giovedì 6 settembre 2012

La Civiltà Cattolica, anno XXXII, serie XI, vol. VII (fasc. 747, 26 lug. 1881) Firenze 1881, pag. 302-321. R.P. Giovanni M. Cornoldi d.C.d.G. LA TEOSOFIA DEL ROSMINI (PARTE TERZA)

Antonio Rosmini

 

IL ROSMINI E I FILOSOFI PANTEISTI TEDESCHI


L'ideologia del Rosmini è viziata nella radice, perchè tutta deriva da un falsamente supposto intuito di quell'essere che non si distingue realmente da Dio e che perciò è Dio stesso. Nella essenza non punto differisce l'ontologismo del Malebranche dall'ontologismo del Rosmini; ma se vuolsi litigare sopra il nome di ontologismo, non ci prenderemo affatto il fastidio di definire la lite nè permetteremo che si tramuti in nominale una questione ch'è veramente ed essenzialmente reale. Chi poi è alquanto conoscitore delle opere del Rosmini ben vede che la Ideologia n'è la parte principale, è quasi la luce ch'entra a colorire ogni lato del suo sistema, e a darne la propria tinta. Di che viene che ancora l'Ontologia dev'essere, nel Rosmini, riprovevole e guasta, e perciò tutta la speculativa filosofia che in questi due rami potissimamente si spande. Ma c'è altra e ben più gagliarda ragione di stendere alla Ontologia quel biasimo, che, nell'articolo precedente, recammo alla Ideologia rosminiana. Infatti il saggio lettore ha già veduto nella breve esposizione storica (§ IV) della dottrina rosminiana da noi fatta, che il Rosmini dopo avere affermata l'unità dell'essere e la sua mutua insidenza nelle tre forme, propone due postulati che riguardano l'unità di Dio e la Trinità delle divine persone, e perchè si accettino ci avverte «che l'Ideologia nostra non si può dividere dall'Ontologia.» Il Rosmini ha ragione, posciachè l'essere identico è ideale, è reale, è morale; dicendo egli «l'essere nelle tre forme è identico.» Reietta pertanto l'ideologia di Rosmini, non si può far a meno di ripudiare ancora la sua Ontologia.
V'è chi è sollecito di mostrare che l'Ontologia del Rosinini è tratta dalla tedesca; ma cotesta ci sembra controversia più storica che filosofica; la quale, se non è fatta con avvedutezza, porta seco grande iattura di tempo e dà occasione agli avversarii di sofisticare e di lasciare da lato la questione principale della bontà o della reità della dottrina, in sè stessa considerata. Avvenga che fosse per noi dimostrato che la dottrina Rosminiana è tratta dalla Hegeliana; e dopo un lungo e garoso contrasto avessimo ottenuto, almeno per ciò che si attiene ai punti fondamentali, l'assentimento degli avversarii; costoro si farebbono i paladini dell'Hegel in tutto ciò che si accorda col Rosmini. Così, dopo esserci per bene annoiati nel lato storico, saremmo alle prime mosse nel campo filosofico. Adunque egli è meglio assai prendere la dottrina del Rosmini, com'ei la espone, e così richiamarla ad esame. Tuttavia noi conosciamo i desiderii dei nostri lettori, e, se non in tutto, almeno in parte vogliono essere contentati. Qualche coserella della convenienza del Rosmini coi tedeschi conviene pur dire; e per cessare da noi ogni inutile controversia, noi ci atterremo a ciò, che dice lo stesso Rosmini. Il Rosmini ci servirà di guida, e così saremo di leggieri creduti.
