lunedì 27 febbraio 2012

MEMORIE PER LA STORIA DEL GIACOBINISMO SCRITTE DALL' ABATE BARRUEL TRADUZIONE DAL FRANCESE. TOMO I. 1802 (Parte 9°).CAPITOLO VII.QUARTO MEZZO DEI CONGIURATI.LA COLONIA DI VOLTAIRE.

Proprio nel periodo di tempo in cui i congiurati erano occupati ad ottenere l'abolizione dei Gesuiti e delle altre congregazioni, Voltaire meditava un progetto che doveva procurare all'empietà altri apostoli e propagandisti; pare che abbia avuto le prime idee di questo nuovo mezzo per ottenere l'estirpazione
del cristianesimo negli anni 1760 e 1761. “Sarebbe possibile, scriveva allora a d'Alembert, che cinque o sei uomini di merito che se la intendessero non ce la potessero fare, dopo l'esempio che abbiamo
avuto di dodici facchini che c'è l'hanno fatta?” (Lett.70 anno 1760.)
Lo scopo di questa riunione è spiegato e sviluppato in un'altra lettera, nella quale egli scrive: “Che i veri filosofi facciano una confraternita come quella dei frammassoni, che si uniscano, si sostengano e siano fedeli a questa confraternita, ed allora mi farò bruciare per loro.
Questa accademia segreta varrà più di quella di Atene e di tutte quelle di Parigi. Ma ciascun pensa solo a sé e si scorda che il primo dei doveri è quello di distruggere l'infame.” (Lett. 85 a d'Alemb. anno 1761.)
I congiurati non avevano dimenticato questo dovere fondamentale, ma incontravano degli ostacoli; in Francia la religione aveva ancora dei difensori zelanti e Parigi non sembrava ancora un asilo sicuro per
questo tipo di società, e così pareva che Voltaire fosse per qualche tempo obbligato a rinunziarvi. Ma egli riprese il suo progetto alcuni anni dopo, e per metterlo in esecuzione si rivolse a Federico II
proponendogli, l'editore della loro corrispondenza dice proprio così, “di stabilire a Clèves una piccola colonia di filosofi francesi che là potessero dire la verità liberamente senza temere né ministri, né preti, né parlamenti.” Federico gli rispose con tutto lo zelo che il nuovo fondatore avrebbe potuto attendersi da parte del sofista coronato: “Vedo, gli dice, che vi sta a cuore la fondazione della piccola colonia di cui mi avete parlato.... Credo che il mezzo più semplice sarebbe che queste persone (cioè i vostri associati) andassero a Clèves per rendersi conto di ciò che sarebbe loro opportuno e di ciò che io sono in grado disporre in loro favore.” (Lett. 24 ott. 1765.)


Kleve (fr. Clèves) intorno al 1746; questa città del Nord-Reno-Westfalia faceva allora parte del regno di Prussia.


