martedì 22 maggio 2012

Il Portogallo di fronte alla Rivoluzione



 
Joaquim Maria Cymbron è animatore del Movimento Legitimista Portugues.
In questo articolo dal titolo originale “Liberdade revolucionaria e a situaçao de Portugal”, che presentiamo in una nostra traduzione e con nostro titolo, traccia un excursus della crisi portoghese ed indica la via del riscatto per la grande Nazione lusitana.


Nel 1789 il mondo fu scosso da una delle più terribili convulsioni della storia: la rivoluzione francese. Un’aggressione furiosa, superata solo dalla rivoluzione russa che ne fu l’erede, animata da quel delirio di superbia che è l’origine di ogni peccato che sparse il terrore al grido di uguaglianza, libertà e fraternità.
Creati da Dio a propria immagine e somiglianza, al fine di poter godere della sua visione beatifica, siamo tutti uguali; riscattati dalla schiavitù del peccato da Gesù Cristo siamo tutti liberi, adottati dal Padre che è nei cieli come suoi figli, siamo tutti fratelli. In questo tipo di uguaglianza, di libertà e di fraternità credo profondamente. Tutte le altre non mi attirano perchè mi riesce impossibile amare ciò che non ottengo per via di intelletto oppure di fede.
In Spagna la Regencia de Estella, un organismo che ha reso importanti servigi alla causa Carlista, ha adottato per le sue bandiere il motto “Nada sin Dios. Raccogliendo questo insegnamento memorabile, io direi: Senza Dio, niente uguaglianza, niente libertà e niente fraternità perchè senza Dio è il nulla, questo il terribile risultato al quale conduce la negazione della verità più luminosa o, analogamente, la congiura del silenzio che contro questa stessa verità è stata ordita.
Preferisco dedicare maggiore attenzione alla libertà, non perchè questa parola sia stata meno profanata delle altre, ma solo perché è in suo nome che siamo ingannati più costantemente.
La libertà è certamente un dono preziosissimo, ed è proprio per questo che il termine rende indispensabile una chiara definizione del suo contenuto. Provo a definirla:
È libero chi non si rende schiavo del male; è servo chi non gode della libertà di essere figlio di Dio. Che cos’è infatti la vera libertà se non la condizione di chi si sottrae al dominio della menzogna per osservare la parola di Cristo?
L’uomo che non si assoggetta alle passioni sregolate, che riesce a controllare i propri impulsi, che sottomette i sensi alla ragione è un uomo veramente libero, perchè non è sottomesso al peccato ed alla morte, ma vive nell’obbedienza della giustizia, seguendo perfettamente la lezione di San Paolo. Proprio come l’Apostolo egli dirà: “Tutto mi è consentito, ma non tutto mi conviene. Tutto mi è consentito, ma non diventerò schiavo di nulla”.
Certamente, chi ha la facoltà di essere libero, proprio per questo può rinunciarvi in quanto, anche se non tutto gli conviene tutto gli è consentito, come recita il testo sacro. Solo se l’uomo avesse certezza evidente dell’ordine soprannaturale si potrebbe realizzare una coincidenza tra quanto gli è consentito e quanto gli conviene. In questo caso il rispetto all’ordine soprannaturale sarebbe psicologicamente necessario. L’uomo non potrebbe violarlo perchè tale ordine si imporrebbe al suo intelletto ed a quanto dall’intelletto scaturisce.
Ma tale certezza non vi è mai stata perché non esiste. Da ciò scaturisce in tutta la sua pienezza la possibilità di scegliere il vero bene. Questa possibilità è insopprimibile perché deriva dai limiti della natura umana.
Il potere di scegliere quanto più conviene, concepito proprio in questi termini, si manifesta nell’esercizio della volontà ed è autentico - e come tale degno di rispetto e venerazione - quando diviene lo strumento mediante il quale l’uomo va incontro alla grazia efficiente.
Quest’ultima si traduce nella risposta della volontà ad un invito d’amore, che solo l’infinita misericordia di Dio nei nostri confronti può spiegare. Questa chiamata è la grazia santificante,
che, vere et mere sufficiens, assiste l’intelletto nella ricerca del vero – gratia illuminationis – e stimola la volontà ad aderire al bene che in essa è contenuto, gratia inspirationis.
