lunedì 3 settembre 2012

LA CIVILTÀ CATTOLICA ANNO DECIMOQUARTO Marzo 1863. LE RIVELAZIONI DI NICOMEDE

 
 
 
 
LA
CIVILTÀ CATTOLICA
ANNO DECIMOQUARTO
Marzo
1863.
 

 

 

LE RIVELAZIONI DI NICOMEDE

Una preziosa pubblicazione è stata fatta in questi giorni, la quale riesce a tutt'altro termine da quello che ne ha inteso l'Autore. Il ig. ha dato alla luce nella Rivista Contemporanea una raccolta dì documenti, per la più parte inediti, intorno alle pratiche ed ai maneggi, che ebbe il Conte di Cavour, nell'apparecchiare «d effettuare la grande opera dell'unità nazionale in Italia 1. E quantunque la prudenza non gli abbia permesso di mettere per ora fuori tutto ciò che avrebbe potuto, per non violare con imperdonabile spensieratezza le leggi supreme della opportunità
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2; nondimeno quel solo, che egli ne ha palesato, ci è più che bastevole allo scopo, per cui intendiamo parlarne. Il fine propostosi dal sig. è stato di glorificare presso gli Italiani la memoria di quell'eminente uomo di stato; ma egli è riuscito in quella vece ad imprimere sulla tomba di lui un marchio d'infamia, che niun impiastro sarà poscia valevole a cancellare. Noi non faremo altro che riportare qui testualmente alcuni degli anzidetti documenti, e ilettori giudicheranno della verità di questa nostra sentenza.
Dì ritorno dal Congresso di Parigi, il Conte di Cavour, più che mai deliberato di non indietreggiare per nulla nell'intrapreso cammino, vide benissimo che gli faceva bisogno della massima circospezione e scaltrezza.
1 Rivista Contemporanea volume trigesimo terzo, fascicolo CXII e XIII.
2 Fascicolo CXII, pag.321.
Serie V, vol.17, fase.318.42 5 Giugno 1863.
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Soprattutto gli era mestieri assicurare i Gabinetti d'Europa e tutta la genie onesta cheil movimento capitanato dal Piemonte aveva un carattere conservativo de' veri principii d'ordine pubblico, e continuava a tenersi sdegnosamente sceverato dalle macchinazioni settarie e dagli irrompimenti rivoluzionarii 1. A tal fine pigliando occasione da un interpellanza del Brofferio, il quale querelavasi che non si fosse mandalo nessun legno Sardo nell'acque di Sicilia per incorraggiarvi un moto seguilo colà per opera d'un cotal Bentivenga, il nobile Conte gli rispose in pubblico Parlamento in questa forma: «L'onorevole deputato Brofferio ci ha. fatto rimprovero di non aver mandato un naviglio in Sicilia; ma i motivi appunto che egli ha addotto per provare che avevamo avuto torto in questa circostanza, ci avrebbero consigliato a non farlo, quando fossimo stati in forse di spedire navi su quelle coste. Le nostre parole, la nostra politica non tendono ad eccitare od appoggiare in Italia moti incomposti, vani ed insensati tentativi rivoluzionarli. Noi intendiamo in altro modo la rigenerazione italiana; e ci asteniamo da tutto quello che può tendere ad eccitare simili rivolgimenti. Noi abbiamo sempre seguito una politica franca e leale senza linguaggio doppio; e finché saremo in pace cogli altri Potentati d'Italia mai non impiegheremo mezzi rivoluzionarii, non mai cercheremo di eccitare tumulti o ribellioni. Se ci fossimo proposto lo scopo, cui accenna l'onorevole Brofferio, se avessimo voluto mandare un naviglio per suscitare indirettamente moti rivoluzionarii, prima di farlo avremmo rotta la guerra e dichiarato apertamente le nostre intenzioni. Quindi, lo dichiaro altamente, io mi compiaccio del rimprovero che l'onorevole Brofferio mi ha rivolto 2.» Non vi sembra di udire un Catone che parla in un'assemblea di Senatori romani? Che desiderate di più, per esser certi che il Governo di Torino adempirà scrupolosamente i doveri internazionali cogli altri Stati d'Italia, non esclusa l'Austria che regge in Lombardia? Non ve n' è sufficiente guarentigia l'onorata parola del primo Ministro d'un Be, che per antonomasia si chiama galantuomo, e parola data solennemente nell'Assemblea dei rappresentanti del regno, e fatta trombare ai quattro venti dalle cento bocche della stampa giornalistica? Benissimo; dalle parole passiamo ora ai fatti.
