venerdì 30 marzo 2012

Lettera di Napoleone III a Francesco II, consegnata l'11 dicembre 1860 dall’ammiraglio francese Le Barbier de Tinan e la risposta di Francesco II del 13 dicembre Lettera del «raggio di gloria»



Mio Signor Fratello,

Non ho scritto da qualche tempo a V.M. perché volevo attendere che gli avvenimenti avessero assunto un carattere abbastanza deciso, a fine di potere con cognizione di causa esporre tutt'intero il mio pensiero alla M.V.

Allorché l'ingiusta aggressione del Piemonte venne ad aiutare la rivoluzione negli stati di V.M. ed a forzarla di ritirarsi a Gaeta, io risolsi d'impedire il blocco per mare, al fine di dare a V.M. una prova della mia simpatia, ed evitare all'Europa l'affliggente spettacolo d'una lotta ad oltranza fra due sovrani alleati, nella quale il diritto e la giustizia erano dalla parte di quello che doveva soccombere.

Ma nel lasciare a V.M., mercé la mia flotta, libero il mare, non poteva essere né del mio interesse né della mia politica d'intervenire attivamente nella lotta; perciò l'Ammiraglio de Tinan ha dovuto assumere la più stretta neutralità tra i due avversari. Ma gli incidenti della guerra complicano ogni giorno la posizione della mia flotta a Gaeta: ora essa è sul punto di trattare duramente i Piemontesi, i cui attacchi minacciano la sua sicurezza; ora per mantenere la sua neutralità è obbligata ad impedire ai bastimenti di V.M. di esercitare giuste rappresaglie contro le navi Piemontesi.

Questa posizione non potrebbe durare indefinitamente, tanto più che io credo sia negli interessi di V.M. di ritirarsi con gli onori della guerra, prima di esservi costretto da un'inevitabile catastrofe. La M.V. ha mostrato una lodevole fermezza: finché v'era una probabilità di risalire sul trono, il dovere di V.M. era di sostenere il suo diritto con le armi; ma oggi, lo dico con dispiacere, il sangue si sparge colà inutilmente, ed il dovere di V.M. come uomo e come Sovrano è di arrestarne l'effusione.

Io ignoro ciò che l'avvenire riserba a V.M., ma sono persuaso che l'Italia e l'Europa le terranno conto e dell'energia che ha mostrato e della decisione che avrebbe preso d'evitare ormai inutili sciagure al suo popolo.

Prego la M.V. di credere che il mio linguaggio è dettato dal più completo disinteresse da una parte, e dall'altra dal dispiacere che proverei, se gli avvenimenti, col prolungarsi divenendo più gravi, mi sforzassero a non poter più mantenere la mia flotta in una posizione, nella quale la stretta neutralità ne diverrebbe impossibile.

La risposta di Francesco II a Napoleone III
(lettera del «raggio di gloria»)


Mio Signor Fratello.
La lettera che V.M. m'ha fatto l'onore di inviarmi, e che l'ammiraglio Tinan è venuto a trasmettermi, mi getta, debbo confessarlo, in un crudele imbarazzo. La mia intenzione ben decisa era di resistere sino all'ultimo estremo, a salvare a prezzo dei più gravi sacrifizi il mio onor militare, poiché gli avvenimenti mi impediscono di salvare da un'ingiusta oppressione i miei Stati.
Ma gli affettuosi consigli, che mi da V.M., le ragioni che con l'ordinaria Sua lucidezza Ella espone, ed il pensiero del ritiro della Sua squadra, colpiscono e fan vacillare l'animo mio.
In cosiffatta posizione V.M. non sarà né sorpresa né contrariata se io prenda un po' di tempo innanzi di adottare una risoluzione definitiva.
Sebbene io conoscessi che la squadra Francese non sarebbe rimasta indefinitamente in questo golfo, pure le mie ufficiali notizie, e le assicurazioni particolari che mi pervenivano, facevanmi sperare che il suo soggiorno qui sarebbe stato prolungato, o che almeno la bandiera Francese sarebbe stata presente a Gaeta sopra uno dei legni della Marina Imperiale. Apprezzando i motivi di V.M., e riconoscente della Sua efficace simpatia io non posso se non deplorare il richiamo della Sua flotta, il quale lasciando il mare libero ai miei nemici aggrava considerevolmente la mia posizione. Mi è d'uopo studiar più da presso le mie risorse per sapere, se mi sia possibile di far senza questo appoggio una lunga resistenza; e questo è ciò che io fo col desiderio sincero di evitare i due scogli, contro cui potrebbe infrangersi il mio avvenire ed oscurarsi il mio nome: la debolezza e la temerità.
Sire, V.M. lo sa, i Re che partono ritornano difficilmente sul trono, se un raggio di gloria non abbia indorato la loro sventura e la loro caduta. Io veggio che dopo l'ebbrezza d'un trionfo, dovuto piuttosto alla pusillanimità e al tradimento dei miei Generali, che non alla lor propria possanza, gl'invasori del mio Regno trovano ora difficoltà immense ad asservire i miei sudditi in nome d'idee, che ripugnano tanto ai loro interessi quanto alle loro tradizioni.
Le difficoltà che si addensano in Europa, ed eziandio l'alta intelligenza di V.M. e l'autorità di che gode, mi fanno sperare che non sia lontano il giorno, nel quale i principii di diritto, di dovere e di giustizia non saranno più calpestati dal Piemonte.
Se queste speranze sono sogni, v'ha almeno un punto che non ammette discussioni, ed è che combattendo pel mio diritto, soccombendo con coraggio, e cadendo con onore io sarò degno del nome che porto, e lascerò un esempio ai Principi futuri. E s'egli è vero che non v'abbia più speranza per la mia resistenza, mi resta ancora da provare al mondo che io son forse superiore alla mia fortuna.
Qui io sono Sovrano in principio, ma Generale in fatto: non ho più Stati, e non posseggo se non una Piazza e soldati fedeli. Degg'io abbandonare per la probabilità di pericoli personali e per tema dell'effusione del sangue, la quale io ho voluto evitare a qualunque costo, un Esercito che vuol conservare l'onore della sua bandiera, una Piazza in cui i miei antenati hanno spesi tanti sforzi per farne l'ultimo baluardo della Monarchia?
V.M. die è eccellente giudice in questa maniera di cose può decidere meglio di chicchessia, se partendo senza esser certo della inefficacia delle mie risorse, io avessi adempito fino all'estremo i miei doveri di soldato. Io posso morire, o divenir prigioniero: ciò è vero; ma i principi debbono saper morire a proposito, e Francesco I fu prigioniero. Egli non difendeva come me il suo Regno, ed i suoi contemporanei e la storia gli han tenuto conto di aver esposta la sua persona e di aver saputo soffrire la sua cattività. Non m'ispirano tale linguaggio accessi di passeggiera esaltazione, ma esso è il risultamento di lunghe riflessioni; e V.M., che è uomo di volontà, d'intelligenza e di coraggio, comprenderà meglio che qualsivoglia altr'uomo i sentimenti che mi animano.
Mi è mestieri dunque lottare contro questa corrente d'idee e di sentimenti per cangiar la mia risoluzione. Mi permetta la M.V. di prendere il tempo necessario a riflettere; e se nel frattempo, contro i miei desideri, i miei interessi, ed oso aggiungere contro le mie preghiere, gli interessi e la politica di V.M. La forzassero a richiamare la Sua squadra, io ne sarei dolentissimo, senza un dubbio; ma renderei giustizia ai Suoi motivi, e soprattutto conserverei profondamente impressi nel mio cuore e la prova di simpatia che la M.V. mi ha data, ed il servigio che m'ha renduto con assicurarmi durante sì lungo tempo la libertà del mare. V.M. ha operato nobilmente verso di me, quando niuna Potenza d'Europa non osava o non poteva venire a soccorrermi; e se per l'abbandono della Sua flotta io debba soccombere, pregherò solamente Iddio che la M.V. non abbia motivo di rimpiangerlo, e che invece d'un alleato riconoscente e fedele non trovi una rivoluzione ostile ed un Sovrano ingrato.
Quale che sia per essere la mia risoluzione in così gravi eventualità, sarà mio dovere farla conoscere senza ritardo a V.M.; come ora è mio dovere di giovarmi di questa occasione per manifestarLe nuovamente tutta la mia gratitudine pel Suo appoggio, pei Suoi consigli, e soprattutto per l'interesse che ha voluto prendere a mio pro.

Le verità sulle vicende "Risorgimentali" nel Regno delle Due Sicilie(1860-1861):(Parte 24°): L'esercito è riorganizzato a Capua proclama di Francesco II reazioni nel Regno e nell'esercito


Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.


