mercoledì 4 luglio 2012

Tradimento e massoneria


(Il Timone Giugno 2012) Di Angela Pellicciari
C’è un aspetto della storia di cui raramente si parla: il tradimento. Il tradimento che, in guerra, rende possibili vittorie improbabili e regala sconfitte impreviste. Tradimento per interessi personali o ideologici o di entrambe le nature, che spinge alcuni ad agire contro la patria in favore del nemico. L’epoca moderna, a partire dalla rivoluzione protestante, ci offre un’infinità di casi da manuale di tradimenti dagli effetti devastanti per le popolazioni che ne sono vittime.
Mi ha dato lo spunto di parlare di tradimento una recensione di Luciano Canfora del libro I dieci errori di Napoleone di Sergio Valzania. Scrive Canfora: “Valzania non è insensibile alla tematica del «tradimento», all’interferenza cioè di questo micidiale fattore, non sempre percepito dagli storici nella sua rilevanza, e considerato piuttosto come un condimento romanzesco della ricerca. Si tratta della questione del mancato arrivo di Grouchy, e della sua colonna nel momento cruciale della battaglia di Waterloo”.
Nelle letture a tappeto che ho fatto su risorgimento e massoneria nella biblioteca della Civiltà Cattolica, ho avuto sotto mano molti testi che documentano come le mirabolanti vittorie di Napoleone e, al converso, le sue sconfitte, siano dipese, anche, dal tradimento di massoni che, sparsi nelle varie corti d’Europa e nei vari eserciti in posizioni di potere, hanno tradito i propri sovrani in nome degli “ideali” della fratellanza, antimonarchici ed anticattolici.
A questo riguardo mi piace citare un testo dimenticato, che ho scovato letteralmente mangiato dai topi, scritto da Luigi Parascandolo che si definisce “sacerdote napoletano”. Nel suo La Frammassoneria in questo ultimo decennio (Napoli 1880), Parascandolo racconta come “le orde repubblicane” entrarono senza colpo ferire in Belgio, Olanda, Savoia, Magonza, Treviri, Spira, Worms e Francoforte “Per una lunga serie di tradimenti”, perché “in tutti i paesi del Reno, i massoni tradirono la loro patria tedesca”. I francesi conoscevano in anticipo i piani di battaglia e le strategie difensive, mentre i generali tedeschi non davano ordini al momento opportuno o eseguivano male quelli dati e si arrendevano senza sparare un colpo. Succede così che “Milizie agguerrite, che poco prima avevano dato saggio di bravura, all’improvviso si mostravano come divenute impotenti, ed i generali sembravano ciechi”.
Un esempio per tutti: il caso del generale Mack, artefice della sconfitta dell’esercito napoletano di quarantamila uomini contro seimila francesi, fuggito a Parigi e nondimeno incaricato da Francesco II d’Austria del comando di vari reparti “tutti battuti presto e bene”, fino a che “chiusosi in Ulma con trentamila uomini, lasciò passare a Napoleone il Danubio, e capitolò il 15 ottobre, senza colpo ferire con tutto il suo esercito intatto”.
Sconfitti tutti i regni, posti suoi familiari e amici a capo delle nazioni un tempo cristiane, Napoleone firma un concordato con la chiesa ed acquista un’autonomia impensata, simile alla “tirannide”. Succede così che, all’improvviso, le sue meravigliose qualità militari svaniscano: male informato, male obbedito dai generali, “nei momenti decisivi vedevasi privato del soccorso di numerosi corpi di Milizie”.
“Nel momento del pericolo –scrive il ‘sacerdote napoletano’- egli fu abbandonato e tradito da quelli che aveva beneficato grandemente”: Parascandolo fa il nome dei cospiratori antibonapartisti, i più noti dei quali, al giorno d’oggi, sono Gilbert Motier de La Fayette e Benjamin Constant. Cosa era successo? “Non più tornava conto alle logge il dispotismo napoleonico”: Napoleone era diventato troppo forte e andava eliminato. Il compito affidatogli era stato svolto: uno stuolo di principi legittimi era stato spodestato. Ciò non toglie che l’imperatore, responsabile di una strage fino ad allora mai vista della gioventù di tuti i paesi d’Europa, non sia stato giustiziato, ma solo, e per due volte, esiliato.
Come mai? Il punto è che l’affiliazione, in alcune circostanze, risparmia la morte ai propri adepti. Ciò è indirettamente provato dalla vicenda di Massimiliano d’Austria diventato improbabile imperatore del Messico. Ucciso nel 1867 da Benito Juárez, i fratelli rimproverano al generale il mancato rispetto delle regole: “Massimiliano e i suoi generali furono passati per le armi; la massoneria lo rimproverò al fratello Benito Juárez perché non aveva rispettato l’affiliazione massonica dell’imperatore”, scrive Ricardo de la Cierva.
“Questa setta, che abbraccia nell’immensa rete quasi tutte le nazioni e si collega con altre sette, che muove con occulti fili, allettando i suoi affiliati con l’esca de’ vantaggi che loro procura, piegando i reggitori ai suoi disegni or con promesse, or con minacce, è giunta ad infiltrarsi in tutti gli ordini sociali ed a formare quasi uno stato invisibile ed irresponsabile nello Stato legittimo”: così scrive Leone XIII nell’enciclica Humanum genus del 1884. Il papa descrive la “libertà” dei fratelli che si ritengono svincolati da qualsiasi obbligo sociale ed obbediscono solo ai dettami dell’ordine. I massoni danno vita ad una specie di stato nello stato, uno stato sopranazionale, che ritiene di poter agire secondo le regole stabilite dall’ordine, indipendentemente dagli interessi e dai doveri imposti ai cittadini dai vari paesi di appartenenza. D’altronde al momento dell’iniziazione al grado di maestro, il venerabile fa giurare il candidato con questa formula: “prometto e giuro di non rilevare ad alcuno i segreti che mi verranno confidati […], di fortificare la mia ragione, perché tutte le mie facoltà siano d’ora innanzi sacre alla gloria e alla potenza dell’Ordine”.
In questo finto stato che i fratelli rappresentano, uno stato nascosto, celato, e quindi estremamente pericoloso per il bene comune, i “fratelli” fanno gli interessi dei fratelli. Ovunque: in guerra come nella magistratura, nell’assegnazione di incarichi, nelle decisioni governative e parlamentari. Durante il suo lungo pontificato Leone XIII non ha mai smesso di difendere il popolo cristiano dalle insidie delle sette. Che dicono una cosa e ne fanno un’altra. Che si professano tolleranti e combattono tutti quelli che la pensano diversamente, che si dicono democratici ed hanno uno spirito totalitario, che si dicono rispettosi di tutte le religioni mentre combattono a morte la fede cattolica arrivando a fare del papa un “prigioniero in Vaticano”. L’attenzione del papa è rivolta in modo particolare ai cattolici italiani: in Italia c’è Roma e quindi il papa, e le sette combattono con la massima determinazione e con tutte le armi la sede di Pietro, perché Pietro è il loro vero nemico.
Nella lettera Custodi del 1892 un papa accorato scrive: “Ispiratrice e gelosa custode delle italiche grandezze fu sempre l’Apostolica Sede. Siate dunque italiani e cattolici, liberi e non settari, fedeli alla patria e insieme a Cristo ed al Vicario suo, persuasi che un’Italia anticristiana e antipapale sarebbe opposta all’ordinamento divino, e quindi condannata a perire”.
Chissà che questo monito non sia utile anche oggi.