1 Fascicolo CXIII, pag.8.
2 Atti Ufficiali della Camera dell'anno 1857 n.12, pag.41.
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Il dignitoso Conte comincia dall'eccitare e promuovere il malcontento dei popoli contro l'Austria e gli altri Principi italiani, facendo insieme intendere l'appoggio che quelli avrebbero trovato nel Piemonte. «Continuò a farsi pubblico accusatore del Governo austriaco; di nuovo affidò all'inappellabile tribunale dell'opinione della civile Europa le legittime doglianze della nazione italiana; in pari tempo lasciando abbastanza chiaramente intendere a quanti sulla patria terra s'agitavano nel santo desiderio di liberarsi dalla servitù straniera o domestica, che il Piemonte e il suo Re erano deliberali di continuare nell'assunto uffizio dell'egemonia italiana 1.» Rinfocolali così gli animi per conto proprio, chiamò ad aiutarlo nella santa impresa la stampa. «Incoraggiò la stampa italiana a continuare nelle sue querele contro le austriache prepotenze e i pessimi governi dei principi vassalli dell'Impero 2.» Imperocché «uno dei cardini della sua politica era questo, sono sue parole: che non vi è rivolgimento politico notevole, non vi è grande rivoluzione che possa compiersi nell'ordine materiale, se preventivamente non è già preparata nell'ordine morale, nell'ordine delle idee 3.» Per aver poi docile il Parlamento «in breve aduggiò quella levata di retrivi e di clericali» onde l'avevano ingombrato le elezioni riuscitegli avverse 4. Si diè quindi a stancare la pazienza dell'Austria per ridurre «più prontamente al suo attuamento uno degli occulti disegni della politica del Conte di Cavour, quale era quello di sospingere l'Austria a rompere ogni legame di buon vicinato col Piemonte e a far persuasa l'opinione pubblica che inevitabilmente maturavasi in Italia un violento scioglimento di cose 5». Predisposto il terreno, credette finalmente di poter mettere mano all'opera, ed eccolo al celebre colloquio di Plombières. Una sua lettera al Marchese Villamarina, mostra come egli avesse impetrato da Napoleone III di mettere almen costui a parte dei segreti maneggi .
1 Fascicolo CXIII, pag.3. - 2 Ivi, pag.10. - 3 Ivi, pag.16. - 4 Ivi, pag.12. - 5 Ivi..
6 Ecco il brano di detta lettera: J'ai insisté avec énergie auprès de l'Empereur pour être autorisé à vous mettre ou courant de nos secrets. L'Empereur v a consenti. Ivi pag.18.
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E perciocché in quel colloquio erasi convenuto che la Francia accorrerebbe colle armi, ma a condizione che l'Austria fosse la prima ad aggredire il Piemonte; il Cavour si diè ad usare ogni maniera di mezzi per ridurre il Gabinetto di Vienna alla disperazione, sicché cadesse nel laccio. «Rinfocare viemeglio cotesta avversione della pubblica opinione contro il dominio imperiale in Italia, gittare l'orgogliosa Casa d'Absburgo nell'isolamento» politico, incoronare l'Austria di spine e a segno invelenirla, da trarla a passi disperati, che rendendo inevitabile la guerra facesse ricadérne la colpa sopra di essa, e così felicemente sciogliere il problema datogli da Napoleone III a Plombières, tali furono i concetti cardinali della politica operativa del ("onte di Cavour nei tre mesi, che ultimi precedettero la guerra nazionale del 1859 1.» Cercando poi le Potenze di evitare la guerra col proporre diversi partili di conciliazione, il Cavour ricorso a tutte le arti per eluderli e farli svanire. «Poiché a tirarlo nella rete tesagli, bisognava possibilmente stancare il Gabinetto di Vienna con transazioni di scarso valore e non mostrarsi riluttanti a qualunque siasi accordo; il Conte di Cavour fece all'Inghilterra e alla Prussia la proposta di una convenzione, per la quale due eserciti, austriaco e piemontese, si tenessero ad eguale distanza dalla frontiera a prevenire qualunque aggressione accidentale In tal guisa il lealissimo Ministro adempiva i doveri di buon vicinato led avverava la protesta di seguire una politica franca e leale senza linguaggio doppio.
Scoppiala poi la guerra, sua prima cura fu di stringersi in comunella coi capi del partito rivoluzionario, fingendo di esserne alieno«Quando il La Farina notificò per lettera al Conte di Cavour la fondazione della Società Nazionale, Cavour lo chiamò a casa sua, e dopo lunga conferenza gli disse: - Italia diverrà una nazione una secondo il concetto della loro società, non so se tra due o Ira venti o tra cento anni. Ella non è ministro; faccia liberamente; ma badi che se sarò interpellato nella Camera o molestato dalla Diplomazia, la rinnegherò come Pietro. - E chiuse il discorso con quel forte scroscio di risa che gli era consueto. Il La Farina rispose:
1 Fascic. CXIII, pag.18. 2 Pag.22.
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Se occorre, mi cacci vìa o mi processi; ma per ora mi lasci fare!»Nè contento di ciò, si pose direttamente in comunicazione coi rivoluzionarli dei singoli Stati.
«Al Conte Cesare Giulini, venuto nella risoluzione generosa di correre a Milano, onde presente ancora il soldato austriaco farvi proclamare il governo nazionale, scrive: - Vada, caro Giulini, in Lombardia e faccia che al nostro approssimarsi, Milano e le vicine città sorgano in modo da dimostrare alla Francia, all'Imperatore, all'Europa che siamo degni di ritornare nazione libera, forte, indipendente 2.» Ma via, coll'Austria si stava in guerra; in guerra però non istavasi colla Toscana. Tuttavolta ecco la prova del modo onde il buon Conte adempiva con essa la promessa: finché saremo in pace con gli altri Stati, non impiegheremo mai mezzi rivoluzionarti. «Al marchese Gualterio, che gli annunzia il felice esito della rivoluzione toscana, risponde per le vie telegrafiche: - Coraggio, amici, e daremo all'Italia il rinnovamento ideato dal Gioberti 3.»
