante le
perdite subite, anche i veronesi riuscirono a ripiegare. In quel fatto d’armi persero la vita 8 ufficiali e 57
soldati. I feriti furono 161 di cui 8 ufficiali, tra cui il capitano Comingo Putti, e i sottotenenti Francesco
Cabrini e Michele Berti. 158 caddero prigionieri, tra cui il tenente Antonio Filippi, svenuto per una
rovinosa caduta dal cavallo ucciso19.
Il 4 luglio si raccolse quel che rimaneva del reggimento nei pressi di Hohenmauth. Era ridotto a
soli 1.600 uomini.
Il 6 settembre a St. Pölten, in Carinzia, i fanti ricevettero l’ultimo saluto del loro comandante e le
ultime decorazioni. In base alla pace di Praga, infatti, le truppe italiane dell’armata imperiale sarebbero
state rimpatriate dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia.
Medaglia d’argento di 1° classe:
sergente Vincenzo Ziglio
sergente Francesco Morbioli
sergente Carlo Simonati
sergente Giovanni Gittini
attendente Francesco Albertini
soldato Pietro Dalbor
soldato Fabiano Zanella
soldato Vincenzo La Corte
soldato Giovanni Zambon
Medaglia d’argento di 2° classe:
tenente Cesare Milani
sergente Angelo Berazutti
sergente Giovanni Vignola
sergente Santo Novario
sergente Angelo Zannini
sergente Giovanni Comparotto
sergente Cirilo Germani
sergente Vincenzo Santoni
caporalmaggiore Francesco Tassi
caporalmaggiore Paolo Nardi
soldato Luigi Botesel
soldato Giovanni Sartori

                                                                          7. Conclusione

Le medesime vicende si potrebbero narrare anche degli altri reggimenti imperiali reclutati nelle
terre lombardo-venete, come il 13° Reggimento di fanteria (province di Padova e Rovigo); il n° 16
(Treviso e Belluno); il 23° (Lodi e Cremona); 26° (Udine, Belluno), 38° (Mantova e Brescia), 43° (Como,
Bergamo e Sondrio) e il 44° (Milano).
Per la maggior parte si dimostrarono coraggiosi e ottimi soldati, ma le loro vicende e il loro
sacrificio appaiono forse inutili. Se furono sconfitti e militarono dalla parte che alla fine soccombette,
tuttavia, tanto sangue versato ha certamente lasciato un segno profondo, quasi ancestrale, nello spirito
delle popolazioni italiane, che tutte hanno percepito e continuano a percepire il cosiddetto movimento
risorgimentale come un sopruso e una mistificazione. Questa è la loro vera vittoria.
È il Risorgimento, infatti, ad uscire sconfitto dai caduti italiani in divisa imperiale.
A distanza di 150 anni, la mala Unità e lo stato nato dal Risorgimento non sono affatto amati,
ma, al contrario, vengono percepiti istintivamente dai discendenti ed eredi di quegli umili fanti come
un’insopportabile sovrastruttura politica, che incute – al massimo – timore, col peso asfissiante del suo
apparato burocratico e delle sue cento polizie.
In fondo al cuore, infatti, veronesi, milanesi e friulani sentono ancora che il loro vero sovrano,
come i loro antenati, era e rimane il vecchio Imperatore e Re Apostolico Cecco Beppe.

di Nicola Cavedini