Gli animali feroci quando insieguono la preda, tutti insieme s'intendono e si aiutano per afferrarla: però, non appena l'hanno ghermita, si dilaniano rabbiosamente tra loro o per averla tutta intiera come il leone della favola, o per averne la maggiore o la miglior parte. Così fecero i rivoluzionarii della predata Napoli dopo la partenza di Re Francesco. Si unirono in casa del presidente Spinelli, e chi volea darsi a Cavour, e chi a Garibaldi; e sempre col fine di avere o intiera o la maggior parte della preda. D. Liborio Romano volea che si proclamasse il governo piemontese, in questo modo i suoi personali interessi sarebbero stati meglio garentiti: il comitato dell'ordine
facea eco a D. Liborio. Però, il comitato di azione
volea Garibaldi Dittatore. Lo Spinelli che volea dare un colpo più da maestro contro la dinastia, disse che il ministero di Francesco II non dovea fare adesione né a Cavour, né a Garibaldi. Il Municipio napoletano, che non era opera di D. Liborio, unanimemente deliberò di non aderire alla rivoluzione, se non che, da 24 eletti, i soli quattro aggiunti aveano deliberato a favore di Garibaldi, e furono cacciati via da' colleghi. Il principe d'Alessandria, Sindaco di Napoli, fu chiamato in casa del presidente Spinelli, e consigliato a proclamare un governo provvisorio, quel Sindaco si negò risolutamente.
Mentre si discuteva tra ministri e sindaco, si presenta il Villamarina accompagnato dal marchese d'Afflitto, lasciando fuori molti suoi cagnotti per essergli utili se occorresse. Questo settario in veste diplomatica volea obbligare il Sindaco a proclamare il governo piemontese, descrivendo i mali che sarebbero piovuti sulla Città e sul Regno, se si fossero negati. Egli avea sulle fregate sarde de' bersaglieri, e dicea che avrebbe potuto chiamarli a terra, e con essi tenere a segno i faziosi,
e provvedere al buon ordine. Ministri e Sindaco si negarono. L'illustre e benemerito principe d'Alessandria disse a Villamarina: Napoli ha il suo Re, non volerne altro: e se ne uscì da quel conciliabolo.
Rientrato in casa sua, questa fu circondata da' cagnotti di Villamarina, ed egli fu chiamato fuori. Appena uscì sulla strada gli si presentò il Pisanelli, e gli disse, egli essere il Presidente del Comitato dell'ordine, e
pregarlo a nome dell'umanità
di creare un governo provvisorio, riconoscendo lo Statuto piemontese. Il principe d'Alessandria si negò dignitosamente anche questa volta, e disbrigossi eziandio di Pisanelli. A costui, tanto tenero dell'umanità, come Bixio in Bronte, gli tardava di
regalare a' suoi concittadini le leggi eccezionali di sicurezza pubblica, e darle il suo nome. Villamarina ed i suoi aderenti erano allarmati, perché Bertani Segretario intimo di Garibaldi consigliava questi a non proclamare il Governo piemontese, ma invece dichiararsi Dittatore delle due Sicilie, proseguire la marcia sopra Roma, e poi pensare alla forma del Governo che dar si dovesse all'Italia. Il Bertani era conosciuto per caldo repubblicano, e il suo consiglio, oltre di guastare i piani di Cavour e consorti, compromettea l'Italia rivoluzionaria, dapoichè in Roma stavano i francesi, a capo de' quali non vi erano né Landi, né Lanza, né Clary, né Gallotti, né Briganti, né Ghio, e que' capi non aveano un ministro di guerra simile a Pianelli; quindi benissimo dice il Persano nel suo diario: «L'avanzare contro Roma ci porterebbe indietro di dieci anni almeno nella nostra unificazione ed indipendenza nazionale, se anco non sarebbe la rovina d'Italia.
Villamarina partì subito per Salerno sul piroscafo Sardo l'Authion
per abboccarsi con Garibaldi e Bertani, e persuaderli di arrestare la loro marcia e proclamare il governo piemontese.
Garibaldi, che sapea non essere Roma osso per i suoi denti, promise a Villamarina che non marcerebbe contro quella metropoli, ma che si sarebbe proclamato Dittatore indipendente delle due Sicilie, ed indi penserebbe ad annettere questo Regno al Piemonte.
Il telegrafo tra Napoli e Torino travagliava a maraviglia, Persano e Villamarina rapportavano tutto a Cavour, e da costui ricevevano l'imbeccata.
D. Liborio, che volea subito proclamare in Napoli il governo piemontese, subodorata la conferenza tra Villamarina e Garibaldi, scrive subito a questo, e gli dice: «Napoli aspetta con ansietà l'invincibile dittatore delle Due Sicilie, e a lui confida i suoi destini.»
D. Liborio oltre di essere un valente cortigiano con le sue stomachevoli adulazioni, da vero avvocato strascinafaccende,
sapea pur far bene due parti in commedia! Intanto in Napoli Villamarina, Persano e il Comitato dell'ordine
intrigavano sempre a proclamare il governo piemontese, supponendosi tutti l'espressione della volontà popolare; ma si opponeva l'altro Comitato di azione
che avea le stesse pretensioni ed optava per la dittatura assoluta di Garibaldi. Nondimeno il Persano proclamò un governo provvisorio schiccherando il seguente manifesto o decreto, come lo chiama il Persano. Italia e Vittorio Emanuele.
«In nome del generale dittatore, e fino al momento del di lui arrivo nella capitale, i sottoscritti, a tale uopo invitati
(da chi?) si costituiscono governo provvisorio di Napoli, sia per tutelare l'ordine pubblico, sia per rendere più manifesta la volontà del paese.
Napoli 7 Settembre 1860, ore 11 a.m.Firmati
G. Ricciardi - Giuseppe Libertini - Filippo Agresti - Camillo Caracciolo -Andrea Colonna - Raffaele Conforti - Giuseppe Pisanelli.
Sebbene quel manifesto del Comitato dell' Ordine
metteva innanzi il nome del Generale Dittatore, e i firmatarii dichiaravano un governo provvisorio sino all'arrivo di Garibaldi, costui subodorò la manovra Cavourriana, cioè che gli si volea far
trovare il posto occupato, ed immediatamente ordinò l'arresto di que' sei del governo provvisorio. Ma il Dittatore, considerando poi che egli non avrebbe potuto lottare col Piemonte, senza del quale non sarebbe stato più Xinvincibile Dittatore:
i Cavourriani considerando pure che non aveano forza, e che il Re legittimo si trovava di poche tappe lontano, tutti si rabbonirono ed accomodarono in modo le divergenze da dividersi pacificamente la conquistata preda. Fu dunque convenuto che i garibaldini doveano dare il primo assalto alla pingue preda, e poi il Piemonte e i piemontizzati si poteano spolpare le ossa, e rodersele pure all'occorrenza. Però l'operare di Garibaldi in questa circostanza non fu secondo i principii che volea rappresentare: egli si mostrava umanitario e liberale finchè lo secondassero; appena si stabiliva un governo provvisorio ov'egli ancora non era giunto, e perché questo governo non facea totalmente i suoi interessi, subito scaraventava un arresto alla Musulmana!
Il Comitato dell'ordine
assicurava che solamente esso rappresentava la volontà del popolo; l'altro Comitato d'azione,
con altri principii, affermava la stessa cosa: chi de' due comitati avea ragione? né l'uno, né l'altro! Le pretensioni e le gare di que' due Comitati erano proprio come le questioni teologiche tra Luterani e Calvinisti, i quali si scomunicavano a vicenda senza averne l'autorità. Son tutti figli dello stesso padre, né dobbiamo meravigliarcene.
Ora cominciano i proclami e le dicerie che si stamparono e si affissero sulle mura, prima e dopo l'arrivo di Garibaldi a Napoli. Que' proclami e dicerie dànno chiara certezza degli uomini e delle circostanze di quei tempi, quindi non voglio defraudare i miei benevoli lettori di quelle cicalate per esilararli un poco.
La prima proclamazione è del sempre distinto Caposquadra D. Liborio, già ministro dell'interno di Francesco II, e quando la scrisse funzionava ancora a nome del Re. Si dovrà notare nella seguente proclamazione lo stile basso e cortigianesco del liberalissimo D. Liborio Romano; ecco la proclamazione in forma di lettera.
«All'invittissimo general Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie Liborio Romano ministro dell'interno.
Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo, per salutare il Redentore d'Italia, e deporre nelle sua mani i poteri dello Stato e suoi destini. In questa aspettativa starò saldo a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica; la sua voce già da me resa nota al popolo, è il più gran pegno di successo di tali assunti. Mi attendo ulteriori ordini, e sono con illimitato rispetto. Di Lei Dittatore invittissimo, Liborio Romano; 7 Settembre 1860. »
L'instancabile Don Liborio scarabocchiò un'altra proclamazione al popolo; eccola:
«Cittadini, chi vi ricorda l'ordine e la tranquillità in questi solenni momenti, è il Generale Giuseppe Garibaldi. Osereste non esser docili a quella voce, cui da gran tempo s'inchinano tutte le genti italiane? No, certamente. Egli arriverà tra poche ore in mezzo a voi, e il plauso che ne avrà chiunque avrà concorso al sublime intento, sarà la gloria più bella cui cittadino italiano possa spirare. Io quindi, miei buoni
cittadini, aspetto da voi quel che il Dittatore Garibaldi vi raccomanda ed aspetta. Il Ministro dell'interno e polizia Liborio Romano.»
Garibaldi, prima di partire da Salerno per Napoli, mandò la seguente proclamazione al popolo napoletano:
«Alla cara popolazione di Napoli. Figlio del popolo, è con pari rispetto ed affetto ch'io mi presento dinanzi a questo nobile ed importante centro di popolazione italiana, cui secoli di dispotismo non hanno potuto umiliare, e ridurre a piegare il ginocchio avanti la tirannia. Il primo bisogno d'Italia era la concordia per realizzare l'unità della grande famiglia italiana: oggi la Provvidenza ci dà questa concordia, giacchè le province sono unanimi e lavorano con magnifico slancio alla ricostituzione nazionale. Quanto all'unità la Provvidenza ci ha dato Vittorio Emmanuele, che in questo momento
noi possiamo chiamare vero padre della patria italiana. Vittorio Emmanuele, modello de' sovrani, inculcherà ai suoi discendenti i doveri che dovranno adempiere per la felicità di un popolo che lo ha scelto per Capo con ossequio entusiastico. I Preti italiani (ci siamo!) che han la coscienza della loro missione, han per garenzia del rispetto col quale saranno trattati, lo slancio, il patriottismo, l'attitudine veramente cristiana de' loro confratelli; i quali dai degni monaci della Gancia sino a' generosi preti del continente napoletano, noi abbiamo veduti alla testa de' nostri soldati, sfidare i più grandi pericoli delle battaglie.
(Proprio come quel R.mo prete che in Sovaria-Mannelli si rubò la cassa militare dell'11° Cacciatori, con dentro 1500 ducati, e poi facea l'usuraio!)
Lo ripeto la concordia è il più gran bisogno d'Italia.
Noi dunque accoglieremo come fratelli coloro che non pensavano come noi in altri tempi, e che vorranno oggi sinceramente portare la loro pietra all'edifizio patriottico. Infine noi rispettiamo la casa altrui, ma vogliamo esser padroni in casa nostra, piaccia o non piaccia a' dominatori della terra.Giuseppe Garibaldi.»
Il Dittatore partì da Salerno la mattina del 7 settembre e giunse alla stazione della ferrovia di Napoli sul mezzogiorno. Era egli accompagnato da soli dieci garibaldini, il de Sauget ed altri pochi giovani napoletani andati a riceverlo a Salerno, tra gli altri il principe di Fondi, ed era costui il solo appartenente all'aristocrazia napoletana. Giacchè Garibaldi osò avventurarsi ad entrare in Napoli senza le sue squadre garibaldesche, ci fa pensare che facea a fidanza col comandante della truppa regia.
D. Liborio sempre il primo a far mostra di sè trattandosi di trovarsi in contraddizione col mandato che aveagli dato Francesco II, aspettava alla stazione della ferrovia il Dittatore, insieme ai direttori Giacchi, de Cesare e Badari Prefetto di polizia. Alla stazione era eziandio un battaglione di Guardia nazionale, gran numero di camorristi, ed altro popolaccio attirato da' poliziotti e della curiosità.
Appena Garibaldi entrò nella stazione, D. Liborio gli si presentò facendo una smorfia,
e quattro salamelecchi;
cavò una scritta compilata e firmata da lui, e da' due direttori, la lesse a Garibaldi in nome del ministero di Francesco II, che più non potea e non dovea rappresentare, non avendo certamente avuto questo mandato:
«Generale. Vi è innanzi il ministero di Francesco II: ma noi ne accettammo la potestà, per far di noi un sacrifizio al nostro paese, (con pigliarci i bei soldi dovuti ai ministri, che n'aveano tanto di bisogno!) L'accettammo in difficile momento, quando il pensiero dell'unità italiana con Vittorio Emmanuele, che da gran tempo agitava gli spiriti napoletani, sostenuto dalla vostra spada, era già onnipotente; quando era cessata ogni fiducia tra sudditi e sovrano; quando antichi rancori, e diffidenze riprodotte dalla ridate liberà costituzionali, faceano che il reame stesse angosciato per tema di nuove violenti dimostrazioni. Accettammo il potere nel fine di mantenere l'ordine pubblico (a modo nostro) e salvare lo stato della guerra civile, (e renderci fedifraghi). Il paese comprese questo nostro intento, (e chi nol comprese!) e ne apprezzò gli sforzi (di fellonia). A noi non mancò la confidenza de' nostri concittadini; (cioè de' camorristi) e noi dobbiamo al loro concorso l'aver preservata questa città dagli atti di violenza e distruzione, fra tanti odii di partiti, (da noi suscitati). Generale, tutti i popoli del Regno, sia per sollevazioni aperte, sia per istampe, ed altri modi, han manifestato chiaramente la volontà di far parte della gran patria italiana, sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele, voi siete il simbolo più alto (simbolo alto!) di questa volontà e di questo pensiero; però in voi si girano tutti gli sguardi (de' nuovi pagnottisti) in voi tutte le speranze sono poste. E noi depositarii della potestà, noi pure cittadini italiani, trasmettiamo il potere (che più non abbiamo) nelle vostre mani, certo che il terrete con vigore, e che saprete menare la patria (alla miseria) verso il nobile scopo ch'è scritto nelle vostre vittoriose bandiere, impresso ne' cuori di tutti: Italia e Vittorio Emmanuele.»
Dopo che D. Liborio finì di leggere la sua tiritera, Garibaldi lo ricompensò con una stretta di mano, chiamandolo (traditore) salvatore di Napoli, e confermandolo ministro dell'interno!