Senonchè non bastava aver ribellata la Toscana al legittimo Principe, bisognava annettersela insieme coll'Emilia. Il si fa a narrare gli artifìzii, con che lo scaltro Ministro vi pervenne; fra i quali fu precipuo quello di farsi fare violenza e poi scusarsi con essa presso le Potenze di Europa. «Se egli era mastro stupendo nell'usufruttuare diplomaticamente gli avvenimenti, era eziandio abilissimo artefice nel prepararli e nello indirizzarli a servire alla sua politica ardita e sapiente. Così egli fece nello scabrosissimo negozio dell'annessione dell'Emilia e della Toscana. Di ciò è una sufficiente testimonianza la seguente sua lettera al sig. La Farina, il quale in quei giorni chiedevagli consiglio sul migliore indirizzo da darsi al lavoro della Società nazionale. - Milano,24 Febbraio 1860. Ecco il la. Chiedere risolutamente, anche risentitamente una soluzione. Ripetere che a qualunque costo, anche col pericolo di commettere qualche irregolarità, bisogna convocare i Collegi senza ulteriore indugio.
1 Pag.23. Dopo la pace di Villafranca nell'Ottobre del 1839 il Cavour scrivea al medesimo La Farina: «Venga da me a Torino all'oro antica. Se giungo lunedì, la vedrò martedì. Avrò molto piacere a ragionare con lei, del passato, del presente e del futuro dell'Italia nostra, e a ricominciare l'opera interrotta ma non abbandonata.» Pag.31.
2 Pag.27. - 3 Ivi.
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Spingere all'armamento, osservando clic il voler fare assegnamento solo sulla diplomazia è cosa assurda, non potendo essa riconoscere uno stato di cose che riposa sulla distruzione di troni, così delti legittimi, se non come fatti compiuti. Il tuono non deve essere ostile, ma però un tantino minaccioso. Non già che io abbia bisogno di pressione per andare avanti, ma mi sarà utile il poter dire che sono premuto. - Cavour.»
«Dato un maggior impulso alla manifestazione della pubblica opinione per la via, eh' egli avea prefisso di seguire, l'abile Ministro italiano se ne servì per vincere le ultime resistenze della Francia. E no, egli disse al Governo di Napoleone III, non posso assentire alle vostre proposte. Se le popolazioni dell'Emilia e della Toscana nuovamente e solennemente interrogate, risponderanno di voler formare col Piemonte una sola e grande famiglia, il re Vittorio Emmanuele II e i suoi consiglieri, quand'anche volessero, non potrebbero abdicare all'adempimento del periglioso dovere d'assentire;.giacché ove essi respingessero un tal patto di fratellanza nello stato in che si trova la pubblica opinione, l'autorità del Re s'ecclisscrebbe addirittura nella fede delle popolazioni, il suo Ministero inmancabilmente sarebbe rovesciato da un voto unanime di disapprovazione nell'aula elettiva del Parlamento, e per conseguenza la rivoluzione e l'anarchia finirebbero per prevalere l.» Così egli si creava da sè stesso quella pressione, da cui poscia dicevasi costretto; mostrando, con la prova irrepugnabile de' falli, che egli seguiva una politica franca e leale, senza doppio linguaggio. Non vi sembra magnifica una tale commedia?
Un cenno della maniera, colla quale l'egregio Conte si comportò per rispetto alle Marche e all'Umbria. Il sig. ne comincia la narrazione col riportare la seguente sua lettera, diretta al marchese Filippo Gualterio.
«Caro Gualterio
Torino,26 agosto 1860
«Mi affretto di riscontrare la vostra lettera dei 23. Consento pienamente con voi; l'ora d'agire nell'Umbria e nelle Marche s'avvicina.
1 Pag.41.
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Il Ministero è deciso non solo di secondare, ma bensì di dirigere il movimento. Onde preparate i mezzi d'azione.... V'invito perciò di portarvi a Firenze voi pure, non più tardi di domenica prossima. Giunta l'ora d'agire, saremo non meno decisi, non meno audaci del Bertani; ma all'audacia accoppieremo l'oculatezza e l'antiveggenza. Facciamo affidamento su di voi e sui buoni d'oltre confine, che mi si dice esser molti.
Vostro aff. Cavour l.»
Il Monde, parlando di questa lettera, giustamente osserva che essa congiunta alle dichiarazioni, fatte alla Camera dal Marchese Pepoli stesso, che senza il danaro spedito da Torino la rivoluzione delle Legazioni sarebbesi abortita, non lascia il menomo dubbio sopra lo spirito che ha dominato la rivoluzione delle Province pontificie, come ancora quella delle altre Province italiane 2. Ma seguitiamo la narrazione del
«Senza frapporre tempo, il Cavour) dato di mano a un appiglio diplomatico, spinse l'esercito italiano negli Stati del Papa, annunziando all'Europa meravigliala, che era per la pericolante salvezza dei più legittimi e de' più vitali interessi della comune causa dell'ordine europeo, che avea luogo quell'irrompere d'armi 3».Qui il nostro panegirista non sa contenersi dallo esclamare: «Per tal modo con mirabile destrezza, conservando sempre in un'opera essenzialmente rivoluzionaria l'aspetto, la dignità, la convenienza, la favella, l'andamento di un Governo conservatore,
1 Ivi pag.66.
2 Celle pièce jointe aux déclarations, faites à la Chambre par le marquis Pepoli lui même, que sans l'argent venu de Turin la révolution des Légations aurait avorté, ne peut laisser le moindre doute sur l'esprit qui a dominé la révolution des Provinces pontificales, aussi bien que des autres provinces. N.138 22 Mai 1863. E questo spiega altresì ciò che venne accennato, in un dispaccio del sig. Thouvenel; cioè che se il Generale Cialdini ebbe a Chamberì la facoltà d'invadere le Marche e l'Umbria e se ne valse senza curarsi del divieto significatogli dall'Ambasciatore francese a Roma, ciò avvenne perché l'Imperatore Napoleone supponeva certo lo scoppio d'una generale insurrezione.
