mercoledì 20 giugno 2012

Il debito pubblico italiano - prima parte -



Note storiche sul debito pubblico italiano
Il debito pubblico italiano dall'Unità d'Italia al secondo dopoguerra


 - prima parte -

del
Prof. Alessandro Volpi
(Università di Pisa)


Un paese storicamente indebitato, questa la formula sintetica che riassume una vicenda plurisecolare. Tracciare una breve storia del debito pubblico italiano può essere molto utile per cogliere alcuni elementi che hanno spesso caratterizzato e condizionato la vita del nostro paese, consentendo al tempo stesso di capire meglio la peculiarità specifica, e drammatica, del quadro attuale.
Una definizione del debito.
In primo luogo è necessario fornire una definizione del debito pubblico, che può essere costituita dalla somma delle passività nelle seguenti categorie di strumenti finanziari: 1) biglietti, monete e depositi, 2) titoli diversi dalle azioni, con esclusione degli strumenti finanziari derivati, 3) prestiti.
In realtà, all’inizio della vicenda del debito pubblico italiano esisteva un’articolazione interna di tale aggregato composta dal debito consolidato - che rappresentava un debito di fatto irredimibile per cui lo Stato si impegnava a pagare gli interessi, riservandosi la facoltà di restituire il capitale se e quando lo avesse ritenuto opportuno mediante il riscatto dei titoli al prezzo corrente di mercato -  debito redimibile e debito fluttuante. Fino alla conclusione della prima guerra mondiale il debito consolidato costituì la principale componente del debito pubblico italiano (oltre il 60% contro il 40% del fluttuante) per divenire assolutamente minoritaria nel secondo dopoguerra quando il fluttuante arrivò rapidamente all’80%.
Il settore di riferimento era quello delle Amministrazioni pubbliche composte dalle Amministrazioni centrali dello Stato, diversi dagli Enti di previdenza, con l’inclusione invece di alcune aziende di Stato, come le Ferrovie, i Monopoli di Stato, le Poste e telegrafi, i Servizi telefonici, dalle Amministrazioni locali, comprese le Camere di Commercio, le Asl, le Università, gli Enti di previdenza e di assistenza.
Il periodo post unitario. Dai debiti pregressi alla crisi di fine secolo.
La prima fase di vita del Regno d’Italia, quella degli anni della Destra e della Sinistra storica, dunque fino al 1887 ha visto il riconoscimento dei debiti pregressi degli Stati preunitari con l’istituzione nel luglio 1861 del Gran libro del debito pubblico ad opera del ministro delle Finanze Pietro Bastogi, a cui si sarebbe aggiunto il riconoscimento del debito del Veneto nel 1866 e dell’ex stato pontificio nel 1871. La ragione di tale scelta, di riconoscere i debiti pregressi, era di ordine politico ed economico. In termini politici lo Stato italiano era troppo fragile per poter permettersi una cancellazione dei debiti preesistenti, peraltro in parte in mano della alta banca francese che aveva avuto un ruolo importante nel finanziare Napoleone III, principale alleato del Regno di Sardegna, e del conte di Cavour. In questo senso alcuni osservatori, sulla scorta di quanto aveva scritto Francesco Saverio Nitti, videro nel riconoscimento da parte del neonato Regno d’Italia dei debiti pregressi un chiaro beneficio a favore proprio dell’ex Regno di Sardegna che aveva un carico debitorio assai maggiore rispetto ad altri Stati italiani, come il Regno delle Due Sicilie (oltre il 57% del nuovo debito italiano proveniva dal Regno di Sardegna conto il 29,4 del Regno delle Due Sicilie). In termini economici il riconoscimento dei debiti pregressi, oltre che semplificare la gestione dell’indebitamento preesistente se non fosse stato cancellato, consentiva al nuovo Regno di continuare ad avere accesso al mercato internazionale del credito. Una prima considerazione in questo senso appare opportuna: la cancellazione dei debiti pregressi, contratti da dinastie regnanti che erano state detronizzate, e dunque illegittimi e non dovuti da parte del nuovo Stato italiano – come rimarcarono in quegli anni numerosi esponenti del mondo democratico –, non fu portata a termine perché la Destra storica, e non solo, riteneva un simile atto destinato a privare il debito italiano di compratori esteri.