Quando Garibaldi usciva dalla Stazione, alcuni artiglieri del forte del Carmine gli voleano tirare addosso, ma gli uffiziali li trattennero secondo gli ordini ricevuto dal generale Cataldo comandante la Piazza di Napoli. A questo proposito voglio qui trascrivere quello che dice il Capitano di Stato Maggiore
Tommaso Cava nella
Difesa nazionale napoletana,
pag. 63. Napoli 1863;
«Il giorno che giunse in Napoli il Generale Garibaldi, io mi ritrovava tuttavia per disbrigare alcuni urgenti affari di famiglia, e fui spettatore di tutto quello che avvenne. Raggiunsi le bandiere il giorno seguente, e fui l'indomani dal Re in Gaeta, il quale consapevole della mia residenza in Napoli il giorno 7 Settembre, volle sapere i particolari di quello che era avvenuto; e mentre io gliene faceva la narrazione, un zelante uffiziale si permise di osservare con rammarico, che nessun soldato tirò al Generale Garibaldi di dentro il Forte del Carmine, per esservici passato d'innanzi tanto lentamente per come io riferiva. Avreste dovuto star lì signori detrattori, per sentire con quanto dignità il Re rimproverò l'espressione di quei sentimenti a quel fanatico ciarlone, dicendogli che si meravigliava come fra gli uffiziali del suo Esercito, vi era ancora chi nutriva bassi sentimenti di traditore; che Garibaldi si combattea in campo aperto, e non si assassinava, poichè esso seguiva l'impulso di un principio politico:
quindi trattomi più in disparte si fece raccontare il resto, e quando mi congedò perché avessi raggiunto il mio posto, mi lasciò dicendomi: ora che abbiamo adempito al dovere di padre dei popoli, risparmiando la Capitale dal flagello di una guerra civile, adempiremo a quello di Re e di soldato.
Non trovate, signori detrattori, qualche differenza fra i sentimenti di Francesco II verso il suo nemicoGaribaldi che venne a detronizzarlo, e quelli di un Rattazzi, di un Petitti ec. che l'hanno talvolta chiamato bandito e trattato come tale? E ciò dopo di averne ricevuto in dono due regni in uno, ossia dopo di avere ricevuto ventidue province, coll'annessione pura e semplice al Piemonte?
Il Dittatore dopo la diceria di D. Liborio, montato in carrozza assieme a Bertani e 'l De Sauget in abito di Guardia Nazionale.... si levò in piedi in camicia rossa, e con lo storico fazzoletto al collo, rispondea viva
agli evviva,
levando alto il cappello con code di cappone. Passò impunemente sotto le bocche de' cannoni regi del Carmine, e si disse che una sentinella regia gli avesse fatto il segno di onore con le armi.
Seguivano la carrozza di Garibaldi altre carrozze; si distingueva quella di Villamarina, Ministro Sardo accreditato
presso Re Francesco II, costui smentiva ufficialmente tutte le proteste del Piemonte contro Garibaldi, facendo la corte a chi il suo Padrone Cavour avea chiamato filibustiere anche ufficialmente. Indi seguiva quella del celebre Padre Gavazzi vestito mezzo prete mezzo garibaldino; avea accanto una donna con camicia rossa, tunica verde e bianca veste. il Dittatore in trionfo col suo corteo prese la via del Piliero, marciando lentamente: giunto nel Piano del Palazzo Reale, smontò di carrozza, salì nel Palazzo della Foresteria, e dal balcone disse: «Giusto è il vostro entusiasmo in questo dì che cessa la tirannia e comincia (la legge eccezionale) la libertà.» Fu poco udito, moltissimo acclamato. Si presentò Ayala con altri che si diceano deputati della Città, e fece a Garibaldi un ampolloso discorso, indi gli chiese un bacio dicendo: «Voi date questo bacio a cinquecentomila abitanti di questa Città» anche a' Preti?!?...
È indescrivibile il baccano che si fece all'entrata di Garibaldi in Napoli; qualunque penna non potrebbe darne un'idea approssimativa. Quel baccano superò l'altro di Palermo. Quelli però che applaudirono il Dittatore erano stranieri, camorristi, donne di cattivo odore in toletta di signore;
gente avida di novità, sfaccendati speranzosi di ghermire una pagnotta, e gente prezzolata. Si disse che D. Liborio erogasse in quella giornata ventiquattromila ducati dello Stato per suscitare que' saturnali indecentissimi. La nobiltà napoletana quasi tutta avea preso la via dell'esilio, il clero sparito per incanto, l'onesta borghesia serrata in casa propria, le botteghe chiuse: il campo restò libero a' camorristi, alla comprata plebaglia. Tutta questa gente girava in armi la città, a piedi e in carrozza, gridando Italia una,
con tutte l'altre appendici, costringendo i curiosi spettatori a gridare nel modo medesimo, se no busse e coltellate. Questa gente buttava fiori sopra Garibaldi redentore;
e gridò tanto Italia una
che perdette la voce, e fu costretta alzare il dito indice della mano destra per indicare quell'una
senza neppure intendere cosa si fosse. D. Liborio fu ben servito da que' gridatori, egli da uomo scaltro avea fissato il prezzo corrispondente a gridi ed ai chiassi di ciascuno.
Preti spretati e monaci apostati, irti d'armi e di crocifissi, faceano anche numero in quel baccano. Più di cento cinquanta uffiziali di artiglieria, del genio, e d'altri corpi, disertori chi per codardia, chi per non perdere l'impiego, tenendo perduta la causa del Re, faceano anche numero fra quel popolaccio scomposto e briaco.
Faceano numero in quell'orgie tanti stranieri venuti a Napoli a bella posta per far popolo ed applaudire Garibaldi. Anche antichi impiegati rimasti per amor del proprio bene in officio, sperando promozioni applaudivano. Questi ultimi si atteggiavano a liberali per quanto si erano mostrati assolutisti e provocanti: si vantavano, chi liberale del 1820, chi del 1848, raccontando persecuzioni che non avano mai sofferte da' Borboni. Anche le spie della polizia borbonica in quel giorno memorando vestivano aspetto di liberali, e si protestavano congiuratori e vittime del passato Governo.
Quel giorno, invece di essere il trionfo di Napoli, come lo chiamarono i così detti liberali, fu giorno che rivelò l'ingratitudine e la bassezza di non pochi napoletani, da far vergognare ogni anima onesta. Era rivoluzione: e non dobbiamo maravigliarci, se la feccia era venuta su. Così avviene in tempestosa marea, torna a galla ciò che in fondo giace.
Quasi in tutte le strade di Napoli succedevano que' tripudii satanici, ed i promotori erano per lo più quelli beneficati da' Borboni, o gli stessi condannati da' tribunali per fellonie perpetrate nel 1820, nel 1830 e 1848, e a cui Ferdinando II non solo avea fatto grazia, ma aveali rimessi ne' perduti impieghi. Questa gente facea di più, aizzava i camorristi e compagnia a perseguitare gl'innocui cittadini, o perché designati come borbonici, o perché non voleano far parte di quelle orgie. Quel giorno alla via della Marinella avvennero fatti indegni e selvaggi a causa di una cannonata a polvere tirata dal forte del Carmine, perché i camorristi ferirono una Sentinella;
quella cannonata fu il segnale contro la gente tranquilla. Supponeano i camorristi che si avesse voluto reagire; e quindi guai a tutti coloro che non aveano aspetto di briganti, che non erano armati, e che non gridavano Viva Garibaldi. Un nostro conoscente, il Chirurgo del 13.° Cacciatori Achille Corcione, il quale passava in quell'istante per la via della Marinella, vestito in uniforme, perché andava alla ferrovia per recarsi a Capua a raggiungere l'esercito, si trovò compromesso in mezzo a quelle baruffe, e vide scene poco degne d'un popolo festante.
Volendosi salvare da que' selvaggi briachi cercò ricovero nella Caserma della Guardia Nazionale di S. Pietro Martire: fu accolto dal Comandante di quella guardia; ma qual non fu la sua sorpresa nell'osservare che sotto la divisa di Guardie nazionali vi erano non pochi volgari assassini, che martirizzavano gli onesti cittadini, o perché non gridavano a modo loro, o perché li credevano borbonici e reazionarii! Il mal capitato Chirurgo Corcione, ebbe a gran fortuna fuggire da quella caserma, contentandosi di sfidare l'innebriata onda popolare che facea aspro governo contro tutti coloro che non le rassomigliassero.
Garibaldi discese dal palazzo, si pose in carrozza, smontò dopo poco innanzi il Caffè d'Europa, e di là si diresse con gli altri in processione verso il Duomo per la via di Toledo. Egli andò al Duomo per visitare il Patrono della Città, e da italianissimo scimmiottare il francese Championnet. Avealo preceduto il padre Pantaleo; quantunque si fosse ordinato di preparare e disporre tutto quello che occorresse per ricevere il Dittatore, nondimeno si trovò tutto chiuso e fu necessario scassinare i cancelli, e senza riguardo si sfondarono le porte della sagrestia, ove non si trovarono arredi sacri. I camorristi devenuti accoliti del Reverendo Pantaleo, bastonarono il custode del Duomo, come quello che non avea eseguito gli ordini
ricevuti. Corrono alla vicina chiesa de' Gerolomini, battono coloro che si negano dare gli arredi sacri, sfondano le porte di quell'altra sagrestia, e rapiscono quegli arredi che abbisognavano a quella specie di sacrilegio.
Giunto il Dittatore al Duomo con tutto il suo seguito, il padre Pantaleo sale in pergamo vestito ancora con l'abito di frate e con camicia rossa, cinto d'armi, e con l'ostensorio in mano, prorompe in triviali bestemmie, e tra le altre bestiali empietà dice: «Dio, prima diè la legge a Mosè, poi la mandò più perfetta pel Cristo suo figliuolo redentore, ora l'inizia perfettissima per Garibaldi redentore novello.»
E tutti applaudirono non escluso Garibaldi redentore.
Infine il padre Pantaleo intuona il Tedeum
e dà la benedizione. Intanto nel Duomo, come in Mercato, si vendeva, si comprava, si mangiava, si beveva, e si bestemmiava! Oh! la setta che odia e perseguita la santissima religione fondata dall'uomo-Dio, vuol poi costringere i ministri del Santuario a celebrare i suoi eccessi, e ringraziare Iddio delle sue consumate nefandezze contro il Cristo medesimo!
Garibaldi, uscito di Chiesa, montò in carrozza con l'amico D. Liborio, si fermò a Toledo allo Spirito Santo, e a dispetto del proprietario s'impossessò del palazzo del principe d'Angri, e con lo scopo di scimiottare ancora i francesi duci Championnet e poi Massena che alloggiarono in quel palazzo. Il Dittatore occupò il piano superiore, il piano nobile fu occupato dal suo corteo. Quindi si potrà supporre in quale stato il principe d'Angri abbia trovato l'elegante mobilio al suo ritorno che fece da Parigi.
Il Padre Pantaleo, come cappellano maggiore di Garibaldi, e lo stato maggiore di costui, s'impadronirono dell'altro palazzo del Principe S. Antimo fuggito a Parigi; ove alloggiarono da grandi aristocratici. Si vede che a que' democratici non dispiacevano i comodi e gli agi principeschi.
Garibaldi al palazzo d'Angri cominciò a ricevere visite da' felloni e traditori, e segnatamente ricevè la visita del generale Lanza bombardatore di Palermo, ed avversario in maschera al Dittatore nella guerra di quella città. Lanza fu ricevuto cordialmente; ed invero, senza millanteria avrebbe potuto dire a Garibaldi: «inchinati innanzi a me, io avrei potuto stritolarti: il tuo trionfo, e il posto che occupi sono tutti opera mia.
Quel giorno stesso il Dittatore fu visitato dall'ammiraglio Sardo Conte Persano vestito in grande uniforme per dar più importanza a quella visita, e per far persuaso
il popolo che l'ammiraglio Sardo sarebbe stato pronto a sostenere l'opera del duce rivoluzionario con tutte le sue forze.
L'incontro di Persano con Garibaldi fu cordiale; si abbracciarono da veri amici, e si comunicarono le loro idee guerresche e politiche. Però questi intendea proseguir la marcia sopra Roma e Venezia, e quello disapprovava tale risoluzione giudicandola inopportuna, e quindi pericolosa.
Il Dittatore, di moto proprio, disse a Persano che volea dargli il comando di tutte le forze navali del Regno, e senza più dettò il seguente decreto che rimise a quell'Ammiraglio:
«Il Dittatore decreta. Napoli 7 Settembre 1860.
Tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle Due Sicilie, arsenali e materiali di Marina sono aggregati alla squadra del Re d'Italia Vittorio Emmanuele, comandata dall'Ammiraglio Persano.
Firmato G. Garibaldi.»
Trovavasi ancora in Torino il Ministro di Francesco II accreditato presso quella Corte, e Persano senza alcuno scrupolo, anzi slealmente, s'impossessò della marineria regia, arsenali e materiali di marina, frutto di cinquanta anni di spese e lavori fatti dalla Casa Borbone.
Il Persano volea mandare subito in Sardegna la flotta napoletana, ma non potea mancandogli i marinari per guidarla. Il 13 Settembre uscì un manifesto col quale si prometteano venti ducati d'ingaggio, sei ducati al mese di soldo, e il vitto a bordo a quei marinari napoletani che avessero voluto servire il Piemonte. Nessuno si presentò, e Persano dovette usare la forza per averli, e per mandare in Sardegna la flotta napolitana! Quale virtuosa differenza tra l'ufficiale settario e 'l fedele soldato!
Lo stesso giorno 7 Settembre, a richiesta del Persano, il Dittatore firmò il seguente decreto:
Il Capitano di Vascello Vacca, (quello del Monarca)
e il Capitano di Vascello Barone, i Capitano di fregata Vitagliano, sono confermati nel loro grado; siccome tutti gli uffiziali di Marina che diedero le loro dimissioni (cioè che tradirono il proprio Sovrano), per servire la causa italiana. Firmato G. Garibaldi; «Gloria eterna ai Vacca, ai Baroni ed ai Vitagliano!
La sera del 7 Settembre passò tranquillamente: si vedeano molte bandiere, poca gente, meschina illuminazione festiva, e questi apparenti segno di giubilo erano opera di D. Liborio e de' Camorristi.
Il giorno seguente festa di Piedigrotta, tanto rinomata in Napoli, il Dittatore disse volervi intervenire per devozione
assieme al suo indivisibile D. Liborio. Però i maligni dissero che vi fosse andato per far le veci di Sovrano: egli tanto democratico?! In mancanza di preti autorizzati, supplirono Pantaleo e Gavazzi, i quali vestirono la Madonna co' tre colori, e presentarono a Garibaldi il mazzo di fiori benedetti come si dava a' re; e il Dittatore baciava que' fiori, e li baciucchiavano pure i Camorristi che faceano corteggio alla novella Sovranità garibaldesca. E con queste profanazioni e pagliacciate credeano corbellar il popolo! Al ritorno di questa pagliacciata Giove Fluvio ricompensò tutto il corteo garibaldesco con una pioggia niente piacevole.