Afferma il Rosmini che allor quando la mente umana si schiude alla contemplazione filosofica, prova come un bisogno d'identificare tutte le cognizioni e le idee nella cognizione e nella idea dell'essere, e d'identificare tutte le cose nell'essere stesso; cioè tende a mostrare a sè medesima che nell'essere vi è unità non solo nell'ordine della cognizione, ma eziandio nell'ordine della realtà. «Giace, egli dice (vol. I, p. 188), nell'intelligenza umana il bisogno di ridurre ogni cosa ad unità. Se si considera onde nasca questo bisogno, si vedrà facilmente, che la sua origine viene da questo, che l'umana mente intende tutto ciò che intende coll'essere, e che ciò che non è essere non può intenderlo, il quale fu detto principio di cognizione. Ora l'essere, è una natura semplice ed una: e perciò la natura umana non può persuadersi, che sia qualche cosa fuori dell'essere, il che sarebbe un'aperta contradizione; tende dunque incessantemente ed aspira a ridurre tutte le cose all'essere, come ad unica e semplice natura. Ellanon tende già solamente a conseguire quest'unità nell'ordine delle cognizioni, ma anco in quello delle cose reali, perchè in queste non vede finalmente altro che essere.» Così il Rosmini presenta quello cui dice problema dell'unità dell'essere e della pluralità degli enti.
Vuolsi considerare che cotesto problema altramente fu considerato dai veri filosofi, altramente da quelli che tali non furono. Quelli chiesero a sè medesimi: come l'essere si può dire uno se gli enti sono molteplici? In questo senso, che nella mente v'è la nozione o l'idea dell'essere, ossia di ciò che è, e fuori della mente ogni ente è una similitudinedella medesima nozione od idea. Similmente nell'intelletto v'è l'idea dell'uomo e, fuori di esso, ogni uomo è simile a cotesta idea. Se non che mentre la massima parte dei filosofi propugnava la sentenza che la nozione dell'essere viene riferita al finito e all'infinito non univocamente ma analogicamente; alcuni sostenevano che a quello e a questo viene univocamente riferita, come univocamente e non analogicamente è riferita ad ogni uomo l'idea di uomo. Ma e quei filosofi e questi sostennero sempre che l'unità anzidetta di relazione di tutti gli enti ragguagliati ad una stessa nozione, non traeva seco nè l'unità dell'essere nell'ordine reale, nè l'unità dell'idea nell'ordine psicologico. Cioè, che sebbene ogni ente reale dovesse dirsi similitudine dell'idea dell'essere, tuttavia non si poteva dire un solo essere nell'ordine della realtà; a quella guisa che, sebbene ogni uomo sia una similitudine dell'idea dell'uomo, tuttavia non si può dire che nell'ordine della realtà vi sia un solo uomo. Inoltre ammettevano che l'idea o la nozione dell'essere che è in me è eguale od identica oggettivamente, o in quanto alla rappresentazione dell'oggetto, a quella ch'è in te; e sotto questo rispetto concedevano che si può e si deve dire che ogni uomo ha la stessaidea dell'essere, od anche che l'idea dell'essere è una in tutti: ma pur sostenevano che cotesta idea considerata soggettivamente, cioè in quanto è modificazione del soggetto, è molteplice, perchè ciascun uomo ha la sua. E per recare una qualche similitudine: se tu premi un medesimo sigillo sopra varia e divisa cera: in ogni pezzo di cera avrai una figura simile al sigillo. Potrai dire che la figura è identica in tutta la cera, se la prendi oggettivamente, o in quanto rappresentail sigillo; ma soggettivamente presa la figura è molteplice, perchè ogni figura è modificazione di cera distinta e divisa. Per tal maniera, oggettivamente presa l'idea dell'essere è una ed identica in tutte le menti: soggettivamente presa è molteplice secondo il numero delle menti, delle quali è soggettiva modificazione. Non accade qui dimostrare la ragione di cotesta oggettiva identità dell'idea dell'essere; altrove l'abbiamo recata togliendola dall'intelletto agente, anzichè dalla percezione od intuizione immediata dell'essere divino ideale, ovvero delle idee archetipe; che anzi abbiamo reietta questa sentenza degli ontologi quale sentenza non dimostrata, e filosoficamente e teologicamente falsa.