Del resto il collocamento dei titoli sul mercato era reso necessario da alcuni dati che sarebbero diventati strutturali nel corso del tempo.
l’incapacità delle entrate correnti di coprire le spese correnti; una copertura che fino al 1887 raramente superò il 50% a testimonianza di una scarsa incisività dell’azione fiscale, secondo un modello già concepito da Cavour per cui era meglio far crescere il debito piuttosto che il carico fiscale. Neppure l’introduzione della tassa sul macinato riuscì ad invertire in maniera determinante questa tendenza.
La forte crescita della spesa pubblica, dettata in questa fase, ed anche nei successivi anni della Sinistra storica, dalle spese per le ferrovie, nonostante il regime privatistico delle concessioni, dalle spese di guerra, delle spedizioni coloniali e dai salvataggi di numerosi enti locali travolti da bancarotte in genere legate ad operazioni edilizie.
Il peso degli interessi sul debito che incontrava significative difficoltà ad essere collocato rispetto al debito pubblico inglese, nei confronti del quale pagava uno spread di oltre 700 punti. La massa degli interessi era in gran parte pagata – circa il 75% - a Parigi e a Londra, a conferma del ruolo decisivo dei compratori esteri.
La più generale volontà di utilizzare il debito come lo strumento per garantire il consenso all'azione governativa, evitando di utilizzare la leva fiscale soprattutto per porre in essere iniziative non gradite all'opinione pubblica.
In questa fase il rapporto tra debito - salito da 1,7 milioni (in euro al 2002) del 1861 ai 6,5 del 1887 - e Pil passò dal 45% nel 1861 al 96% nel 1870 per scendere intorno al 70% negli anni immediatamente seguenti e per risalire con estrema rapidità ben sopra il 90% a metà anni ottanta e a raggiungere il 104% nel 1887. Di fronte a simili difficoltà lo Stato italiano cercò di porre in essere alcune strategie di risposta. In primo luogo adoperandosi per lo sviluppo di un mercato finanziario che avesse la prerogativa di collocare i titoli del debito italiano, inizialmente venduti solo nelle principali Borse estere. In questo senso esiste uno stretto nesso fra la nascita delle borse italiane e il debito, un legame decisamente più forte rispetto a quello che si manifestò in altri paesi, così come, nel caso italiano, fu particolarmente marcata la concorrenza che l’alto rendimento dei titoli di Stato  - 7-9% in media in questa fase - esercitò nei confronti degli impieghi azionari ed obbligazionari. In secondo luogo, lo Stato italiano decise fin da subito di “premiare” fiscalmente i titoli di Stato, garantendo loro un regime di privilegio, e rendimenti, appunto, significativamente alti anche attraverso prezzi di vendita molto bassi: un titolo con un valore nominale pari a 100 veniva venduto a 70. In terzo luogo, un posto centrale era riservato al sistema bancario, che fu indotto a più riprese a comprare titoli di Stato e ad accettarli come collaterali di garanzia per concedere prestiti. Nello specifico delle Casse di Risparmio, poi, l’acquisto di titoli emessi dagli Enti locali costituiva di fatto il core business principale. Infine, fu decisiva la politica monetaria che fin dall’inizio della vita dello Stato italiano si indirizzò, attraverso le banche di emissione, ancora spa private, a comprare partite importanti di debito, in alcuni momenti, come dopo l’introduzione del corso forzoso, utilizzabile anche per pagare le imposte e le tasse. Restò sempre determinante anche il ruolo dell’inflazione, le cui periodiche esplosioni, ebbero la capacità di ridurre artificiosamente il debito e quindi di migliorarne lo stato di salute, pur in condizioni di criticità economica. Non deve certo essere trascurato neppure l'imponente introito derivante dalla vendita dei beni del patrimonio ecclesiastico e