(Estratto dal libro di Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta).

CASA SAVOIA: GIORGIO PREPARA IL SUO SUCCESSORE AL QUIRINALE.



IL FUTURO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA SARÀ... EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA, SUO NIPOTE... VIVA L’ITALIA!
Da una fonte assolutamente certa (la Fonte del Clitunno) siamo venuti a sapere di un piano inimmaginabile. Più che sorprendente, abbacinante. Un piano già consolidato nella massima segretezza (che oggi noi intacchiamo, ma senza rischi perché nessuno ci crederà), e che darà un assetto nuovo, originale e finalmente patriottico alle Istituzioni italiane.
Tra parentesi sveliamo che la sola persona – oltre ai diretti interessati – ad averne contezza è il senatore a vita Giulio Andreotti.
Dunque, le cose stanno così. Tutti sanno che, con il referendum istituzionale seguito alla II Guerra Mondiale, la Repubblica cacciò (con i dovuti brogli) la monarchia e il re legittimo, Umberto II di Savoia, fu costretto all’esilio.
Il figlio Vittorio Emanuele IV e il nipote Emanuele Filiberto furono così automaticamente privati d’ogni diritto di successione sul Trono d’Italia.
Fine della Casa Regnante Sabauda?...
Neanche per sogno. Poiché, da allora, il fratello (illegittimo, diciamo pure fratellastro, ma sempre Savoia, Giorgio, detto Napolitano) non solo rimase in Italia ma compì lentamente, stalinianamente e poi kruscev-breznianamente, un paziente e inarrestabile cammino nelle Istituzioni. Sì, proprio lui, l’onorevole Giorgio Napolitano, prima piccsta poi pidiessino poi ulivista, poi diessino, poi… poi… Presidente della Repubblica Italiana!
E non lo sa nessuno!? Ma figuriamoci, lo sanno tutti, tutti coloro che lo dovevano sapere l’hanno sempre saputo. E chi non lo avesse saputo, beh, non ci voleva molto a vederli, Umberto e Giorgio, in foto, più che somiglianti, sembrano fatti con lo stampo sabaudo.
Il destino, dunque, ha voluto che i Savoia siano ritornati sul Colle Quirinale dopo un lungo e doloroso periodo di assenza e che Giorgio di Savoia (detto Napolitano) sia da qualche tempo roso da un piccolo rimorso che gli fa onore. Non per niente, prima che stalinista è un Savoia!
E allora – con i buoni uffici dell’eterno Giulio Andreotti – che cosa ha escogitato? Clamoroso? No, semplice. Prima ha fatto in modo che il giovane Emanuele Filiberto potesse essere reintegrato nella sua natura storica di italiano. Poi?… Poi sono cominciati gli incontri segreti tra il Vecchio e il Giovane, persino, nei primi tempi, all’oscuro del papà Vittorio Emanuele, che, a differenza del ragazzo, agli Italiani non è mai andato a genio.
Al dunque. È stato deciso, di comune accordo e con reciproco affetto, che Emanuele Filiberto avviasse – con discrezione e gentilezza – un primo passo nella carriera politica. Questo passo è stato fatto subito dopo la caduta dell’orrido Governo dell’Innominabile.
Emanuele Filiberto, così, riconosce e accetta, finalmente e nella maniera più istituzionale possibile, la Costituzione Repubblicana. Si proclama disposto ad essere eletto dal Popolo Sovrano e a sedere – prima o poi – nel Parlamento.
Un apparato – per ora, lo ripetiamo, segretissimo – lo porterà gradualmente, ma assai rapidamente, a diventare un garante della Democrazia social-berlusc-liber-finian-rifondativa, e… con una elezione unanime a Camere Riunite, ad essere proclamato Presidente della Repubblica Italiana.
Grande destino, grande Famiglia, grande Italia, per sempre riappacificata, finalmente santificata sotto lo Stemma degli Avi che fecero l’Unità d’Italia.
E finalmente si potrà chiudere e sotterrare quell’immondo giornale chiamato Unità.
Viva Re Giorgio! Viva il Presidente Emanuele Filiberto! -----------

di GIROLAMO MELIS da "LE COMUNITÀ DELLA SCIENZA E DEL SAPERE" - Verso la fondazione della Zona Franca del Sapere.

L’inumazione del cuore del piccolo Re Luigi XVII nella Basilica di Saint-Denis, a Parigi, l’8 giugno 2004 e i falsi Luigi XVII apparsi nel secolo XIX. L’impressionante analogia con lo Zarevich Alexei.(Parte 3°):I contestatori dell’autenticità e i loro argomenti.