La prefata dottrina intorno all'unità oggettiva della idea dell'essere ed alla moltiplicità reale del medesimo, fu professata come un fondamento della filosofia peripatetica e scolastica. Ma cotale dottrina è diametralmente opposta a quella, che insegna doversi ammettere l'unità dell'essere nell'ordine della cognizione perchè ogni mente intuisce il medesimo essere ideale: e che insegna doversi ammettere l'unità dell'essere nell'ordine reale, perchè l'essere è uno e identico nelle tre forme, ideale, reale, morale. Questo è il panteismo ontologico, che ci viene offerto dal Rosmini, se pur alle sue parole debbesi dare quella significazione che loro è naturale.
Il Rosmini avvisa che la tendenza filosofica di ridurre la molteplicità dell'essere alla unità anche nell'ordine reale, incominciò a manifestarsi in Parmenide. «Forse la prima volta che questo bisogno dell'intelligenza si trasformò in un esplicito problema filosofico fu presso di noi per mezzo di Parmenide. Questo filosofo sembra averlo sciolto con un grande coraggio speculativo, ma senza coglier nel vero, poichè dichiarando che sono uno tutte le cose, non indicò come la pluralità dei concetti e de' reali a quest'uno si riducesse» (vol. I. p. 188). Di certo a sciogliere il problema nella maniera peripatetica o scolastica sopra indicata non ci voleva molto coraggio scientifico;perchè naturale n'era la soluzione e, il filosofo altro non faceva che recare a formula scientifica una sentenza conosciuta da tutti gli uomini dal principio del mondo. Per contrario di molto coraggioci volea, per non dire di molta sfrontatezza, nel solo enunciare la tesi che sono uno tutte le cose. La soluzione del problema fu ancora tentata, se badiamo al Rosmini, da Platone; guastata poi da Aristotile. Quindi di un salto il Rosmini travalica tutti i secoli che corsero da Platone ai filosofi alemanni panteisti. Sopra questi si ferma; e con ragione, poichè tutti i Padri della Chiesa, e tutti gli scolastici con S. Tommaso non si sono mai sognati di sciogliere il problema dell'unità e della moltiplicità alla maniera panteistica dal Rosmini vagheggiata.
Laonde dopo avere alla sfuggita accennato a Platone (e crediamo con poco diritto) così discorre: «Ma esso è pur uno di que' problemi, che non si dimenticano per sempre (ci voleva l'alto acume dei cervelli dei razionalisti a ricordarlo), e che ritornano a certi determinati tempi a sturbar la quiete delle intelligenze (e qui dice bene), fino che non sono sciolti del tutto. Questo problema comparve con una forza da gigante, ne' tempi moderni, allo spirito del Fichte e de' suoi due illustrisuccessori» (v. c. p. 190). Il Rosmini critica il Fichte che tutto riduce all'Io, e che non seppe giugnere alla vera soluzione del problema. Perchè «due cose capitali fuggirono alla mente di quel filosofo; l'una d'ascendere all'essere, anteriore di concetto alle forme, loro vincolo e principio d'identificazione, il quale difetto tolse unità;l'altro non aveva intesa la distinzione categorica e irreducibile della forma ideale ed obbiettiva, e della forma reale e subbiettiva. Poichè il Fichte fa, che la forma obiettiva (il sapere obiettivo) sia anch'ella un puro atto di pensare, un atto reale del subietto ioe da questo prodotto.» Cioè, il baco principale del sistema di Fichte è un po' di soggettivismo, il quale consiste nell'ammettere che il sapere sia prodotto dall'io, e però un mero suo atto. Ma oltre a ciò non seppe elevarsi al concetto rosminiano dall'essere uno e identico nelle tre forme reale, ideale, morale, distinte ed opposte tra loro, le quali nell'assoluto sono le tre divine persone, direm così, rosminiane.
«Come il Fichte, dice il Rosmini, avea cominciato a cercare l'unità nell'ordine della scienza così fece pure il suo discepolo, lo Schelling, che pubblicò a Tubinga il suo scritto: sulla possibilità e sulla forma della filosofia in generale. Il problema dell'Ontologia così posto non compariva che da un lato solo, cioè da quello dello scibile, non da quello dell'essere reale ecc...» (Vol. cit. p. 191). Nemmeno lo Schelling sciolse adunque convenientemente il problema, alla cui soluzione più assai si accostò l'Hegel. Ma prima di toccare l'abbaglio o la equivocazione dell'Hegel, il Rosmini propone la soluzione, che a lui pareva dover mettere un termine ad ogni questione.