3 Pag.66.
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il Conte di Cavour giungeva a far accettare dall'Europa, come un rifugio ed una salvezza contro la demagogia, una impresa, la quale violentemente lacerava trattati, che facevano parte del diritto pubblico europeo 1.» Vedete se il celebre Conte non avea ragione di protestare solennemente che egli seguiva una politica franca e leale, senza linguaggio doppio!
Ma queste cose sono un nulla a petto della perfidia usata da lui col regno di Napoli. Questo, negli ultimi tempi di Ferdinando 11, avea rotte le relazioni diplomatiche colla Corte di Torino, e ne avea ben d'onde. Un tale stato di cose peraltro impediva che si potesse tare nelle due Sicilie ciò che il Boncompagni avea fatto in Toscana, e ciò che il Migliorati e il La Minerva avevano tentalo di fare in Roma. Conveniva dunque assolutamente indurre il novello Principe ad accogliere ne' suoi Stati un diplomatico piemontese, che tenesse bordone alla politica franca e leale del Cavour. A lai uopo si procurò con subdole arti di persuadere la Corte di Pietroburgo, la cui autorità era grande presso quella di Napoli, a consigliare un tal passo 2.
1 Pag.67.
2 II fatto è elianto abbastanza dai due seguenti documenti:
Al Ministro degli affari esteri a Napoli.
Pietroburgo,16 Gennaio 1860.
Ebbi lettura di un rapporto del conte di Stakelberg fattomi da Gorkiakoff, nel quale è detto che la politica del Piemonte era verso Napoli di riprendere le antiche intime relazioni di amicizia. Il principe Gorkiakoff, il quale approva completamente questa politica del Piemonte verso di noi, mi ha particolarmente incaricato di rispondere a questo avance del Re di Piemonte nello stesso spirito amichevole, ciò essere indispensabile per tenere a freno il partito liberale. Il Piemonte, egli ha continuato a dirmi, vede prossimo e sicuro il suo ingrandimento, per cui non ha più bisogno della rivoluzione, e deve essere conservatore. - Regina.
Allo stesso.
Pietroburgo,13 Aprile (riservatissimo)
Il principe di Gorkiakoff mi ha letto un brano di un lungo rapporto del conte di Stakelberg che gli narrava una conversazione tenuta col Re di Sardegna. Il Re, diceva egli, avergli parlato a cuore aperto; essere stato lui che aveva impedito qualunque moto rivoluzionario in Sicilia;che il generale Cialdini, che comandava nelle Romagne, aveva avuto ordine di rispettare
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la tranquillità della Venezia e delle Marche, a meno di una intervenzione del Re di Napoli, che egli, il Re di Piemonte, aveva consigliato il nostro Re di mettersi d'accordo con lui, ma che i suoi consigli non avevano avuto alcun buon effetto, che per tal motivo il Granduca di Toscana aveva perduto i suoi Stati, ed il Papa le Romagne, e che se lui era stato scomunicato la sua coscienza non gli rimordeva.
Dopo questa lettura, il Principe calmo e soddisfatto, mi disse: Après ce que vous venez d'entendre, que puis je écrire à Turin? Le Roi me parait un homme loyal, et je crois que voire Roi fera il bien de se mettre d'accord avec lui. - Regina. - Ivi pag. 41.
1 Pag.46.11 con singolar candore aggiunge: «Quando si è detto pertanto che la monarchia prese parte all'impresa dell'Italia meridionale soltanto tardi, spintavi dalla necessità e dalla voglia di mettere il piede sul collo alla vittoriosa democrazia, si è affermato cosa né vera né giusta. £ in ordine poi al valutamento morale di tale compartecipazione, fatta al coperto della più squisita simulazione, giacché non potevasi fare altrimenti senza comprometter tutto, importa non perdere di vista le peculiari condizioni in che allora si trovava l'Italia.» Pag.47.
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promessa del generale Garibaldi, che nel caso di un serio sollevamento in Sicilia egli si porterebbe a prenderne la direzione. Abbisognavano uomini, armi, navi e danari. Italiani d'ogni classe, volenti Italia e Vittorio Emmanuele, accorsero da ogni parte all'animoso appello del generale Garibaldi. Il quale giudiziosamente vedendo la convenevolezza di raggruppare sotto la sola sua direzione gli apparecchi per le progettale spedizioni, stando egli a Quarto nella villa Spinola, fece chiedere a Giuseppe La Farina se voleva assentire a ciò. L'intendersi fu pronto, e per tal modo vennero posti a disposizione del generale Garibaldi gli efficacissimi mezzi di «he disponeva la Società nazionale, fra i quali certamente non doveva calcolarsi per ultimo la segreta cooperazione del Governo di Torino. Garibaldi ben comprese l'utilità grande di siffatto concorso, laonde al La Farina, insistente per accompagnarlo in Sicilia, persuase di rimanere a servire d'intermediario tra lui e il conte di Cavour.