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Karl Wilhelm Naundorff(Presunto Luigi XVII°)


Dalla Restaurazione in poi sono molte centinaia i libri usciti su Luigi XVII, a cui si aggiungono innumerevoli articoli apparsi su diverse riviste. Già all’indomani dell’inumazione nella fossa comune del cimitero di Santa Margherita, fiorirono sul conto dell’infelice Re bambino tutta una serie di leggende: dicerie sempre più insistenti, poggianti su testimonianze e altri indizi, lo davano per sopravvissuto alla prigionia nel Tempio. Quello ivi deceduto e sottoposto ad autopsia non sarebbe stato il Delfino di Francia, bensì un fanciullo un po’ più grandicello che gli sarebbe stato
sostituito. Luigi XVII sarebbe evaso dal Tempio con l’aiuto dei realisti o addirittura degli stessi repubblicani.
Sul sito del Museo Luigi XVII6 che fa capo ai sostenitori di Naundorf (che pretendeva di essere Luigi XVII miracolosamente evaso dal Tempio), si sostiene che l’esame del DNA, scoperto nel lontano 1953, per essere scientificamente accettabile deve soddisfare tre condizioni: l’autenticità incontestabile del materiale biologico esaminato (tracciabilità) e di quello a cui è comparato; l’assoluta imparzialità
scientifica, sia di chi effettua, sia di chi dà il responso dell’esame.
Quanto all’esame del DNA, cui è stato sottoposto il cuore del fanciullo sepolto in Saint-Denis, i naundorfisti lo dicono costoso e inutile, anche se ammettono che l’acido desossiribonucleico, è stato già utilizzato molte volte con successo per effettuare identificazioni giudiziarie o per la ricerca della paternità. Il 14 febbraio 1997 due discendenti di Naundorf, Carlo Edmondo e Carlo Luigi, siglarono un accordo che prevedeva che le analisi fossero condotte parallelamente da una parte dal professor Cassiman, del Laboratorio di Genetica Umana dell’Università di Lovanio, in Belgio e dall’altra parte dal dottor Olivier Pascal, del Laboratorio di Genetica Molecolare dell’Ospedale di Nantes. Fu convenuto che i risultati degli esami fossero tenuti segreti fino al momento in cui sarebbero stati rivelati nel corso di una conferenza stampa congiunta. L’analisi sarebbe stata effettuata sul DNA
mitocondriale, trasmissibile solo in linea femminile. Furono comparati una ciocca di capelli di Luigi XVII già utilizzata dal professor Edmond Locard; una ciocca di capelli della Regina Maria Amelia, nipote di Maria Antonietta in quanto discendente della sorella Maria Carolina; una ciocca di capelli delle due Arciduchesse Maria Giuseppa e Giovanna Gabriella, sorelle di Maria Antonietta; una ciocca dei capelli del Prìncipe Andrea di Borbone Parma, discendente in linea femminile dall’Imperatrice Maria Teresa. Il dottor Petrie riuscì ad aggiungervi dei capelli e dei peli di Naundorf, prelevati nel 1950 al momento dell’esumazione della sua salma, assieme ad un campione d’osso prelevato nella medesima occasione. Anzitutto emerse che il cromosoma Y, che il professor Cassiman era riuscito a isolare nell’osso passatogli dal dottor Petrie, non era lo stesso di quello dei due discendenti dello
stesso Naundorf. Infatti il frammento osseo di Naundorf era stato abbandonato per quarantasei anni, dal 1950 al 1996, in un contenitore non sigillato! Dunque in condizioni tali da non garantire l’affidabilità del reperto quanto all’autenticità della sua origine. Identica incertezza sul reperto osseo: il dottor Hulst, al momento dell’esumazione, nel 1950, parlava di un omero e di un cubito; il dottor Petrie parla di una tibia e di un omero. Ma anche nel DNA di Maria Antonietta il professor Cassiman avrebbe riscontrato un tasso di mutazioni molto elevato, tanto da indurre lo scienziato a dubitare dell’autenticità dei capelli dei figli dell’Imperatrice Maria Teresa o da supporre che i suoi attuali discendenti in vita e sopra menzionati, siano stati generati da una donna adottiva.
Fu per telefono che il professor Cassiman informò che la conferenza stampa prevista si sarebbe tenuta il 2 giugno 1998 a Lovanio, violando così in modo flagrante gli accordi assunti con l’altra équipe francese. La conferenza si tenne effettivamente e si svolse in lingua olandese: in essa veniva annunziato che Naundorf non era Luigi XVII.
I naundorfisti, ribaltando ancora una volta l’onere della prova, si consolano affermando che “il dottor Petrie non è riuscito […] a provare che Naundorf era un’altra persona da Luigi XVII”7, dimenticando che ciò che bisognava provare era semmai il contrario e cioè che Naundorf fosse davvero Luigi XVII, sopravvissuto alla prigionia nel Tempio.
Inoltre nel rapporto del 1999 dell’Università di Münster e del Centro di Genetica di Lovanio si legge che “questo cuore appartiene a un fanciullo che ha un legame di parentela con Maria Antonietta e la sua famiglia” (l’analisi del DNA permette di escludere o di affermare una parentela, non di affermare un’identità). Mentre il dottor Pascal del Laboratorio di Genetica Molecolare dell’Ospedale di Nantes, in una sua lettera del 27 aprile 2000, precisa che “non esiste alcuna certezza sull’origine di A queste considerazioni, che sollevano dubbi sotto il profilo scientifico, i seguaci di Naundorf aggiungono altri rilievi di carattere storico: il fanciullo deceduto nella prigione del Tempio l’8 giugno 1795 fu sottoposto ad autopsia il giorno seguente a quello della sua morte da un’équipe di quattro medici (Pelletan, Dumangin, Jeanroy e Lassus) alla presenza del secondino Lasnes e del commissario civile Damont. Pelletan pretende di aver espiantato e sottratto il cuore del bimbo, conservandolo
sotto spirito di vino, cioè sotto alcol che, evaporando, l’avrebbe lasciato completamente disseccato. Pelletan, professore d’anatomia, aveva conservato e collezionato presso la propria abitazione e allo stesso modo anche altri resti umani.
Nessuno degli altri medici presenti, né il carceriere si sarebbero accorti delle operazioni compiute dall’anatomista. Gli altri testi, fra cui l’allievo di Pelletan, Tillos, non erano presenti al momento dei fatti e dunque non possono che ripetere quanto udito dal loro maestro.
Questo “cuore di Pelletan” salta fuori, si materializza soltanto dopo la caduta di Napoleone, al momento della Restaurazione e del ritorno dei Borboni sul trono di Francia, precisamente il 23 aprile 1814, undici giorni dopo l’ingresso in Parigi del Conte d’Artois, fratello del Re Luigi XVIII e da lui nominato Luogotenente Generale del Regno. A quella data il reinsediamento dei Borboni sul trono di Francia era ormai un fatto certo. Quel giorno Pelletan firma una liberatoria alla vedova del suo discepolo Tillot, la quale gli restituisce il reperto che il suo allievo gli aveva sottratto. C’è da domandarsi perché Pelletan non aveva mai osato reclamarne prima la restituzione.
Secondo i naundorfisti, Pelletan è un falso teste, non esistendo alcuna prova convincente ch’egli abbia realmente preso con sé il cuore del fanciullo deceduto al Tempio e di cui aveva effettuato l’autopsia il 9 giugno 1795. Il cuore detto di Pelletan comincia ad avere un’esistenza fisica, dicono i suoi critici, concreta soltanto dopo il primo ritorno dei Borboni a Parigi, il 14 aprile 1814. È da questo cuore però, passato attraverso un’incredibile odissea (che sopra abbiamo descritta), che è stato prelevato
un frammento per l’esame del DNA: che ha dimostrato da un lato che Luigi XVII morì effettivamente nella prigione del Tempio l’8 giugno 1795, senza alcuna possibilità di fuga o di sostituzione da parte di chicchessia e che Naundorf non era, di conseguenza, se non un volgare impostore, un falso Luigi XVII come tanti altri.
I naundorfisti fanno notare che il primo resoconto del medico Philippe Jean Pelletan che narra della sottrazione del cuore da parte sua al momento dell’autopsia sul corpo di Luigi XVII, del ratto del cuore stesso da parte del suo allievo Tillos e della restituzione della reliquia da parte dei familiari di quest’ultimo, dopo la morte dello stesso Tillos, è del 1° maggio 1814. In quello stesso mese Pelletan compie numerosi passi presso la Famiglia Reale e presso l’Arcivescovo di Parigi, Monsignor de
Quelen, affinché ricevano il cuore di Luigi XVII, ricevendone però un rifiuto.
Il 23 maggio 1828: Pelletan lascia in deposito il cuore in un’urna di cristallo all’Arcivescovado di Parigi, dove già si conservava quello del primo Delfino, il fratello maggiore di Luigi XVII, Luigi Giuseppe Saverio, in un contenitore di piombo.
Il 26 settembre 1829 Pelletan muore. Il 29 luglio 1830 l’Arcivescovado di Parigi subisce un primo saccheggio ad opera dei rivoluzionari. Pierre Pelletan, figlio legittimo del chirurgo che aveva effettuato l’autopsia sul corpo di Luigi XVII, ritrova (secondo i naundorfisti) il contenitore di piombo con il cuore di Luigi Giuseppe Saverio, il fratello maggiore premorto e la relativa documentazione andata perduta.
Pierre Pelletan muore nel 1845: terminano nel frattempo le trattative con il Conte di Chambord per la restituzione del reperto. Nel 1854 un figlio naturale di Pelletan, Philippe Gabriel, scrive che molti giorni dopo il saccheggio dell’Arcivescovado, insieme allo stampatore Lescroart, egli aveva ritrovato, sepolto sotto un mucchio di sabbia, un cuore e, un po’ più distante, i frammenti di un’urna di cristallo. Nel 1879 anche il figlio naturale di Pelletan muore, lasciando Prosper Deschamps suo legatario
universale. Il 25 agosto 1883 muore anche il Conte di Chambord, senza aver potuto ricevere l’urna con il cuore di Luigi XVII, sulla scorta dei ricordi di Philippe Gabriel Pelletan. In verità nel 1885 un carteggio postumo rivela che il Conte di Chambord avrebbe ricevuto un cuore, ma si saprà poi che non è lo stesso di cui ci stiamo occupando. Finalmente il 22 giugno 1886 il cuore conservato da Pelletan viene consegnato a Don Carlos, pretendente al trono di Francia e nipote della Contessa di Chambord, ma non vi appare alcuna menzione del nome di Luigi XVII. Nel 1909 Don Jaime, figlio di Don Carlos, eredita il cuore, che, alla sua morte, passa alla Principessa Massimo, sua figlia. Nel 1938 il cuore trova asilo in Italia, presso la figlia, Marie des Neiges, vedova Piercy. Il 10 aprile 1975 con l’assenso delle altre sorelle, Marie des Neiges rimette l’urna al Mémorial de France a Saint-Denis. Nel 1999-2000 le analisi del DNA condotte sul reperto stabiliscono una parentela fra il cuore di Luigi XVII e gli Asburgo.
Secondo i naundorfisti vi sarebbero due urne e due cuori, mentre non si sa dove siano spariti i quindici frammenti di cristallo della prima urna infranta. Inoltre l’esame del DNA sul cuore che ne ha accertato la parentela con Maria Antonietta, non sarebbe stato condotto su quello di Luigi XVII (che sarebbe sopravvissuto e s’identificherebbe in Naundorf) bensì su quello del di lui fratello maggiore, Luigi
Giuseppe Saverio, il che spiegherebbe il legame tra le sequenze mitocondriali accertato dal test.

La Monarchia sacra Parte Prima :I RITI DI CONSACRAZIONE DELLA MONARCHIA CRISTIANA:L’incoronazione e l’unzione imperiale sotto i Carolingi

Lotario I (79529 settembre 855)  imperatore del Sacro Romano Impero e re d'Italia dall'818 all'839.