Egli dice: «È chiaro che l'unità che si cerca, non può ritrovarsi neitermini dell'essere, perchè i primi suoi termini sono le forme categoriche, e queste sono tre e non una, e sono irreducibili; i termini poi posteriori alle categorie sono più assai numerosi. Convien dunque cercare l'unità nell'essere stesso. Ma l'essere si concepisce in più maniere, le quali si riducono a tre. Perocchè: 1° O si concepisce l'essere unito a' suoi termini, e in tal caso non è più uno, ma non si hanno che più enti o più entità; 3° O si concepisce l'essere astrattopreciso da ogni relazione co' suoi termini, e quest'essere astratto non è principio di cosa alcuna, per la stessa ipotesi dell'astrazione, e però non si può ridurre a lui come ad unità la molteplicità delle cose; 3° O finalmente si concepisce l'essere bensì inseparato da' suoi termini, ma in relazione con essi; e in questo aspetto egli può essere riguardato dalla mente in due relazioni diverse, o come quello che contiene virtualmente i suoi termini, e così lo chiamammo essere virtuale; o come iniziamento e attualità prima de' termini stessi antecedente ad essi, e così lo chiamammo essere iniziale. Col primo di questi due concetti si pensa la virtù o possibilità che ha la natura dell'essere di terminarsi in tutti i modi che non involgono contraddizione; si pensa l'esseresenz'altra considerazione se non quella della suscettività ch'egli ha di ultimarsi comecchesia. In quest'essere adunque si pensano tutti i termini, ma in potenza e non distinti. E questa è una prima unificazionedell'entità nell'essenza, un'unificazione delle entità tutte, ma nella prima loro ed unica potenzialità, non delle entità in atto. Col secondo di questi due concetti dell'essere, cioè coll'essere iniziale, si pensa l'essere come inizio di tutti i suoi termini in atto. L'essere è diviso per astrazione da' suoi termini, ma non si prescinde dalla sua relazione con questi, anzi è appunto questa relazione, che si considera in quel concetto. Questa relazione è appunto quella d'inizio e di ultimazione. Essendo i termini innumerevoli; l'essere si può ultimare in tutti questi, ma egli è sempre uno, semplice e il medesimo: non è i suoi termini, ma è il comune loro principio. Questa è dunque una seconda unificazione o per dir meglio una seconda riduzione all'unità di tutti i termini in atto.»
«I concetti dunque di essere virtuale e di essere inizialeprestano alla mente la via di soddisfare al bisogno ch'ella sente dell'unità, il primo le somministra il modo di ridurre ad unità tutti i molteplici termini dell'essere considerati nella loro potenzialità; il secondo lesomministra il modo di ridurre ad unità tutti i molteplici termini dell'essere considerati nella loro attualità. Se si considera dunque l'essere virtuale, egli costituisce la materia universale di tutte le cose: se si considera l'essere iniziale, egli costituisce la forma universale di tutte le cose. Tutte le cose dunque sono essere come materia, in quanto diventa al pensiero tutte le cose per la sua virtualità; tutte le cose sono essere come forma, in quanto ogni loro atto è essere per la sua inizialità. Ma si consideri bene che valore abbia questa sentenza, e non si prenda alla grossa. L'essere virtuale e l'essere iniziale sono due concetti dialettici della mente umana. Deve dunque intendersi unicamente che l'essere virtuale è la materia dialettica di tutte le cose, e che l'essere iniziale è la forma dialettica di tutte le cose; e non altrimenti.» «Ora che cosa vuol dire materia e forma dialettica? Materia dialettica vuol dire quella che risponde a un dato concetto dialettico, col quale la materia delle cose si conosce: forma dialettica vuol dire quella che corrisponde a un datoconcetto dialettico, col quale la forma delle cose si conosce. Il concetto dialettico è quello che non fa conoscere già un ente pieno, ma qualche cosa dell'ente diviso per astrazione dal resto sotto qualche relazione. Quando dunque si dice che l'essere virtuale è la materia universale di tutte le cose, altro non si dice, se non ciò che il concetto dell'essere virtuale fa conoscere, è la materia di tutte le cose; ma ciò che il concetto dell'essere virtuale fa conoscere, non è già un ente pieno, o l'essere terminato, e molto meno tra gli esseri terminati il più terminato di tutti ch'è l'ente assoluto, Iddio. Laonde quantunque si predichi di tutte le cose l'essere virtuale come loro materia, non è già vero che si predichi con questo Dio, perchè Dio non è l'essere virtuale, ma l'essere attualissimo; ma si predica quella natura di essere ch'è contenuta nel concetto dell'essere virtuale, il quale non fa conoscere Iddio, ma l'essere senza termini attuali che ha virtù di attuarsi, il quale non è un ente pieno, ma solo qualche cosa dell'ente, diviso dal resto dell'ente e considerato da sè.»