«La direzione dell'ordinamento e degli apparecchi della prima spedizione vennero affidati a Nino Bixio. Con quella indomabile energia di volontà, di mente, ed operosità instancabile, che a lui sono proprie, egli giunse a superare moltissime difficoltà. Ma all'imbarco delle armi non potò provvedere da solo; gli venne in aiuto la mano del Governo. L'avvocato Fasella, che allora era uno degli ispettori della questura di Genova, aiutò con due suoi agenti il trasporlo dei fucili sul mare. Se in tanto e sì manifesto tramestìo d'uomini e di cose nel porlo di Genova, di barche cariche d'armi e di munizioni dirette verso la Foce e a Quarto, le autorità governative locali non videro né seppero nulla, benché fosse appariscente il vigilare severo allo sbocco della Polcevera e al lido di Cornigliano, torna ridicolo pensarlo e dirlo, non fu per paura o per impotenza ad agire contrariamente, ma sì perché Giuseppe La Farina erasi portato a. Genova, munito d'alcune parole scritte dal conte di Cavour all'Intendente di quella città. Compiuta felicemente la prima spedizione, divenne urgente il bisogno d'aver armi in pronto per fornirne le altre spedizioni che si stavano apparecchiando. Per ordine espresso del Governo di Torino dall'arsenale di Modena vennero estratti fucili, e consegnali a Genova a coloro che ne difettavano. Armi e munizioni da guerra ebbero dal conte di Cavour le due spedizioni capitanale da Modici e da Cosenz.
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Non potendo il Governo di Torino riconsegnare al generale Garibaldi i fucili allogati negli arsenali dello Stato, per sequestro anteriore, senza incorrere in qualche responsabilità troppo grave, comperò quelle medesime armi e consegnò il danaro ai signori Finzi e Bezzana, che cosi poterono provvederne altre per condurre innanzi l'impresa siciliana. Se la flotta partì da Genova con l'incarico apparente di tagliare la via allo sbarco dei volontarii sulle costiere siciliane, il conte Persano teneva un viglietto di mano del conte di Cavour nel quale stava scritto: Signor Conte, vegga di navigare fra Garibaldi e gli incrocicchiatori napoletani, spero che mi avrà capilo. Alle quali parole l'audace capitano di mare, degno figlio del sempre ardito Piemonte, aveva risposto: Signor Conte, credo d'averlo capilo, dato il caso, ella mi manderà a Fenestrelle 1.» Tutto questo si faceva dal Cavour per mantenere la promessa, data sì solennemente, che finché fosse in pace cogli altri Potentati d'Italia, non si sarebbe mai valuto di mezzi rivoluzionarii. Ma era necessario dar pruova anche dell'altra, che la sua politica era franca e leale senza linguaggio doppio. Intorno a questa pruova, ecco quello che ci riferisce il nostro Nicomede Bianchi:
«La cooperazione del Governo di Torino apportala più o meno direttamente alla spedizione ardimentosa del generale Garibaldi, non sfuggi agli occhi della diplomazia. Il dispaccio spedito per le vie telegrafiche agli agenti diplomatici della Corte di Napoli all'estero dal ministro Carafa per dare avviso dello sbarco dei Garibaldini a Marsala, era concepito in questi termini: - Malgrado avvisi dati da Torino, e promesse di quel Governo d'impedire spedizione di briganti organizzali ed armali pubblicamente, essi sono partiti sotto gli occhi della squadra sarda; sbarcali ieri a Marsala. -
«Dica a cotesto Ministero tale alto di selvaggia pirateria permesso da Stato amico. - Carafa 2.»
Nino Bixio collega del Garibaldi nella spedizione dei mille, cosi parlò del Persano nella seduta parlamentare dell'8 Maggio: «Quando noi eravamo a Palermo (mi rincresce che debbo dire cose che dovrebbero forse rimanere un po' più nel silenzio, ma poiché si citano fatti, io delibo contrapporre altri),
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quando noi dico eravamo a Palermo, ebbi incarico più volle di andare dal vice ammiraglio Persano per cose che erano abbastanza delicate e difficili; giacché, sapendosi, si sarebbero scoperti gli aiuti che si ricevevano dal Governo, equesto poteva nuocere all'andamento delle cose. Il Persano che pure avrebbe potuto essere sconfessato da un momento all'altro, le prendeva sopra di sé e le faceva con coraggio. Mi ricorda come nella spedizione del Medici egli mandò bastimenti a scortare, e fece tutto quello non solo come un soldato, come un ammiraglio, ma come un patriotta che si giuoca la sua posizione 1.»
Tutta la diplomazia europea, tranne l'inglese, si commosse a lai maniera di operare, che l'Imperatore delle Russie qualificò coll'epiteto d'infame 2. E il conte di Cavour? «Alle protestazioni, alle recriminazioni acerbe che l'Europa governativa gli voltò contro, egli con maestrevole dissimulazione oppose l'impossibilità, in che trovavasi il Governo italiano di gittarsi attraverso ad un' impresa, indirizzata contro un Governo incorreggibile. Con quale buon diritto, diceva egli, si può chiamare in colpa la Sardegna di non aver impedito lo sbarco di Garibaldi, mentre l'intiera marina napoletana era stata impotente a ciò 3?» Nell'atto poi che così si scusava presso le Corti, si affrettava a menar a termine l'impresa, prima che le trattative diplomatiche potessero recare qualche aggiustamento. «Secondo egli allora pensava, bisognava non lasciar tempo al Governo borbonico d'avvantaggiarsi delle pratiche diplomatiche, che esso aveva posto in corso, onde per mezzo di una possente mediazione fermare la rivoluzione nella Sicilia.11 miglior modo di sventare tale disegno naturalmente era quello d'accelerare il movimento, prima che le trattative dei gabinetti delle varie corti si assodassero. Egli è pertanto cosi lontano dal vero che il conte di Cavour abbia cercato con ogni
1 Vedi l'Opinione 15 1863.
2 Le parole dello Czar furono queste: C'est infame, et de la pari its Anglais aussi. .32. Si sa come gì' Inglesi proteggessero anch'essi col loro naviglio lo sbarco del Garibaldi. È una delle sozzure, onde quella nobile nazione s'imbratta sotto l'indirizzo del Palmerston, del Russell, del Gladstone e compagni.