Se l’uomo non disponesse di questa facoltà le sue azioni sarebbero la conseguenza automatica di situazioni di forza o di uno stato di necessità o al massimo sarebbero il puro riflesso dalla capacità intellettiva di ciascun singolo. In questo caso le sue azioni non potrebbero oltrepassare il limite segnato dal suo intelletto. Sarebbero rette a patto e nella misura in cui tale intelletto fosse bene orientato; in caso contrario, se il suo intelletto non giudicasse correttamente e ad ogni suo errore egli peccherebbe in opere od omissioni. Come gli esseri privi di ragione, che seguono docilmente il proprio istinto, l’uomo reso schiavo dal determinismo del proprio intelletto meriterebbe come gli esseri irrazionali il destino di dissolversi nella polvere della quale è composto. Se egli non avesse la facoltà di realizzare con amore le proprie opere, non vi sarebbe nessun merito per queste ultime.
Per un atto di pura magnanimità Dio scelse gli uomini per un fine soprannaturale e se non vi fosse stata la caduta dei nostri progenitori, l’uomo in statu viae userebbe la sua volontà per definire la sua corona di gloria in statu termini. Il peccato originale ha determinato un vulnus che ci tormenta con le spine della concupiscenza: la carne e lo spirito si affrontano in una gigantesca battaglia. Eppure, San Paolo dice: Dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia (….)”.
E dunque la scelta del bene teleologicamente appetibile torna ad essere possibile per l’uomo grazie alla speciale grazie “della redenzione che si realizza in Gesù Cristo” (….)”.

È evidente che la funzione della volontà, ed il suo fine principale, è quella di aderire a quanto l’intelletto giudica più conveniente nell’ambito del lecito. Ciò nondimeno vi sono situazioni nelle quali determinati fattori interni o esterni influiscono sulla ragione, sulla volontà o su entrambe opponendosi alla autenticità.
Che cosa scegliere, dunque? Il merito individuale rende necessario che situazioni di questo tipo possano verificarsi; il bene comune, in casi ben precisi invece non solo esclude situazioni del genere, ma le respinge. La politica non è soltanto il luogo di una convivenza nella quale l’uomo persegue il premio spirituale che otterrà se vivrà secondo i disegni di Dio; certo è anche questo, ma al tempo stesso è l’arte di impedire che tanti di coloro che sono chiamati a compiere questi disegni possano invece diventare occasione di scandalo fino a contraddirli. Questa causa deve impegnarci, ma è certo che i tempi ultimi, questi giorni orribili precedono la parusia, saranno abbreviati, perchè se così non fosse, nessuna creatura si salverebbe.
Tale è il significato soprannaturale della politica. E d’altronde come potrebbe la politica allontanarsi da ciò in cui Dio pone tanta cura? All’uomo conviene è agire secondo l’ordine provvidenziale per quanto gli è dato, analogamente a come Dio agisce nella sua maestà infinita.
Ciò che conferisce al termine secondario la necessaria legittimazione è la corretta subordinazione al termine principale. E se la saggezza umana, sia pure con i limiti della propria natura, segue l’esempio tracciato dalla divina provvidenza ottiene la agognata bontà di chi risponde alla causa ultima alla quale tutte le cose debbono rispondere.
Prima di proseguire vorrei fare qualche considerazione che spero renderà più chiaro l’argomento che sto trattando.
Poco più di duemila anni fa un politico senza nerbo, senza ideali e senza convinzioni, un uomo tiepido e relativista al punto di chiedere, come fanno i liberali, che cosa mai fosse la verità, un uomo moralmente vile, come lo sono i democratici che si nascondono nell’anonimato della massa, chiese alla folla che lo premeva di decidere sul destino di due uomini che erano in suo potere: uno di essi era accusato di omicidio e rapina; nell’altro, egli stesso, non aveva trovato alcuna colpa. E la turba in delirio pretendeva che liberasse l’assassino ed invocava la vergognosa morte sulla croce per l’innocente.
Tutti conoscono i personaggi di questo avvenimento storico: il politico era Pilato, l’assassino era Barabba, e l’innocente era Gesù Cristo Redentore.