«Lo stesso si dica dell'essere iniziale considerato come forma dialettica universale di tutte le cose. Il concetto dialettico di forma non fa conoscere già una forma che sia un ente, e molto meno fa conoscere Iddio ch'è ente pienissimo; ma altro non fa conoscere che qualche cosa d'appartenente all'ente, diviso dal resto di esso, cosa che in tal modo separata non esiste che nella mente, cioè nello stesso concetto dialettico intuìto dalla mente umana.»
«Quando dunque si dice, che l'essere virtuale è la materia dialettica, e l'essere inizialeè la forma dialettica di tutte le cose, non si dice altro che la mente umana ha un concetto che si può predicare come forma di tutte le cose; ma non si dice mica che quel concetto rappresenti un ente, e molto meno che rappresenti Dio; ma altro non rappresenta che qualche cosa dell'ente, che separato dall'ente non è ente, e non può sussistere altro che nella mente; altro non rappresenta in una parola che l'essere precisamente come virtuale, e l'essere precisamente come inizio di tutte le cose.» (Vol. c. p. 209 e seg.). Sarebbe una vera iattura di tempo, a recare del Rosmini passi cotanto lunghi e così noiosi, se non lo facessimo per evitare le puerili sofisme de' suoi seguaci, i quali quando stretti a panni non sanno che rispondere, ti dicono che le testimonianze citate sono divulse dal contesto, nè sono messe fuori nella loro pienezza. Per certo se cotesti filosofi non si contentano della lealtà da noi adoperata, mostrano richiedere che invece di citazioni si ristampino tutti e cinque interi i volumi della Teosofia, che per poco altro non sono che una tessitura di ripetizioni delle stesse cose; poichè il Rosmini è come i cantori che una parola od una frase te la ripetono cento volte, senza recare con ciò nè utilità nè diletto. Ma perchè il lettore bene capisca il lungo tratto recato, è d'uopo ch'egli dia a' vocaboli quella significazione che loro è attribuita dal Rosmini e non già quella che è data a' medesimi dagli scolastici. La qual cosa vuol sempre essere avvertita, dacchè l'arte sofistica di certi rosminiani peculiarmente consiste nell'adoperare vocaboli ambigui, dando diversa interpretazione da quella che loro viene data da sinceri filosofi, citando all'uopo questi filosofi stessi, quasi avessero parlato nel medesimo loro senso.