demaniale che coinvolse per circa la meta' del totale terreni ed immobili posti nelle regioni meridionali. Gli anni compresi tra il 1887 e la fine del secolo non videro significativi cambiamenti nella gestione complessiva del debito anche se le spese statali furono in parte ridotte così da generare in alcune annate un avanzo primario. La dinamica negativa del debito dipendeva però dalla caduta del prodotto interno lordo e dal costo degli interessi che salirono rapidamente risultando quasi sempre più alti, in tale fase, rispetto ai livelli di crescita del paese. Il rapporto debito pil rimase così per tutti gli anni novanta intorno al 110 per cento, con una punta massima del 116 nel 1897, dopo il disastro di Adua e l'avvio della crisi di fine secolo, a dimostrazione evidente del legame già molto stretto tra dinamiche del debito e instabilità politica. In termini quantitativi, il debito, per quanto ai limiti della sostenibilità, era ancora di poco superiore agli 8 milioni di euro.
Una temporanea sostenibilità e poi di nuovo il baratro.
A queste criticità fu posto parzialmente rimedio nel periodo giolittiano con una serie di misure di gestione del debito assai efficaci che poterono poggiarsi anche su una sensibile ripresa dell'economia nazionale. A prezzi 1938, per usare un'unita' di misura omogenea, il pil era cresciuto del 2,5 per cento nel periodo compreso tra il 1885 e il 1897 mentre crebbe del 58 per cento tra il 1897 e il 1913. Tale crescita permise il realizzarsi di una costante sequenza di avanzi di amministrazione intorno al 4 per cento annuo che non furono gravati dal costo degli interessi per le già ricordate misure di gestione del debito, il cui obiettivo fu appunto la riduzione degli interessi e l'allungamento della durata del debito italiano. Cosi tra il 1902 e il 1906 vennero realizzate alcune importanti operazioni di "conversione della rendita" che di fatto ristrutturarono gran parte del debito pubblico in maniera forzosa abbattendone i tassi di interesse al 3,5 e allungandone le scadenze: una vera e propria scelta unilaterale da parte del Tesoro che non pagava gli interessi promessi all'atto d'acquisto dei titoli e non rispettava i tempi previsti per il rimborso. Una simile forzatura fu resa possibile dal fatto che nel corso di quella fase si era realizzata una vera e propria " nazionalizzazione" del debito tanto che oltre il 90 per cento del debito italiano era in mani italiane: un fenomeno in larga misura connesso con le gigantesche rimesse degli emigranti che avevano scelto i titoli di Stato italiani come principale fonte di impiego dei loro risparmi. Grazie a tale "nazionalizzazione", gli spread sul debito inglese scesero a circa 300 punti e il rendimento al 3 per cento dei titoli italiani raffreddò la loro capacità di fare concorrenza ai titoli azionari ed obbligazionari, così da permettere il primo costituirsi, attorno alla neonata Borsa di Milano, di un mercato finanziario. Allo scoppio della prima guerra mondiale, il debito aveva raggiunto i 10 milioni di euro, con un rapporto debito-Pil che era crollato al 70 per cento, nonostante le spese sostenute per il conflitto in Libia. E' evidente che nel momento in cui gli interessi sono scesi per effetto della presenza di un debito nelle mani degli italiani con una dipendenza minima dai mercati internazionali la sostenibilità dell'indebitamento è divenuta possibile. La partecipazione alla prima guerra mondiale ebbe effetti devastanti per il debito italiano, portando il rapporto tra debito e Pil al 99 per cento nel 1918 e poi alla vertigine del 1920, quando raggiunse il massimo storico del 160 per cento.  