Ben presto s’andò formando un cerimoniale assai complesso, che seguì, in un certo senso, le vicende dei rapporti tra le due supreme autorità.
Durante l’epoca carolingia si fissò la consuetudine che fosse il Papa a conferire a Roma la corona imperiale al legittimo detentore. Costui, in omaggio alla sovranazionalità della monarchia imperiale, deteneva già il titolo sovrano di altri regni.
Così, dopo Carlomagno e Ludovico il Pio, furono unti e incoronati Lotario I a Roma il 5 aprile 823 da Papa Pasquale I, Ludovico I I nel 850 da Leone IV, Carlo I I il Calvo il 25 dicembre 875 da papa Giovanni VIII, Carlo I I I il Grosso il 12 dicembre 881, Guido da Spoleto il 21 febbraio 891 a Roma da papa Formoso, suo figlio Lamberto nell’892 sempre da Papa Formoso, ma a Ravenna, Arnolfo di Carinzia a Roma il 22 febbraio 896 dal medesimo Sommo Pontefice; Berengario I da Papa Giovanni X a Roma il 5 dicembre 915.
Questi sovrani seguivano un cerimoniale sorto nell’ambiente carolingio, dove, accanto all’Incoronazione da parte del Pontefice, gesto d’origine romana, s’aggiungeva il rito della consacrazione col sacro Crisma sul capo, sulle mani, sul polso, le spalle ed il braccio del novello Imperatore.
Il sacro Crisma, il più pregiato tra gli olii liturgici ed in uso pure per le consacrazioni episcopali, effuso sul capo del Principe, come per i vescovi, rende bene la concezione del Rex-Sacerdos propria di tale tradizione.

giovedì 29 marzo 2012

L’INFANTERIA VENETA : BREVE STORIA DELL'ESERCITO DELLA SERENISSIMA REPUBBLICA DI VENEZIA NELL'ANNO 1797




L'Esercito Veneto: struttura e riparto dei comandi

Nel 1788 l'esercito della Repubblica di San Marco poteva contare su 18 Reggimenti di linea, di cui
10 nazionali, più un altro Reggimento formato di compagnie sciolte e cernide, per un totale di
40.000 uomini. Territorialmente l’esercito era suddiviso in 4 riparti:

1 - la Terraferma, che comprendeva Veneto, Friuli (sino al confine carnico) e la Lombardia
veneta (con i territori di Bergamo, Brescia, Salò e Crema);
2 - il riparto della Dalmazia, comprendente Istria, Croazia, Dalmazia e Albania veneta;
3 - il riparto del Golfo, comprendente le fortezze alle Bocche di Cattaro (oggi Montenegro);
4 - il riparto del Levante, comprendente molte isole greche del Mar Ionio e del Mar Egeo,
come Corfu, Cefalonia, Creta, altre minori e la penisola della Morea (l’antico Peloponneso).
Molte di queste località rimasero sotto il vessillo di San Marco per 350 anni.

Il nome dei Reggimenti e la leva volontaria

I Reggimenti veneti di norma traevano il proprio nome da quello del Colonnello che li comandava. Gli ultimi quattro invece dalla città che provvedeva al loro sostentamento: così i Reggimenti 15° Rovigo, 16° Treviso, 17° Padova e 18° Verona.
La truppa era reclutata su base volontaria (la leva obbligatoria fu imposta dalla rivoluzione francese e da Napoleone) e avveniva tra novembre e gennaio, a cura dei Capileva. La ferma massima era di 6 anni, portata poi a 9.


I Gradi dell'Esercito Veneto

Col titolo di Feldmaresciallo fu acclamato, dopo l’eroica e vittoriosa difesa di Corfù (1716) contro i Turchi, il solo Conte Johann Matthias von der Schulenburg (1661-1747) generale imperiale al servizio della Serenissima, di cui riorganizzò l’esercito. Il massimo grado dell'esercito veneto di terra era il Tenente Generale, paragonabile all'attuale Capo di Stato Maggiore, seguito dal Sargente Generale, suo aiutante di campo. Vi erano poi quattro Sargenti Maggiori di battaglia, ciascuno a capo dei riparti
organizzativi di Terraferma, Dalmazia, Golfo e Levante, gradi equivalenti oggi a quello di Generale. A seguire vi era il Brigadiere Generale, grado assegnato al nobile di Terraferma che a sue spese metteva in armi 100 uomini a cavallo e, quindi, il Colonnello, il Tenente Colonnello, il Capitano, il Tenente e il Sargente, gradi presenti oggi in tutti gli eserciti.


I requisiti del buon soldato Veneto e la sua paga

Le reclute dovevano essere di età fra i 16 e i 40 anni; di altezza non inferiore a 160 centimetri; di fede cattolica; senza nessuna condanna penale. La paga mensile era di 8 ducati per il Sargente e di 4 ducati per il fante (pari a 384 lire venete, quanto la paga annua di un operaio, che manteneva allora sé e la famiglia con 3-400 lire l’anno). Due le Accademie per gli ufficiali veneti: a Zara si formavano la Marina e i soldati Oltremarini; a Verona, la fanteria e l’artiglieria. I corsi prevedevano 6 anni di studio.


Tipologie di Reggimenti

Le Forze Armate della Serenissima si articolavano in: fanteria di linea (Regg.ti Veneto Real, Treviso, Padova, Verona e così via); Oltremarini (detti Schiavoni); cavalleria, con i Dragoni, i Croati e i Corazzieri a cavallo; artiglieria (Regg.to artiglieri e bombardieri); Reggimento dell'Arsenal; la gloriosa Marina da Guerra veneziana, di ben 30.000 unità; e, infine, le cernite o craine (così chiamate se arruolate nei territori d’Oltremare). Quest’ultime erano milizie popolari stanziali, munite di schioppo o di altro armamento di fortuna, reclutate fra i contadini per difendere il proprio abitato o borgo.

Le ultime battaglie dell'Esercito Veneto


I libri di scuola tacciono le importanti battaglie combattute dalle Armate venete sul finire della Serenissima Repubblica.
Nel 1716, all’ASSEDIO DI CORFÙ, 5.000 fanti veneti respinsero vittoriosamente il tentativo
di 100.000 ottomani di conquistare e islamizzare l’isola fortificata. Nel 1786 vi fu il BOMBARDAMENTO DEL PORTO DI SUSA IN TUNISIA, allora territorio ottomano, da parte della squadra navale veneta dell'Ammiraglio Angelo Emo. Il 20 aprile 1797, mentre Verona e il contado si sollevano contro l’esercito napoleonico (Pasque Veronesi), s’ingaggia BATTAGLIA A SAN MASSIMO, PRESSO VERONA, contro l’esercito di Bonaparte: 500 fanti veneti del 16° Regg.to Treviso, agli ordini del Colonnello Ferro, 250 Dragoni a cavallo e il Regg.to di Schiavoni Medin arrestano l'avanzata francese e rientrano a Verona con 150 nemici catturati. Sempre durante l’insurrezione di Verona, a DESENZANO (Bs) il Generale Antonio Maffei, vince l’invasore francese, ma deve ripiegare su Verona, mentre anche a SALÒ (Bs) l'Esercito veneto dà prova di grande valore. Nella gloriosa insurrezione delle PASQUE VERONESI (17-25 aprile 1797) contro Bonaparte e il più potente esercito del mondo, i soldati francesi caduti sono centinaia; altri 1.000 feriti; 2.400 prigionieri, contro solo 350 vittime veronesi, cui devono però aggiungersi circa 2/3 dei 2.500 fanti della guarnigione veneziana che difendeva Verona, deportati in massa dopo la resa in campi di prigionia in Francia e ivi periti di stenti (i caduti per la Patria in quei giorni salgono così a 2.052).

DIVISE E ARMAMENTO DEI REGGIMENTI VENEZIANI IN SERVIZIO NEL 1797

Fanti Veneti

Dismessa nel 1788 l’uniforme bianca, l'Infanteria veneta, fino alla caduta (12 maggio 1797) della gloriosa Repubblica di San Marco, ebbe in dotazione divise blu notte di panno,
di foggia austriaca, con paramani e collarini bianchi e bottoni dorati; caschetto in cuoio con piuma a lato e coccarda con i colori nazionali, recante sul davanti una placca d’ottone, con inciso a sbalzo il Leone marciano. Ogni fante era armato di fucile ad avancarica con baionetta, modello Tartagna, di produzione nazionale: il moschetto era alimentato
con cartucce di carta (dette fissette) contenenti polvere nera e palle di piombo di vario calibro. Il tiro in linea era efficace fino a 100 metri. Il fante cingeva spada corta, detta palosso, con lama liscia o seghettata, utilizzabile sia per difesa che per lavoro.

In spalla portava uno zaino in pelle di vacca; e, a tracolla, tascapane di tela bianca, borraccia e giberna porta-munizioni, contenente fino a 25 cartucce e attrezzi per la manutenzione del fucile.
Il Sargente portava i gradi sul cappello con una ciocca di colore azzurro, che identificava lo Stato Veneto: era armato di sciabola corta e pistola, ma in combattimento poteva usare anche il fucile.

L’ufficiale del 16° Reggimento Treviso d’inverno indossava la velada (o giacca lunga) e pantaloni di colore blu scuro, panciotto bianco con filettatura dorata, cappello bicorno detto alla francese, su cui erano riportati i gradi: quelli del Comandante si differenziavano per la
maggiore altezza del gallone e dai fiocchi pendenti dal cappello. Era armato di sciabola e due pistole ad avancarica appese alla sella del cavallo. Invece il 1° Regg.to Veneto Real, il più prestigioso, fondato nel 1685 dall’Ammiraglio Francesco Morosini, aveva divisa di color turchino.


OLTREMARINI O SCHIAVONI

Conosciuti anche come Schiavoni, nome con cui s’indicavano tutte le genti di religione cristiana dell'oltremare veneziano, erano i più famosi soldati della Serenissima, di lingua e
di nazionalità serba, croata, albanese e greca, di aspetto orientaleggiante e pittoresco Formavano undici reggimenti, che traevano il nome dal rispettivo Colonnello che li comandava e ch’era della loro stessa nazionalità. Gli ordini erano impartiti nella lingua nativa e, tra di loro, si chiamavano brate (fratello). Il loro comando era a Zara; a Venezia, in Riva degli Schiavoni, che da essi prende il nome, c’era invece una loro caserma adibita allo smistamento delle reclute.
Erano armati della pesante spada schiavona a lama larga; di pistola ad avancarica; di pugnale
lungo e di fucile senza baionetta. Sorti come fanti da mar per operazioni di sbarco e di assalto al naviglio nemico, celebri per il loro coraggio in battaglia, non brillavano però per disciplina. Per incutere maggior timore al nemico portavano capelli lunghi e incolti, con lunghi mustacchi. In alta uniforme indossavano giacca lunga color rosso cremisi e gilet blu con risvolti rossi; una fusciacca gialla e una borraccia di legno alla cintola.


Cavalleria leggera o Dragoni

La cavalleria veneta si suddivideva in:
leggera (Dragoni e Croati a cavallo); pesante (Corazzieri). I Dragoni si spostavano veloci a
cavallo, ma combattevano anche a piedi. In tempo di pace vigilavano le strade maestre,
reprimendo possibili azioni banditesche. Il Reggimento dei Dragoni Savorgnan, di stanza a
Udine, portava i colori bianco e azzurro: l’ufficiale aveva sciabola e pistola ad avancarica;
obbligatoria la parrucca bianca. La truppa era armata di fucile corto, detto carabina.