E' spiacevole che molte delle lettere di Voltaire su questo argomento siano state soppresse dalla sua corrispondenza; ma le risposte di Federico bastano a mostrarci Voltaire che persevera nel suo progetto, che torna alla carica ed insiste con indubitabile ardore; infatti il re gli risponde: “Voi mi parlate di una colonia di filosofi che si propongono di stabilirsi a Clèves. Io non mi oppongo, posso accordar loro tutto ciò che domandano vicino al bosco che il soggiorno dei loro compatrioti ha quasi interamente distrutto. Ma a condizione che rispettino coloro che devono essere rispettati e che stampando mantengano la decenza nei loro scritti.” (Lett.146. anno 1766.)
Quando tratteremo della cospirazione antimonarchica vedremo ciò che Federico intende con l'espressione “coloro che devono essere rispettati.” La decenza da osservare doveva essere invece un mezzo ulteriore per ottenere la nuova colonia senza sconvolgere gli animi con degli scandali che potevano nuocere agli stessi congiurati e che avrebbero costretto l'autorità a reprimere la loro baldanza o la loro impudenza.
Mentre chiedeva a Federico gli aiuti e la protezione che necessitavano ai nuovi apostoli dell'empietà per far guerra alla religione in tutta sicurezza, Voltaire era occupato a reclutare uomini degni di un tale apostolato, e per mettersi alla loro testa era disposto a sacrificare tutte le delizie di Ferney. “Il vostro amico persiste sempre nella sua idea, scriveva a Damilaville, è vero, come avete detto, che bisognerà staccarlo da molte cose che costituiscono la sua consolazione e che sono motivo di rincrescimento; ma è meglio abbandonarle per la filosofia piuttosto che per la morte. Ciò che lo sorprende è che molte persone non abbiano già preso insieme questa decisione. Perché un certo barone filosofo non vorrebbe venire a lavorare per fondare questa colonia? Perché tanti altri non vorrebbero cogliere al volo un'occasione così bella?” Da questa stessa lettera ci si accorge che Federico non era il solo principe che favoriva il progetto, perché Voltaire aggiunge: “Il vostro amico ha appena ricevuto in casa sua due principi sovrani che la pensano proprio come voi. Uno di essi offrirebbe una città, se quella che riguarda la grande opera non fosse adatta.” (Lett. 6 agosto 1766.)
Proprio quando Voltaire scriveva questa lettera, il langravio di Assia-Cassel era appena stato a tributare il suo omaggio all'idolo di Ferney; a causa della data del viaggio e della sintonia di sentimenti
che univano i due è assai verosimile che costui fosse proprio il principe che si era incaricato di concedere una città alla colonia anticristiana se Clèves non fosse stata adatta. (V. lett. del landgravio 9
sett. 1766. )
Tuttavia gli apostoli del nuovo messia, nonostante il loro zelo per la grande opera, non si mostravano altrettanto disposti ai medesimi sacrifici; d'Alembert, che a Parigi aveva il primo posto tra i filosofi,
sentiva che vicino a Voltaire sarebbe stato solo una divinità subalterna. Damilaville, loro comune amico descritto dallo stesso Voltaire come un nemico di Dio, era necessario a Parigi per mantenere
segreta la corrispondenza. Diderot, il cosiddetto barone filosofo e gli altri adepti godevano in Francia di agi che le città germaniche non potevano offrire; una simile pigrizia sconcertava Voltaire che, per
tentare di riaccendere l'ardore dei congiurati e per pizzicarli nell'onore, scrisse: “Sei o settecentomila ugonotti hanno abbandonato la loro patria per le scempiaggini di Giovanni Calvino, e non si troveranno dodici saggi che facciano un minimo di sacrificio alla ragione universale che è oltraggiata?” (Lett. a Damil. 18 agosto dello stesso anno.)
Per convincerli che mancava solo il loro assenso per compiere la grande opera, scrisse anche: “Tutto ciò che vi posso dire oggi da fonte sicura è che tutto è pronto per impiantare la manifattura. Più d'un
principe se ne disputerebbe l'onore, e dalle rive del Reno sino all'Oby Tomplat (cioè il Platone Diderot) troverebbe sicurezza, incoraggiamento ed onore.”
Temendo che questa speranza non bastasse a fare in modo che i congiurati si decidessero, Voltaire rammentò loro lo scopo principale della congiura, e per insinuare nei loro cuori l'odio che lo infiammava contro Gesù Cristo, aggiunse, gridò e ripeté loro: distruggete dunque l'infame, distruggete l'infame, distruggete l'infame. (Lett. allo stesso 25 agosto dello stesso anno.)
Sollecitazioni ed istanze, per quanto così vive e pressanti, di fronte
alle attrattive di Parigi non ebbero alcun effetto. Quella stessa ragione, che diceva a Voltaire di sacrificare persino le delizie di Ferney per andare nel profondo della Germania a dedicare i propri scritti ed i propri giorni a distruggere il cristianesimo, suggeriva agli adepti che bisognava saper unire allo zelo tutti i piaceri che il mondo e soprattutto Parigi offriva loro; e così fu necessario rinunziare alla speranza di far espatriare gli apostoli. Per comprendere quanto Voltaire fosse deluso da questo fallimento bisogna leggere ciò che ne scrisse tre o quattro anni dopo: “Confesso, scriveva a Federico, che ero così arrabbiato e pieno di vergogna per lo scarso successo della trasmigrazione di Clèves, che da quel momento non ho più osato presentare alcuna delle mie idee a vostra maestà. A pensare che un
pazzo ed imbecille come Sant'Ignazio ha trovato una dozzina di proseliti che l'hanno seguito, mentre io non ho potuto trovare tre filosofi, sono stato tentato di credere che la ragione non è buona a
nulla. (Novembre 1769.) Non potrò mai consolarmi di non aver potuto eseguire questo progetto. Era là il luogo dove volevo terminare la mia vecchiaia.” (12 ott. 1770.)


Brano della lettera di Voltaire datata novembre 1769 al re di Prussia. (Oeuvres
completes de Voltaire, tomo 65, Kehl 1784). La frase sottolineata, citata dall'abbé Barruel, non ha bisogno di commento.


Vedremo nel seguito di queste Memorie che al momento in cui Voltaire si lamentava così amaramente
della freddezza dei congiurati, costoro non meritavano affatto questi rimproveri.
D'Alembert soprattutto aveva ben altri progetti da perseguire; invece di far espatriare i suoi adepti e di rischiare di perdere la propria dittatura egli, pur rimanendo a Parigi, si compiaceva di distribuir loro gli onori accademici che si era accaparrato e di cui disponeva; a suo tempo vedremo che d'Alembert, insieme con gli eletti dei suoi adepti, avrebbe supplito abbondantemente al fallito progetto della colonia di Clèves, e che anche il solo modo con cui aveva trasformato l'accademia di Francia in una vera e propria colonia di congiurati sarebbe stato sufficiente a consolare Voltaire.