Questa esplosione, inizialmente contenuta dal sostegno finanziario degli alleati e dalla crescita del Pil conseguente allo sforzo bellico, avvenne nell'immediato dopoguerra per effetto della smobilitazione produttiva che segnò una caduta del reddito nazionale del 20 per cento e il determinarsi di disavanzi primari del 20 per cento rispetto allo stesso reddito. In tale contesto i titoli italiani furono oggetto di speculazione che trascinò i rendimenti al rialzo e contribuì ad aggravare la crisi delle banche, private della possibilità di finanziarsi a causa proprio della feroce concorrenza dei titoli di Stato. Per tentare di arginare il dissesto, il governo Nitti e poi quello di Giolitti introdussero alcune misure che avrebbero dovuto aumentare le entrate, adottando in particolare la nominatività dei titoli azionari e varie imposte patrimoniali che non riuscirono tuttavia ad arginare i tassi di interesse sul debito. Il problema vero era costituito dal fatto che durante la guerra la copertura delle spese correnti mediante i tributi crollò a meno del 20 per cento e le misure fiscali adottate puntarono a fare troppo rapidamente cassa, colpendo la stessa base imponibile. A pesare poi era il limitatissimo aumento del reddito disponibile, unito alla diminuzione della domanda interna e degli scambi internazionali. L'impennata dei tassi si legò anche alla necessità di collocare partite crescenti del debito italiano all'estero, in particolare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, con l'effetto di portare l'indebitamento estero ad un valore cinque volte superiore a quello delle esportazioni. Nel 1922 il debito estero eguagliava di fatto il debito interno.
L'avvento del fascismo vide il rapido smantellamento delle misure fiscali introdotte da Nitti e Giolitti, combinate con una drastica riduzione delle spese per i consumi pubblici, conseguente alla contrazione dell'intervento dello Stato. Questa azione consentì nel 1924 il raggiungimento di un avanzo di bilancio, ma il debito continuava a crescere soprattutto per la creazione, proprio nel 1924, dei buoni postali fruttiferi che pagavano il 6 per cento per una durata trentennale. Per tentare di riportare il debito sotto controllo, nel momento stesso in cui la scelta deflazionistica di Quota Novanta eliminava i correttivi permessi dall'inflazione, il nuovo ministro Giuseppe Volpi procedette da un lato alla rinegoziazione dei debiti esteri, che si tradusse nella loro sostanziale cancellazione, e dall'altro ad alcuni prestiti forzosi, a cominciare dal Prestito del Littorio del 1926, destinati ad allungare le scadenze e ad abbattere gli interessi: due misure che impedirono per almeno 10 anni al governo italiano di tornare sul mercato dei titoli pubblici. In queste condizioni in valori assoluti il debito passò da 91 milioni di euro nel 1920 a 103 nel 1924 per scendere a 56 milioni nel 1933. In relazione al Pil, il debito rimase sopra il 140 per cento fino al 1924 per scendere al 72 per cento nel 1931 e tornare a salire all'88 per cento nel 1934, quando il governo Mussolini procedette ad una nuova ed ancora più pesante ristrutturazione del debito imposta dalle pessime conseguenze della deflazione monetaria, iniziata con Quota Novanta, che fecero precipitare le entrate statali, ridotte dal fascismo anche per ragioni consenso. La guerra in Etiopia scatenò nuovamente la sequenza dei disavanzi che vennero coperti, di fronte al crollo delle entrate in grado di garantire solo il 20 per cento delle spese correnti all'inizio del secondo conflitto mondiale, con una forte produzione di carta moneta e con nuovi prestiti obbligatori i cui effetti furono molto dannosi per il reddito di buona parte degli italiani. Anche la riforma della Banca d'Italia, avvenuta nel 1936, contribuì a facilitare il finanziamento del debito e del Tesoro che chiedeva anticipazioni garantite dai medesimi titoli di Stato.
 
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