Come si vede, tutto avvenne in un contesto squisitamente democratico. Incolperemo dunque la democrazia del dramma del Golgota? Sarebbe come indicare gli ebrei oppure i romani quali responsabili della passione e della morte di Gesù Salvatore, solo perché ebreo era il popolo che circondava il pretorio e romano il magistrato che preferì lavarsene le mani.
Cristo doveva vivere la sua agonia perché la redenzione del genere umano era la sua missione e nessun altro avrebbe potuto sostituirlo affinché vi fosse una soddisfazione adeguata dell’immensità del peccato compiuto dai nostri
progenitori. La sua missione si compì su una croce per la debolezza di uno scettico e la follia di una turba rabbiosa, ma avrebbe potuto compiersi per l’ordine di un tiranno, come avvenne per il martirio dei Santi innocenti.
In fondo, chi crocifisse il Figlio di Dio? Sappiamo bene che Gesù ha sofferto per i nostri peccati e che per essi continua ad immolarsi nel sacrificio incruento della Santa Messa. Ciò nonostante, su un piano non teologico ma puramente teorico, niente ci vieta di definire il peccato come la ricerca del bene nella nostra concupiscenza, che sostituisce l’aspirazione al bene autentico. Il nostro poeta censurava questo comportamento in un saggio e finissimo verso: “Vedi, allora, che nessuno ama quanto deve amare, ma solo ciò che mal desidera”… . Purtroppo i valori che guidano le democrazie sono di questo tipo. E dunque non si può negare la conclusione che la prassi democratica, non ineluttabilmente, ma con una tendenza molto accentuata sia sinonimo di calvario della legittimità.
Così come fu più obbediente verso il padre il figlio che inizialmente si rifiutò di lavorare nella vigna, e poi accettò di farlo, dell’altro figlio che ostentò invece obbedienza senza poi eseguire l’ordine, allo stesso modo trovo molto più rispettoso della mia volontà un governo che senza consultarmi realizza le mie aspirazioni, di un governo che, pur sollecitando il mio voto, finisce con il decidere quanto più gli conviene. Secondo la lezione di San Paolo non bisogna dimenticare che la volontà, per meritare rispetto, deve agire come strumento di salvezza e pertanto è più consono ai miei interessi un governo che agisca per la mia convenienza di uno che si pieghi ad un capriccio passeggero
Non diverso era il comportamento dell’antico governo portoghese quando il re ascoltava le proposte dei procuratori alle Cortes per raccogliere gli elementi necessari a decidere per il bene comune. Gli errori del liberalismo, mescolati al mito demagogico della sovranità popolare, infransero l’unità armonica di questo patto. “La voce dei popoli a parlamento”, come recita un ispirato verso di Sardinha, fu soffocata e perfino il re fu zittito a forza. “La parola dei re era sacra – scriveva Camilo - quando essi governavano; ora a malapena regnano”.
Diritti dell’uomo e del cittadino, libertà e garanzie individuali, protocolli, convenzioni, leggi che tanto più si moltiplicano quanto più sono inefficaci, una babele di termini con i quali si sono saturati i vocabolari delle lingue più svariate e si sono confusi i manuali della moderna scienza politica, costituiscono ormai un coacervo confuso al quale ama attingere un falso costituzionalismo, che nega consapevolmente o meno la realtà storica che in Portogallo era testimoniata dalla forza delle sue leggi fondamentali.
Già (…) nei temi discussi alle nostre antiche Cortes sono contenuti importanti elementi di diritto pubblico e garanzie individuali del tipo di quello che oggi reclamano i moderni pubblicisti, osserva il visconte di Santarem.
L’illustre ministro di Sua Maestà Dom Miguel I faceva questa sincera considerazione, prima che fosse acclamato l’ultimo re del Portogallo. L’ultimo in quanto i principi, nelle cui teste covava il liberalismo, erano in realtà dei morti incaricati di fare atto di presenza. E José Agostinho de Macedo, l’esponente più valido del miguelismo, avvertiva bene che un re di questo tipo “sarà la parvenza di un re, ma non un re, perché mancherà dell’essenza, cioè di quanto fa dell’essere ciò che esso è, che consiste nella Sovranità. Quest’ultima è indivisibile, e dividerla significa mettervi fine.