Guardia Nobile Veronese

Milizia volontaria cittadina sorta nel marzo 1797, messa a guardia delle porte e di scorta alle Autorità, si coprì d’onore quando Verona si sollevò contro Napoleone, a difesa del legittimo Governo Veneto e della Religione cattolica profanata (Pasque Veronesi). Era una Guardia locale, formata da soldati non di carriera. Armata di spada (pur non disdegnando di sparare col moschetto) la Guardia Nobile indossava giacca azzurra su pantaloni e panciotto gialli, i colori cittadini. Coccarda degli stessi colori al petto.

 Fonte:

http://www.traditio.it/PASQUE%20VERONESI/2011/agosto/31/Armate%20Venete.pdf





La teologia della sostituzione a proposito degli ebrei è la teologia cattolica

Effetti della teologia della sostituzione - Clicca l'immagine per chiudere



L’odierna negazione di tale verità è soltanto un tributo all’idolatria del pensiero unico multiculturalista, al Leviatano del relativismo religioso e una potente manifestazione della crisi nella Chiesa. Le responsabilità della gerarchia vaticanosecondista al riguardo sono immense. L’attesa che la Restaurazione tradizionale promessa a Fatima si compia. Note su un intervento di Introvigne.



Al Direttore - Su Il Foglio del 23 agosto scorso Massimo Introvigne non nasconde il suo compiacimento a proposito della visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia, nel solco di quella di Wojtyla al tempio ebraico di Roma; e, più ancora, plaude alla fine della teologia della sostituzione, vale a dire del tradizionale insegnamento della Chiesa a proposito del giudaismo post-biblico. In forza di tale insegnamento, infatti, dopo il deicidio del Golgota, dopo la crocifissione di Gesù Cristo, è la Chiesa e la Chiesa soltanto l’autentica erede delle Scritture e delle profezie messianiche dell’Antico Testamento, realizzatesi poi nel Nuovo Testamento. Introvigne proclama che la teologia della sostituzione non sarebbe “mai [stata] insegnata dal magistero cattolico in modo ufficiale, ma ampiamente diffusa per secoli nei manuali e nella predicazione”.

Non intendo polemizzare con chi, approdando ad altri lidi, proviene da quello stesso ambiente cattolico-tradizionalista al quale lo scrivente si onora di appartenere. Osservo anzitutto che il fatto stesso che una verità sia stata insegnata e predicata per secoli, già offre un indizio e cioè che questo non poteva essere fatto senza l’approvazione, quanto meno tacita, del Supremo Magistero. Ma c’è di più: si chiama autorità della Sacra Scittura e la sua inerranza, San Paolo in particolare, ma anche San Pietro. Ma c’è di più ancora: salvo smentite, San Pietro consterebbe essere stato Papa e dunque il suo insegnamento e la sua predicazione pubblica, con quelli di Nostro Signore Gesù Cristo, costituiscono anche il Magistero per eccellenza, o no? E cos’hanno insegnato il Divino Maestro e gli Apostoli Pietro e Paolo? Seguiamone le tracce assieme a un celebre saggio di Monsignor Pier Carlo Landucci (che Introvigne non può ignorare, visto ch’è stato palestra di comune formazione per tutta una generazione di cattolici fedeli al perenne insegnamento della Chiesa) intitolato “La vera carità verso il popolo ebreo”. Il saggio fu pubblicato sulla rivista Renovatio (n. 3, 1982, pp. 349-363) fondata dal Cardinale Arcivescovo di Genova Giuseppe Siri e ristampato in epoca più recente proprio da una Casa Editrice vicina ad Alleanza Cattolica (”Cristianesimo e giudaismo”, di Francesco Spadafora, Edizioni Krinon, Caltanissetta 1987, pp. 112-126).

Bene. Cosa prova Monsignor Landucci, Bibbia e San Paolo alla mano? Che solo in Gesù Cristo vi è la salvezza; che ricade sui giudei la colpa, sia soggettiva che oggetiva, di non aver voluto riconoscere il Messia (“Se non fossi venuto e non avessi loro parlato, non avrebbero colpa; ma ora non hanno scusa per il loro peccato … Se non avessi fatto tra loro le opere che nessun altro ha fatto, non avrebbero colpa; ma ora, benché abbiano veduto, pure odiano me e il Padre mio, Gv. 15, 22-24); che il deicidio è fondato, si pensi solo alle parole di San Pietro il primo Papa, rivolte al Sinedrio: “Sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele che nel nome di Gesù Cristo Nazareno, che voi crocifiggeste e che Dio resuscitò dalla morte … quest’uomo sta davanti a voi risanato”, Atti 4, 10 e ancora “e tutto il popolo rispose: «Ricada il suo sangue su di noi e sui nostri figli»” Mt. 27, 25); che persecuzioni, battiture, tentativi di assassinio erano esperienza quotidiana degli Apostoli e dei primi cristiani da parte israelitica (“I giudei dell’Asia, veduto Paolo nel tempio, sobillarono tutta la folla … e impadronitisi di Paolo … tentavano di ucciderlo. .. Togli dal mondo costui: non è degno di vivere … I giudei ordirono una congiura e si votarono con anatema a non mangiare e non bere, finché non avessero ucciso Paolo”, Atti 21, 27-31; 22, 22; 23, 12; 26, 21); che da alcune correnti giudaiche lo Stato d’Israele è considerato il Messia, il che spiegherebbe perché quella regione non trova mai pace, né la troverà fin tanto che non venga adorato il vero Dio e l’autentico culto cristiano-cattolico; che gli ebrei postbiblici sono “rami stroncati … dalla santa radice; recisi per la loro incredulità” (Rm. 11, 17-17, 20), giudei che “uccisero il Signore Gesù e i Profeti e ferocemente hanno perseguitato noi; a Dio spiacenti e nemici del genere umano, impedendoci di predicare ai Gentili per salvarli; colmando così sempre più la misura dei loro peccati. Ma l’ira di Dio è ormai su di essi totale definitiva” (1a Tess. 2, 14-16); che Dio conserva gli ebrei in testimonianza delle Sacre Scritture e che l’irrevocabilità delle promesse di Dio verso di essi, di cui parla San Paolo, non si applica a coloro che continuano a rifiutare Gesù come Dio: infatti solo “se non persistono nell’incredulità [saranno] innestati di nuovo” (Rm. 11, 23); che la conversione in massa degli ebrei è prevista alla fine dei tempi, di cui costituisce uno dei segni più importanti.

La conseguenza logica di tutto ciò è non solo che la teologia della sostituzione è la teologia cattolica, ma che fare proselitismo è un dovere, eccome!, non soltanto verso i cattolici dispersi o ingabbiati nelle moderne ideologie anticristiane; non soltanto verso gli appartenenti a sette e denominazioni protestanti non facenti parte della Chiesa, sola arca di salvezza; ma anche verso quanti non riconoscono il nome di Cristo, islamici, buddisti, idolatri o ebrei che siano, affinché tramite una sincera e libera conversione pervengano alla vita eterna.

Capisco che tutto ciò la faccia a pugni con il pensiero unico multiculturalista; che la tentata giudaizzazione della Chiesa in questo quarantennio vada bene a chi o per carriera o per compiacere certi poteri mondani, mondanissimi, anzi anticristiani o magari più prosaicamente per trovare impiego presso qualche compagnia delle opere, spera così d’ingraziarsi qualche favore; che le terribili ambivalenze del vaticano II, calamitoso concilio pastorale, “il 1789 della Chiesa”, come fu definito dal Cardinale Suenens, producono sfasci a non finire (sul vaticano II si esercitarono fortissime pressioni israelite, ma non solo, c’è tutta una storia di cedimenti dei padri conciliari a protestanti, comunisti ecc., per non dire dei tradimenti in materia di Sacra Scrittura, di Stato cattolico, di libertà delle false religioni, di liturgia ecc.); capisco tutto questo e che sia terribilmente urtante richiamare gli ebrei a tali aspre verità. Ma quanto accaduto il 7 aprile del 30 d.C., la messa a morte di Dio venuto sulla terra per espiare i nostri peccati e salvarci, l’Olocasuto per definizione, non è una bazzeccola, un particolare insignificante della storia, bensì la data spartiacque di tutta la storia umana, sia di quella personale che di quella collettiva, dalla creazione fino a che il sole e la luna daranno luce, anzi anche dopo, poiché “i cieli e la terra passerano, ma le mie parole non passeranno, “caelum et terra transibunt, verba mea non praeteribunt (Mt. 24, 35). Tutta la teologia della storia, tutta la storia della salvezza, tutta la storia profana con la confluenza e conversione del mondo greco-romano nel cristianesimo, per dar luogo ad un’unica civiltà che chiamiamo classico-cristiana, la sola autentica, sta lì a dimostrarlo.

È vero amore allora, domando, quello che vigliaccamente tace, condannando all’errore e all’ignoranza chi giace fuori dalla Chiesa, nelle tenebre laiciste, relativiste, indifferentiste, pseudoreligiose o richiamare alla sola verità che salva? I gesti di Woytila e di Ratzinger, sia verso i giudei che verso i musulmani, le visite a sinagoghe e moschee, i baci al Corano, il pantheon innalzato al mondialismo religioso in Assisi nel 1986, ove tutte le sette del mondo furono convocate da Giovanni Paolo II, vanno perciò considerati per quello che sono: non gesti coraggiosi (che coraggio c’è nel sottomettersi alla canea del mondo e ai poter forti?), ma tradimenti. Di cui dovranno rendere conto a Dio. Da ben altra coraggiosa franchezza era animato il Prìncipe degli Apostoli, quando così parlava agl’israeliti: “Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventrata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (Atti, 4, 11-12). Quel Dio che, attraverso la Santa Vergine, ha promesso a Fatima: “Infine il mio Cuore Imacolato trionferà”. Il futuro, perciò, di là dagli apparenti vincitori del momento, non appartiene a modernisti, ecumenisti, relativisti, giudaizzanti e tampoco ai maomettani, bensì alle verità eternamente insegnate dalla Chiesa. Spiacevoli, spiacevolissime forse per chi non vuol intenderle, ma vere. Pegno di una vittoria futura quaggiù e del premio eterno nell’aldilà.