3 Pag.52.
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mezzo d'opporsi al passaggio del generale Garibaldi sul napoletano, ch'egli invece sollecitavalo a ciò fare per le sovrammenzionate ragioni, oltre a due mesi prima del giorno in cui realmente l'ardito capitano vi pose il piede. La seguente lettera attesta ciò in modo irrefragabile.
«Al signor La Farina a Palermo.
Torino,19 Giugno 1860.
Ho ricevuto la sua lettera del 12 e 14 andante. La conservo come documentato storico. Quello che accade, Ella l'aveva previsto, ed è un bene.... Persano gli darà tutto quell'aiuto maggiore che egli potrà, senza però compromettere la nostra bandiera.
Sarebbe un gran bene se Garibaldi passasse nelle Calabrie.
Sto concertando un servizio di vapori diretto da Genova e Livorno per Palermo sotto bandiera francese. Forse sarà necessario dare un grosso sussidio alla Compagnia. Figurerà il governo siciliano, ma all'uopo pagheremo noi.
Qui le cose non vanno male. La diplomazia non è soverchiamente molesta. La Russia ha strepitato molto; la Prussia meno. Il Parlamento ha mollo senno. Aspetto con impazienza sue lettere. - Cavour 1.»
1 Pag.53. Quest'altra lettera scritta dal Cavour al Persano, dopo la battaglia di Milazzo e. pubblicata dall'Opinione (num.113,24 Maggio 1863) prova il medesimo.
«Pregiatissimo Sig. Ammiraglio
Torino 28 Luglio 1860.
Ilo ricevuto le sue lettere del 23 e del 24 andante. Son lieto della vittoria éi Milazzo clic onora le anni italiane e contribuir deve a persuadere all'Europa, che gl'italiani oramai sono decisi a sacrificare la vita per riconquistare patria e libertà. Io la prego di porgere le mie sincere e calde congratulazioni al Generale Garibaldi.
Dopo sì splendida vittoria io non vedo come gli si potrebbe impedire di passare sul Continente. Sarebbe stato meglio che i napoletani compissero «d almeno iniziassero l'opera rigeneratrice; ma poiché non vogliono o non possono muoversi, si LASCI FARE A GARIBALDI. L'impresa non può rimanere a metà.
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«Uno degli uomini più benemeriti della democrazia italiana, il deputalo Dottor Bollerò, ebbe V incarico dal conte di Cavour di cooperare a questo passaggio de' Garibaldini sul Continente; a tal fine partì da Torino con 500 mila franchi. In appresso una eguale somma porlo in Sicilia l'egregio ex-deputato Bartolomeo Casalis. I legni da guerra Sardi ebbero pure l'incarico di aiutare tale passaggio. II resto si dirà a tempo più opportuno 1.» E tutto questo faceva il nobile Conte, mentre dichiarava all'Ambasciatore napoletano Canofari, che il Governo Sardo era totalmente estraneo a qualsiasi atto del Generale Garibaldi, e mentre teneva a bada in Torino i due diplomatici spediti dal Be di Napoli per contrarre alleanza col Piemonte 2! Né solo degl'inviati napoletani si prese giuoco, ma eziandio della Francia, allorché questa propose che si obbligasse Garibaldi ad assentire una tregua di sei mesi, guarentita dalle Potenze. «Le insistenze del ministro francese in Torino su tale proposito si fecero pressanti al segno, che il conte di Cavour a non porre allo scoperto tutto il suo sistema di dissimulazione diplomatica, dovette maggiormente avvilupparlo per qualche autorevole manifestazione pubblica, attestante che né il re Vittorio Emanuele né il suo governo esercitavano realmente qualche potente influsso sull'animo del generale Garibaldi. Frattanto l'abile ministro italiano volgevasi a lord Russell e a lord Palmerston, si serviva delle numerose amicizie validissime che aveva in Inghilterra,
La bandiera nazionale inalberata in Sicilia deve risalire il regno, stendersi lungo le coste dell'Adriatico finché ricopra la regina di quel mare.
Si prepari adunque a piantarla colle proprie mani, caro ammiraglio, sui bastioni di Malamocco e di S. Marco. Faccia pure i miei complimenti a Medici e Malenchini che si sono portati egregiamente. - Cavour.»
1 Pag.64.
2 «11 Ministro dirigente la politica del nuovo regno d'Italia, mentre era ai tutto deliberato di respingere l'alleanza proposta dal Governo di Napoli, si trovò nelle maggiori difficoltà in quanto al miglior modo di farlo, per le sollecitazioni che gli venivano fatte in proposito dalla Francia, dalla Russia e Prussia. Che se egli senza togliersi dalla sua abile politica d'aspettativa poté riuscire in tale intento, ciò avvenne a motivo che egli seppe navigare tra due scogli egualmente pericolosi con destrezza non minore di quella praticata prima della guerra del 1859 contro l'Austria.» Pag.59.
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impegnava la cooperazione del marchese d'Azeglio, quella de' più autorevoli italiani stanziati in Londra per preparare i modi d'uscire da quelle pressure senza diplomaticamente compromettersi. Quando da quel lato fu sicuro d'essersi guarentito l'appoggio cercato, il conte di Cavour dichiarò al Governo francese che i consiglieri di Vittorio Emanuele II accetterebbero la proposta di proporre al generale Garibaldi una tregua, ma sotto l'espressa condizione ché vi fosse l'immediato assenso dell'Inghilterra. Ma tale assenso sapevasi bene che non vi poteva essere, e in effetto il Gabinetto di Londra non lardò a dichiarare a quello di Parigi, che era sua ferma volontà ili non intervenire per obbligare Garibaldi a una tregua, e di protestare ove la Francia intendesse di farlo. Per tal modo la diplomazia italiana associavasi gloriosamente alle armi italiane nella splendida impresa della liberazione della Sicilia 1.»