La società portoghese si allontanò dalle antiche norme che la reggevano, ben coerenti con il diritto naturale. E la tragedia più grande è che il male attraversa le frontiere. Oggi il mondo si nutre dell’illusione che il comunismo- la conclusione più logica del processo liberale – sia definitivamente sepolto. E non si accorge che quel comunismo, bersaglio di avidi finanzieri e così temuto da una borghesia sempre desiderosa di calma e tranquillità, è stato sepolto nelle sembianze di un manichino che raffigura quel modello di comunismo che si dà per morto e sepolto. Questa messa in scena viene rappresentata ripetendo formule che altro non sono, in realtà, che l’esaltazione dei sofismi dai quale
nacque il preteso defunto. E tagliare il ramo lasciando nel suolo le radici dell’albero è una semplice potatura della pianta, che alla fine la rinvigorisce.
Il cammino della storia è un percorso lungo. Ma l’uomo, con la sua limitata capacità di comprensione, tende ad assolutizzare il presente ed a concentrarvisi senza osservare progressi e cadute del passato. Trascurando il dato reale degli sconvolgimenti del passato non riesce ad intuire il futuro con quella approssimazione minima che è dovuta alla incertezza che accompagna tutto quanto è contingente, e soprattutto alla volontà di Dio dal quale dipende la decisione ultima su tutto ciò che avviene.
Non mi soffermo sulla follia di dimenticare Trotsky ed il suo pessimismo sulla strategia staliniana per il consolidamento del potere sovietico, e neanche sull’insensatezza di dimenticare in quale tipo di società Marx avesse previsto il trionfo della rivoluzione proletaria. Non richiamo qui la nota duttilità dei comunisti nel riconoscere i propri errori, che è strettamente legata alla loro capacità di comprendere quando è tatticamente necessario, fare dei passi indietro.
Non osservo nemmeno, in questa sede, che al collettivismo si può arrivare in modi diversi, compresa la via delle riforme, che ha tanti sostenitori nelle economie occidentali.
Tutti questi fattori, che già separatamente assumono grande importanza, sono nel loro complesso indispensabili a comprendere quanto è accaduto dopo la caduta del muro di Berlino, e tuttavia perdono interesse rispetto ad un preoccupante dato oggettivo:
il neo-liberalismo, il comunismo, il socialismo democratico, comunque li si giudichi, danno vita a sistemi politici contrassegnati da un naturalismo anti-divino e da un relativismo incapace di tracciare chiaramente la linea di divisione tra il bene ed il male. Davanti ai nostri occhi abbiamo l’eredità spuria degli amori incestuosi tra il razionalismo cartesiano e l’apriorismo di Kant. Tutta questa linea di pensiero è infettata dal virus della filosofia di Hegel, che Feuerbach, Marx ed Engels hanno adattato al materialismo dialettico ed attende solo che la Rivoluzione universale gli trasmetta qualche nuovo gene.
L’idea fissa di una umanità incatenata in una sperduta isola dell’Utopia oppure in un immenso Arcipelago Gulag, è un’ossessione di antica data, che viene riproposta con l’obbiettivo di creare masse amorfe ed abuliche destinate a gemere impotenti di fronte agli immensi privilegi di una Sinarchia feroce, avida, e lussuriosa.
Questo quadro di abiezione, nel quale i padroni non soffriranno meno dei servi, questo quadro demoniaco di angustia mortale si concretizzerà all’orizzonte se prima non faremo ritorno a Dio, questo scenario di popoli tremendamente infelici per aver smarrito la consapevolezza del proprio fine soprannaturale, realizzerà l’immagine dantesca del Vexilla regis prodeunt inferni .
Se il Portogallo vuole scongiurare questo pericolo e, soprattutto, se vuole meritare da Dio la grazia di allontanare da sé la minaccia della tirannia rivoluzionaria, deve ricollegarsi con forza alla sua Tradizione per poter recuperare le energie per questa crociata. Se questo non avverrà, sarà la nostra condanna temporale.

di Joaquim Maria Cymbron.
Fonte:
Editoriale il Giglio