Maurizio-G. Ruggiero

Fonte:

La tassazione iniqua e la dottrina sociale della Chiesa sulle imposte(oltre il 20 %)




1 - La privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte. (Papa Leone XIII, Enciclica Rerum novarum, 15 maggio 1891, n. 35)
2 - [Dichiariamo] non essere lecito allo Stato di aggravare tanto con imposte e tasse esorbitanti la proprietà privata, da renderla quasi stremata. (Papa Pio XI, Enciclica Quadragesimo anno, 15 maggio
1931, n. 49)
3 - Astenetevi da queste misure [fscali] che, a dispetto della loro elaboratezza tecnica, urtano e feriscono nel popolo il senso del giusto e dell'ingiusto, o che rilegano la sua forza vitale, la sua
legittima ambizione di raccogliere il frutto del suo lavoro, la sua cura della sicurezza familiare: tutte considerazioni, queste, che meritano di occupare nell'animo del legislatore, il primo posto anziché l'ultimo. (Papa Pio XII, Discorso del 2 otobre 1948.
4 - L'imposta non può mai diventare, per opera dei poteri pubblici, un comodo metodo per colmare i deficit provocati da un'amministrazione imprevidente. (Papa Pio XII, Alocuzione al Congresso del’Associazione fscale intrnazionale sula natura e i limit dele tasse, 2 otobre 1956)

5 - Lo Stato non può esagerare all'eccesso i carichi tributari che giungano ad esaurire i leciti benefici della proprietà privata.
(Papa Pio XII, Discorso del 9 novembre 1957)

Esercito degli emigrati

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Ritratto raffigurante l'Armata degli Emigrati (1795)

L'Esercito degli emigrati era l'esercito nato in seguito alla Rivoluzione francese, composto dalle truppe monarchiche che erano emigrate fuori dalla Francia e che tornarono per sostenere la Guerra di Vandea combattendo a fianco dell'Esercito cattolico e reale, con lo scopo di ripristinare la monarchia legittima.

Era formato da:
  • Volontari nobili, alcuni dei quali,  servirono nell'esercito reale , che erano emigrati fuori della Francia agli inizi della rivoluzione, come fece gran parte della nobiltà francese.
File:Infanterie noble.JPG
Soldato dell'Infanteria Nobile(Esercito degli Emigrati)

  • Truppe al servizio di questi nobili fedeli  ai nobili stessi e alla legittima  monarchia . Essi erano anche stipendiati da Nobili che li comandavano, ma non bisogna farsi condizionare da ciò, essi si offrivano volontari non tanto per avere un guadagno ma pef fedeltà alla Corona legittima e alla tradizione.

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Soldato di Fanteria
  • Unità dell'esercito francese che sostenevano i legittimisti monarchici e la Monarchia.

Armée Royale de l'Ouest.
    Elenco degli eserciti 


    Esercito di Condé *

    *Luigi-Giuseppe di Borbone-Condé(Parigi, 9 agosto 1736Chantilly, 13 maggio 1818) organizzò con il figlio Luigi-Enrico-Giuseppe, duca di Borbone ,  e con l'aggiunta in seguito del  nipote Luigi-Antonio Enrico di Borbone-Condé,  la costituzione di una “armata degli emigrati francesi” nella città tedesca di Worms. Le potenze alleate finanziarono l'iniziativa ma pretesero il controllo militare delle armate. Disposta sulle rive del Reno nel 1794 e 1795, l'armata del Condé passò prima sotto il controllo inglese, poi sotto quello austriaco ed infine nel 1797, a seguito del Trattato di Campoformio,sotto quello russo. Nonostante il valoroso comportamento tenuto nelle battaglie di Wissembourg, Hagenau e Bentheim, dopo il Trattato di Lunéville il Condé dovette sciogliere la sua armata, e nel 1800 si trasferì con il figlio in Gran Bretagna a Wanstead, ove venne seguito sempre il cerimoniale dell'antico regime. Al Condé padre ed al figlio il re Giorgio III di Gran Bretagna accordò una pensione di 675 lire che venne dimezzata per volere dello stesso Condè. Tenne una corrispondenza segreta con i realisti residenti in Francia, ed in particolare con il generale francese Jean-Charles Pichegru, che, scoperta, costò a quest'ultimo una condanna alla galera in Guyana (dalla quale riuscì ad evadere riparando in Inghilterra) e successivamente la vita. Anche il nipote,Luigi-Antonio Enrico di Borbone-Condé ,  venne accusato  di cospirazione e  arrestato per ordine del Bonaparte nel 1804, e successivamente  fucilato il 21 marzo 1804 a  Vincennes. Con la Restaurazione rientrò nel 1814 in Francia e Luigi XVIII gli riconferì la carica di Gran Maestro di Francia, carica già conferitagli nel 1740 da Luigi XV e rimasta sospesa nei periodi repubblicano e del primo impero.
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    Luigi-Giuseppe di Borbone-Condé (Parigi, 9 agosto 1736Chantilly, 13 maggio 1818).Ottavo e penultimo dei Principi di Condé, era figlio di Luigi-Enrico di Borbone-Condé e della principessa Carolina di Hessen-Rheinfels-Rotenburg (17141787). Fu anche duca di Borbone, duca d'Enghien, duca di Guisa e Pari di Francia, duca di Bellegarde.


    File:Louis VI Henri de Bourbon, Prince de Condé, Delaval, Chantilly.jpg
    Luigi-Enrico-Giuseppe di Borbone-Condé(Luigi VI)(Parigi, 13 aprile 1756Castello di Saint-Leu, 27 agosto 1830) fu il 9º Duca di Enghien (1756-1772), quindi duca di Borbone (1772-1818) ed infine, alla morte del padre (1818), 9° Principe di Condé. Principe di sangue reale.Era il figlio unico dell'ottavo Principe di Condé Luigi Giuseppe (17361818) e di Charlotte de Rohan-Soubise (17371760), figlia di Carlo, principe di Soubise e duca di Rohan-Rohan (17151787).


    File:AduC 279 Enghien (L.A.H. de Bourbon, duc d', 1772-1804).JPG
     Luigi-Antonio Enrico di Borbone-Condé (Chantilly, 2 agosto 1772Vincennes, 21 marzo 1804) era figlio unico di Luigi-Enrico-Giuseppe di Borbone-Condé, allora ancora duca di Borbone, e di Batilde di Borbone-Orléans, e ultimo discendente diretto del ramo dei Borbone-Condé.

    File:Exécution du Duc d'Enghien 1804 03 21.jpg
    L'esecuzione del duca d'Enghien  Luigi-Antonio Enrico di Borbone-Condé da parte dei Bonapartisti.

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    Cavalliere dell'Armata Realista del Principe di Condè




    • Reggimento di Mortemart

    Esercito dei principi* 




    *Quest'esercito venne  creato nel 1792 in Germania, a Treviri, e comandato dai marescialli de Broglie e de Castries, sotto la guida dei fratelli di Luigi XVI: il conte di Provenza ed il conte di Artois. Forte di 10.000 uomini, anche se raggiunse il numero di 20.000 unità, rientrò in Francia al fianco dell'esercito di Brunswick e venne congedato il 24 novembre 1792.
    Era composto da valorosi soldati provenienti da ogni parte della Francia . Alcuni erano soldati che, dopo aver disertato dall'esercito repubblicano, riuscirono a oltrepassare il confine, altri invece, erano giovani cadetti o renitenti alla coscrizione repubblicana che , rimasti fedeli alla Corona, si arruolarono venendo inquadrati regolarmente nelle fila dell'esercito.

    File:Comte de Provence IMG 2262.JPG
    Luigi Saverio  Conte di Provenza (Futuro Luigi XVIII°)

    File:Duchesne - Charles, comte d'Artois, en uniforme de colonel-général des Carabiniers.jpg
    Carlo Filippo Conte d'Artois(Futuro Carlo X°)

    File:Régiment damas.jpg
    Régiment damas



    Altre unità 

    Legione dei Pirenei:
    • Creazione: 1794
    • Altri nomi: in maggio, "Legione reale dei Pirenei"
    • Creatore: Marchese di Saint-Simon
    • Il comandante: Marchese di Saint-Simon
    • Truppe: 600 fanti e uno squadrone di ussari
    • Teatro di operazioni: Pirenei Atlantici
    • Impegni: Saint-Étienne-de-Baïgorry (26 aprile 1794), forti perdite (di cui 17 prigionieri); montagne di Arquinzun (10 luglio 1794), forti perdite (30 al 50% della truppa); Port-Bidassoa (24 luglio 1794), forti perdite per coprire la ritirata spagnola (di cui 50 prigionieri); Assedio di Pamplona (novembre 1794).
    • Inviata nelle retrovie nel 1795, quindi integrata nel reggimento dei Borbone

    Soldati emigarti della prima divisione a Quiberon:
    1) Régiment du Dresnay ou de Léon.
    2) Loyal Emigrant.
    3) Régiment d'Hervilly.
    4) Royal Artillerie.
    5) Régiment d'Hector ou Marine-Royale
      Legione di Panetier:
      • Creazione: 1793
      • Altri nomi: "Legione della regina (di Spagna)" nel giugno 1794
      • Creatore: conte di Panetier (morto nel gennaio 1794)
      • Il comandante: conte di Panetier, quindi il generale di Santa-Clara
      • Truppe: 400 uomini; completato nel giugno 1794 da una compagnia fuggita dell'Assedio di Toulon;
      • Teatro di operazioni: Pirenei Orientali
      • Impiego: Difesa di Port-Vendres (maggio 1794), fuggiti via mare (per evitare di venire catturati e ghigliottinati); Zamora 5 gennaio 1796
      • Integrata nel reggimento dei Borbone
      Legione del Vallespir:

      • Creazione: 1793
      • Altri nomi: "Battaglione della frontiera", verso maggio 1793
      • Creatore: il generale spagnolo Ricardos: fornisce soldati spagnoli ad ufficiali francesi emigrati
      • Teatro di operazioni: difesa del Vallespir, quindi Rossiglione
      • Numerose diserzioni verso la Legione di Panetier. Integrato nel reggimento dei Borbone.
      Reali Roussillon:
      • Creazione: gennaio 1794 a Barcellona da emigrati, prigionieri, disertori
      • Creatore: Generale Ricardos
      • Truppe: 200 nel giugno 1794 (di cui 129 massacrati dalla folla perché si divertivano nelle loro taverne un giorno di processione);
      • Impiego: mai impiegato
      • Inserito nella "Legione di Panetier" (nel momento in cui divenne la "Legione della Regina")

      Soldats émigrés della seconda divisione a Quiberon:
      1) Légion du Périgord.
      2) Légion de Béon.
      3) Régiment de Damas.
      4) Régiment de Rohan.
      5) Légion de Salm-Kiburg
        Reggimento dei Borbone:
        • Creazione: 1796 a partire dalla "Legione della Regina" (ex-Legione di Panetier), più l'unione con il "Battaglione della frontiera", e della "Legione reale dei Pirenei"
        • Altri nomi: integrato all'esercito spagnolo, porta il n°47, quindi il n°37
        • Creatore: Marchese di Saint-Simon
        • Il comandante: Marchese di Saint-Simon
        • Truppe: 1600 uomini (1808)
        • Teatro di operazioni: guarnigione a Ciudad Rodrigo (1797) quindi a Maiorca
        • Impiego: Assedio di Gérone (caduta il 9 dicembre 1808, perdita di 300 prigionieri; Rozas (1808)
        • Nel 1814 viene creato nuovamente con il n°41, quindi diventa nel 1860 il 53º reggimento di fanteria, chiamato "El Emigrado".
        Questo valoroso esercito è , insieme all'Esercito Cattolico e Reale, l'espressione più forte della lealta, dell'onore, e della gloria della Controrivoluzione e di chi ne fa parte.

        Fonti:


        Wikipedia


        http://www.viveleroy.fr/

        Scritto da:

        Il Principe dei Reazionari