Finalmente a corona della splendida impresa il Villamarina, degno cooperatore del Cavour, non appena il Re Francesco II si ritirò a Capua, andò a trovare i Ministri per indurli con le premure e colle minacce a proclamare la sovranità di Vittorio Emmanuele, assicurando d'esser egli di già fornito di tutti i poteri per assumere in nome di lui le redini del Governo. Così egli adempiva i doveri internazionali, strappando per conto del suo padrone la corona di fronte al giovine Principe, presso cui era accreditalo in qualità di Ambasciatore 2. Stomachevole impasto di frodi e di tradimenti!
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2 Un sì nefando attentato è messo in chiaro da una lettera del Cav. Griffi al Barone Malvica e pubblicata nell'Osservatore romano. La recheremo per intero, atteso le molto utili notizie che contiene.
«Egregio Signor Barone
«Ella, non ha guari, diè alle stampe un libretto intorno ad una Federazione italiana. Sa ciascuno com'ella abbia animo retto e leale; epperò dove altri sentisse diversamente da lei, non ne andrebbe punto offuscata la sua fama. Accoglierà per Unito benignamente una mia protesta contro certe linee del suo scritto, dettala piuttosto dal dovere, che da pensiero di contradirla. A pagina 80,ella dice:
«In Napoli eran cento mila soldati ed avvenne Io stesso miserando spettacolo, ed assai più turpe ancora. L'ugual mena agiva da per tutto, ed il
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Ma usciamo una volta da questo lezzo d'iniquità o d'ipocrisia chè non ci regge l'animo a durarvi più lungamente. Esso non è stato messo all'aperto che per una piccola parte; giacché, come ci fa sapere l'Opinione di Torino (n.143,24 Maggio), la prudenza vieta di scoprire le carte, mentre il giuoco non è terminato. Ma per coperte che restino coteste carte, esse tuttavia per quel poco che n'è
«Garibaldi entrava nella città capitale del Napoletano reame, ove sono mezzo milione d'uomini, invitato dal Municipio, che gli va incontro, gli apre iniquamente le porte, ed ei col frustino in pugno percorre le pubbliche Vie,. plaudendolo, e salutandolo il popolo: ecc.»
«Qui ella, certo senza volerlo, dà in più storici errori, cui la malignità dei nostri nemici mise innanzi per fingere al mondo il Garibaldi desiderato,, e invitato da' nostri popoli; errori ripetuti da chi v'aveva interesse, e dal volgo ignaro, ma che ora ridetti da lei potrebbero per avventura accreditarsi, e mandarsi ad insozzarne la storia delle nostre sventure.
«Io che nel 1860, aveva l'onore d'essere uno dei dodici Eletti, e però parte del Municipio di Napoli, sono nel debito dichiararle, che non mai quel Municipio si disonorò in nulla, ne mai invitò il Garibaldi. Il Reame delle due Sicilie non ebbe già cento mila soldati, ma poco meno; ed essi dai loro Generali traditi e sbandati, in cinque mesi di vane pugne e disagi, andarono in gran parte disciolti. Al Re restavano appena quaranta mila uomini, quando ingannatori consigli spinsero il buon Monarca ad uscire dalla sua città per non insanguinarla. Allora, ritrattosi al Volturno, ei lasciava in Napoli non cento mila soldati, come ella dice, ma sei mila nelle Castella; cioè il nono ed il sesto Reggimento di linea, quello di marina, e due Battaglioni, uno di Gendarmi e l'altro tredicesimo cacciatori; con ordine di non far fuoco, se non aggrediti, e stare nei forti a difesa.
«In Napoli era concorso quanto aveva di settario il mondo, tutti annali; v'era la stampa rivoluzionaria; la Guardia Nazionale scelta rivoluzionari» da traditori Ministri; questi stessi Ministri legati al Garibaldi; insomma la rivoluzione irta d'armi, ed il popolo inerme, atterrito per la non più vista catastrofe, cui non s'era lasciata altra libertà, che quella di plaudire allo straniero col titolo di liberatore. Dovrà la storia narrare le arti di quei Ministri traditori, che costrinsero Napoli a vedere quel turpe spettacolo; ma la Città non avea difesa di sorta; non di cento mila, com'ella dice, ma neppure di un soldato solo.
«lo noterò il fatto del Municipio:
«Questo per legge del 12 Dicembre 1861 era rappresentalo dall'intiero corpo di Città, cioè dodici Eletti ed il Sindaco Presidente; sicché il solo
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sindaco non era il Municipio. Ogni Eletto aveva due Aggiunti per gli affari amministrativi, i quali non aveano toga, né rappresentanza. Ora de' 24 Aggiunti, soli quattro (giovanetti) osarono dimandare al Sindaco che il Municipio si presentasse al Garibaldi; ma fur cacciati via.
«Il Municipio il dì stesso che il Re si partiva, deliberò unanime di non aderir punto alla rivoluzione. Venula la sera, il sindaco solo fu segno a tutte insidie. Chiamato dal ministero in casa del presidente, cominciavano discussioni sul da farsi, quando arrivò il Villamarina Ministro sardo, che pretendeva ad ogni costo si aderisse a Vittorio Emanuele prima ch'entrasse il Garibaldi, ed assicurava avere egli tutti i poteri per pigliare le redini del Governo, e che farebbe scendere i sardi dalle navi per mantenere l'ordine. Il ministero per iscansare la manifesta infamia, rispose si rivolgesse al sindaco presente. Costui si negò recisamente; ma alle minacce del Villamarina, che sorgerebbero barricate per le vie, e seguirebbero zuffe tra piemontisti e garibaldini, si risolse andare incontanente al generale Desauget, comandante della guardia nazionale per provvedere alla quiete. Credeva così ubbidire agli ordini del Re, il quale nella sua ultima proclamazione aveva raccomandato ad esso ed a quel generale di risparmiare alla patria gli orrori della guerra civile, onde avea lor concesse estese ed ampie facoltà. Ma il Desauget, già venduto al nemico, lo atterrì, mostrandogli un certo telegramma allora giunto, che affermava il Nizzardo trovarsi con grandi forze a Salerno pronto ad entrare in Napoli ai primi albori; però unica via ad evitare sangue nella città fosse, l'andarlo a pregare di entrar solo senza seguito di armati. E senza dar tempo a riflessioni contrarie, valendosi dell'atterrita fantasia di lui, che pingevagli la città vicina a veder sangue cittadino, preselo e menollo a Salerno, dove invece si trovò il Nizzardo senza esercito, solo in una casa. Il sindaco accortosi dell'inganno volea dare indietro, ma fu, con bei modi, trattenuto, ed ebbe ad accompagnarsi col Garibaldi nel ritorno a Napoli, sebbene posato alla stazione della strada ferrata subito s'involò. Nessun uomo di cuore credo possa lodare quella gita a Salerno del sindaco;
Serie V, vol. VI, fase.318.43 8 Giugno 1863
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En attendant, ce que nous en avons dit suffit pour faire voir que ni bonne foi, ni honnêteté, ni générosité, ni patriotisme n'ont été les traits distinctifs de celle révolution, mais l'ambition de quelques hommes, aidée de la rûte, de la corruption ci du mensonge 1. Di che nascono spontaneamente due conseguenze: l'una, che una mole fabbricala su tanto fango non può essere né prosperosa né duratura; se vuolsi aver fede nella forza de' principii morali e nella giustizia di Dio. L'altra conseguenza è, che la riputazione del Conte di Cavour ha ricevuto, come suol dirsi, il colpo di grazia presso chiunque ritiene ancora un fiorellino di onestà e di decoro.
E qui è appunto dove noi sentiamo una specie di raccapriccio e di orrore; giacché i Giornali libertini, lungi dal vergognarsi di sì fatte rivelazioni, ne menano altissimo trionfo, come di cosa da grandemente onorarsene la memoria del Conte di Cavour. L' Opinione di Torino giunge a dire che esse varranno a crescerne sempre più il culto presso gl'Italiani 2. Ciò dimostra che il senso morale in costoro è del tutto spento,
esso il ripeto non era il municipio, né ne avea ricevuto mandato di sorta. Il municipio anzi con anche il sindaco lasciò l'uffizio, né fe' pur l'atto di chiedere la dimissione all'usurpatore, il quale per primo suo atto ebbe a nominarne altro quel giorno stesso.
«Ella, signor barone, prenderà, ne son certo, in buon grado questa mia, e spero anzi rettificherà l'errore, perché niuno se ne valga a snaturare la storica verità, che nuda e bella svelerà ai posteri i turpi garbugli della rivoluzione.
«Mi creda per sempre
Dilio Amico e Servo
C. Filippo Patroni Griffi
Roma 27 Maggio 1863.
All'Egregio Signore
Il Sig. Barone Commendatore
Ferdinando Malvica.»
1 Le Monde, n.135,19 Mai 1863.
2 Ecco le parole del moralissimo Giornale: «Da documenti riferiti ben si comprende quale importanza abbia il lavoro del cav. Nicomede e
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se non anzi mutato nel suo contrario; sicché dicono bonum malum et malum bonum.
La ragione, che essi adducono, per sostenere tanta assurda maniera di giudizii morali, si è che il Conte di Cavour s'inducesse a mettere in opera quei tranelli con tanta doppiezza di linguaggio per amor della patria. Ma lasciando stare se quell'amore fosse bene o male inteso, il certo è che la turpitudine de' mezzi non può giammai essere coonestata dalla bontà del fine, comunque appreso. Onde, se il broglio, la corruzione, la menzogna, il tradimento, la frodolenza sono cose turpi per loro stesse; la pretesa escusazione dei libertini non può mai giustificare agli occhi d'ogni assennato chi ne fece arma di tutte le sue imprese. Ciò delta il buon senso e la ragione non traviata da passioni sconvolte.
Tuttavia da questo fallo delle rivelazioni del noi possiamo trarre un vantaggio non dispregevole; ed è di capire sempre più chiaramente di che fatta uomini sieno quelli coi quali trattiamo, e però doverci porre in guardia con gran diligenza per non cadere stoltamente vittima di qualche loro nuova perfidia.
come esso sia degno di essere letto attentamente da tutti gì' italiani, come quello che vale a rimettere in luce molte verità spesso negate o contrastate dallo spirito di parte, e contribuisce ad accrescere nella penisola il culto per la memoria del conto di Cavour».L Opinione n.130, 11 Maggio 1863. Si può in più cinico modo farsi beffe dei principii regolatori d'ogni onesto operare?