Il sistema del Rosmini in ciò consiste, che l'essere in sè è uno, semplice, eterno, necessario, increato; qnest'essere ha tre termini necessarii; reale, ideale, morale: termini contingenti innumerabili, i quali a cotesti tre si riferiscono, conciossiachè ogni cosa spetta o alla categoria del reale, o a quella dell'ideale, o alla terza del morale. L'essere essenzialmente si ponee sempre si è posto (Esposizione§ IV) nei tre termini necessarii e in questi è illimitato, è assoluto, è Dio. L'essere assoluto soggettivo reale è il Padre: l'essere assoluto oggettivo od ideale è il Verbo: l'essere assoluto santitativo o morale è lo Spirito santo. L'essere nonponeessenzialmente nei termini innumerabili finiti ma contingentemente. In sè l'essere, ch'è uno, non è disgiunto dai suoi termini, nè dai necessarii, nè dai contingenti: determinato da quelli è Dio: determinato da ciascuno di questi è ciascuna cosa o ciascun ente finito. La pluralità di esseri in sè è assurda: solo v'è la moltiplicità dialettica nell'essere stesso. Ma questa paroladialettica non vuolsi prendere alla maniera scolastica. Come sopra abbiamo detto, secondo la filosofia scolastica, separiamo dialetticamente l'essere di Dio o la sua essenza dai suoi attributi, e questi tra loro; generandonel nostro intelletto concetti formali non adeguati alle cose concepite. Cotali concetti considerati soggettivamente sono modificazioni accidentali dell'intelletto nostro; considerati oggettivamente sono rappresentanze delle cose pensate. Ma il Rosmini diametralmente si oppone a tale dottrina con la sua intuizione. Per questa l'intelletto vede immediatamente l'essere come l'occhio vede la luce; e come nella luce vi sono dei limiti o dei contorni nei quali sono vedute le cose colorate (in sè non vedute ma vedute nella luce) così nell'essere veggonsi termini e limiti, entro a' quali veduto l'essere prende la significazione di ente.
Stabilisce il Rosmini che la mente umana intuisce immediatamente l'essere senza intuirlo illimitatonella triplice sua forma, e che perciò non intuisce Dio. Inoltre se l'intuito della mente si portasse sopra l'essere già determinato da' suoi limiti: in tal caso non sarebbe l'essere intuìto come uno, ma s'intuirebbono molteplici entità, cioè ci sarebbe moltiplicità e non unità; nè il problema sarebbe sciolto come se vedessi la luce già determinata in varie guise, vedrei soltanto molteplici colorati. Se l'intuito si fermasse nell'essere, senza riferirsi in veruna maniera ai termini del medesimo, in tale ipotesi si avrebbe unità e non moltiplicità, nè resterebbe sciolto il problema. Per conciliare l'unità colla moltiplicità, non si deve nè intuire l'essere co' suoi termini; nè intuirlo affatto prescindendo dai medesimi: ma lo si deve intuire in quanto esso è in potenza od è virtualmente tutti i termini; o in quanto esso è inizio di ogni entità, cioè sotto l'aspetto di virtuale e di iniziale. Come la luce in quanto è in potenza tutti i colori, o in quanto in sè virtualmente gli contiene si può dire materia dei medesimi; e in quanto essa stessa è determinatrice o inizio dei colori si può appellare forma; così l'essere in quanto virtuale è la materia, l'essere stesso in quanto è iniziale è la forma di ogni ente o di ogni entità. Non è qui il luogo da dimostrare al Rosmini che questeintuizioni parziali dell'essere (ch'è appartenenza di Dio ed è Dio) sono assurde; già ne abbiamo parlato; ed ora solo dobbiamo vedere come il Rosmini ragguagli la propria con la dottrina dell'Hegel.
Ma prima di far ciò il Rosmini vuole francare la sua dottrina dal Panteismo; nè gli riesce difficile il farlo arrogandosi il diritto di definire a suo talento il Panteismo stesso; nè badando punto se la sua definizione sia contraria a quella di tutti i sinceri e veri filosofi. Non è, dice il Rosmini, panteismo l'ammettere che v'è unessere solo nell'ordine della realità, ma è panteismo il dire che l'essere intuìto, (ch'è appartenenza di Dio ed è Dio stesso), solo in quanto in sè virtualmente contiene tutti i termini ed in quanto è inizio di tutti gli enti, sia Dio. Imperocchè l'essere illimitato ed assoluto nei tre termini essenziali è Dio; e l'essere stesso racchiuso nei termini contingenti sono gli enti finiti. «Il Panteismo nacque appunto dal non essersi distinti questi concetti dialettici della mente da que' concetti, che rappresentano un ente pieno. