mercoledì 20 giugno 2012

Il debito pubblico italiano - Parte Seconda


Note storiche sul debito pubblico italiano
Dal secondo dopoguerra, alla crisi attuale


- seconda parte -

del
Prof. Alessandro Volpi
(Università di Pisa)




Il dopoguerra e gli anni d’oro.
Dopo la guerra il brusco contenimento del debito dipese in larghissima misura dalla svalutazione della lira: essendo finanziato e denominato in lire, il crollo del valore della lira fece precipitare anche il valore complessivo del debito che passò dal 92 per cento del Pil nel 1944 al 40 nel 1946 per un valore totale di circa 750 milioni di euro. Negli anni successivi, fino al 1963, le dinamiche del debito furono contenute da vari fattori. Inizialmente ebbero un effetto positivo gli aiuti del Piano Marshall, insieme ad ulteriori prestiti forzosi, come quello della "ricostruzione" avviato dal ministro Soleri. Risultarono poi molto importanti il tasso di crescita annua del Pil, che rimase per tutto il periodo sopra il 5 per cento, e la possibilità di finanziare il debito ad un tasso d'interesse inferiore rispetto al tasso d'inflazione. Continuavano ad operare anche i vincoli alla circolazione dei capitali, mentre la Banca d'Italia svolgeva le funzioni di prestatore di ultima istanza anche per lo Stato, stampando carta moneta. Comune era parimenti la prassi dei pagamenti differiti che consentiva di contabilizzare le uscite in più annate, con benefiche conseguenze sul debito. Fra il 1946 e il 1961 il Tesoro fece ampio ricorso ai prestiti redimibili con bassi tassi e un sovrapprezzo obbligato per i compratori che subirono così una vera e propria imposizione fiscale. Nel 1958 fu creato un Fondo ad hoc per procedere alla sostituzione del debito in scadenza, mentre cresceva rapidamente il peso degli acquisti bancari dei buoni del Tesoro, passati dal 58 per cento del totale nel 1947 al 91 nel 1961: una crescita dettata dalla possibilità sancita dalla Banca d'Italia di utilizzare da parte delle banche i buoni del Tesoro come riserva obbligatoria. In questo senso, lo Stato, attraverso l’emissione di carta moneta finalizzata all’acquisto di titoli del debito e mediante l’azione delle banche che erano in larghissima misura di proprietà pubblica, procedeva a trasformare il debito pubblico in debito nei confronti dello Stato stesso: in estrema sintesi si assisteva alla situazione molto particolare di uno Stato indebitato con se stesso. La gestione del debito, attuata con molteplici strumenti, lo aveva fatto crescere senza farlo esplodere, riducendo anzi sensibilmente il suo rapporto con il Pil grazie all’aumento costante di quest’ultimo e ai bassi tassi di interesse. In termini quantitativi era passato da 1,2 miliardi di euro nel 1947 a 4,6 nel 1963, a fronte di un rapporto con il Pil che dal 40 per cento era sceso fino a poco sopra il 32%, una percentuale decisamente virtuosa.
Il quadro iniziò a cambiare dopo il 1963, quando la crescita del paese rallentò in maniera vistosa e la lira cominciò a perdere progressivamente valore rispetto alle altre monete internazionali. Cresceva con forte intensità anche la spesa pubblica – 10 punti di Pil in poco meno di 15 anni - nel suo insieme che a partire dai primi anni Settanta partoriva un saldo negativo del bilancio pubblico superiore al 10% annuo, mentre le entrate fiscali, in nome delle strategie del consenso, andavano riducendosi con rapidità. In tal senso pesava la mancata realizzazione di una riforma fiscale dopo il primo tentativo di Ezio Vanoni. Gli elementi che impedivano la deflagrazione della crisi debitoria erano costituiti dal permanere di tassi di interesse inferiori al tasso di inflazione che era decisamente galoppante, e dunque continuava a svalutare il complesso del debito, e dai vincoli alla circolazione dei capitali, per effetto dei quali i titoli del debito pubblica italiano potevano continuare a disporre di compratori “nazionali”, banche e risparmiatori.
La prima crisi.
Questa crisi scoppiò a partire dagli anni Ottanta allorché intervennero alcune modificazioni di ordine strutturale sia sul piano interno che su quello internazionale e che ebbero come effetto più evidente l’insostenibilità in termini di tassi di interesse del costo del debito. Il primo dato, in realtà in sostanziale continuità con quanto accaduto nel corso del decennio precedente, ma con dimensioni decisamente maggiori, fu rappresentato dalla crescita della spesa pubblica che arrivò nel 1985 a superare il 55% del Prodotto interno lordo. Si trattava però di una spesa il cui incremento dipendeva in maniera sempre più rilevante proprio dal già ricordato peso degli interessi. Lo stock di debito primario infatti aumentava assai meno della media europea mentre gli interessi esplodevano tanto da arrivare nel 1994 a rappresentare il 12 per cento del Prodotto interno lordo, una vera e propria cifra astronomica. Una simile lievitazione degli interessi si legava direttamente alla liberalizzazione dei flussi di capitale e alla politica monetaria avviata negli Stati Uniti con la presidenza Reagan costruita su alti tassi di interesse per attrarre gli investitori esteri che iniziarono così ad abbandonare i titoli di Stato dei propri paesi. Contestualmente a ciò, la scelta adottata nel 1981 dal ministro Andreatta e dal governatore Ciampi di rimuovere l’obbligo per la Banca d’Italia di acquistare le partite di debito italiano rimaste invendute rese ancora più complesso il collocamento dei titoli del nostro paese che dipesero da un mercato internazionale dominato da tassi assai alti, di fatto proibitivi per l’Italia già caratterizzata da un debito molto importante. Così il rapporto tra debito e Pil salì vertiginosamente dal 60 per cento circa del 1980 al 124 per cento del 1994, sfondando ogni soglia di sostenibilità e passando in termini quantitativi da 144 miliardi nel 1980 a quasi 1100 miliardi di euro nel 1994. Lo stato di salute delle finanze pubbliche era reso peggiore poi dalla assoluta insufficienza delle entrate fiscali, con una pressione che nel 1985 era pari soltanto al 34,6 per cento del Pil contro una media europea del 41 per cento, e dal rapido dilagare dell’evasione e dell’elusione fiscale, pari negli anni Ottanta al 25% dei redditi imponibili da lavoro dipendente e del 60 per cento per i redditi d’impresa. Brusco incremento del conto interessi, dovuto alla “concorrenza” del debito di altri paesi, scomparsa delle coperture garantite dalla Banca d’Italia e basso prelievo fiscale scatenarono dunque la prima grande crisi del debito italiano.
L’euro e la seconda crisi.
L’avvio del percorso di ingresso nella moneta unica, sancito a Maastricht nel 1992, permise di arginare il tracollo. Per rispettare i parametri imposti dai trattati infatti furono varate leggi finanziarie molto pesanti che ridussero tra il 1994 e il 2001 l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni di quasi 8 punti, ricostituendo l’avanzo primario che fu nel 1997 pari al 6,6%, più che doppio rispetto alla media europea. Ciò permise di riportare il rapporto tra deficit e Pil, che nel 1992 era di poco inferiore al 12 per cento, sotto la soglia del 3% richiesto dai vincoli di Maastricht; un risultato in larga misura ottenuto grazie alla riduzioni degli interessi, scesi sia per l’“ombrello” europeo sia per la politica monetaria statunitense fortemente espansiva e caratterizzata da tassi assai bassi, a dimostrazione di quanto, con la globalizzazione, le dinamiche dei debiti nazionali dipendessero moltissimo dal contesto internazionale. Una minore influenza sul miglioramento dei conti pubblici ebbe l’aumento delle entrate che fu comunque assai limitato nel periodo già ricordato 1994-2001, dopo aver conosciuto invece una significativa crescita tra il 1985 e il 1994, salendo dal 34,6 al 40% del Pil. Nonostante le due ondate di massicce privatizzazioni, avvenute a fine anni Ottanta e a fine anni Novanta, per circa 95 miliardi di euro, il rapporto tra debito e Pil scese poco fino al 2000, restando ancora al 110 per cento anche a causa di una sostanziale scomparsa dell’inflazione che impediva la svalutazione del debito stesso. In termini assoluti, il debito pubblico italiano era pari in quell’anno a poco più di 1350 miliardi di euro.
Un miglioramento più sensibile si ebbe dopo il varo dell’euro nel 2002. L’utilizzo della moneta comune consentì una riduzione ancora più marcata del costo degli interessi sul debito dal momento che l’Italia poteva finanziarsi ad un tasso molto simile a quello della Germania e della Francia. Cresceva parallelamente la pressione fiscale che nel periodo 2006-2009 è stata pari al 43% del Pil, dopo essere stata vicina al 40% nel 1995 e al 42 nel 2000; un dato questo, che favoriva la formazione di avanzi primari. Tese a ridursi di conseguenza il rapporto debito-Pil che arrivò al 103 per cento nel 2004, rimanendo a livelli simili fino al 2007. Non diminuiva invece la massa del debito complessivo perché il basso costo del suo finanziamento non venne utilizzato in maniera incisiva per la riduzione dello stock primario che salì dai 1400 miliardi del 2004 ai 1600 del 2007 in una panorama ancora caratterizzato da bassa inflazione.
La crisi del 2008 ha provocato una profonda trasformazione del quadro del debito, avviandone in modo repentino la seconda crisi, dopo quella della fine degli anni Ottanta. In questo nuovo scenario risultava determinante la fortissima concorrenza tra i vari debiti sovrani innescata dallo spostamento del carico del debito dai soggetti privati, banche e assicurazioni in primis, in direzione delle finanze degli Stati. Per reperire le risorse per i salvataggi, numerosi paesi hanno fatto ricorso ai mercati internazionali, intasandoli di partite di debito che hanno scatenato un rialzo dei tassi di interesse richiesti dai compratori A tale rialzo si sono associate poi colossali tendenze speculative che hanno aggravato il fenomeno con la conseguente dilatazione degli spread, dei differenziali in termini di tassi di interesse fra paesi più fragili e più indebitati e paesi più solidi. Davanti ad un simile fenomeno, la protezione della moneta unica non è bastata più e il debito italiano ha ripreso a correre di nuovo per effetto del costo degli interessi che sono passati dai 40 miliardi di euro del 2007 ai 70 del 2010 e ai circa 80 del 2011. Il debito è tornato ad essere così il 106% del Pil nel 2008, il 116 nel 2009 e il 120 nel 2011, per un ammontare totale vicino ai 1900 miliardi di euro in un panorama dell’Eurozona dove il rapporto debito-Pil è cresciuto ancora maggiormente passando dal 70 per cento del 2008 all’88,6 del 2011.  
 
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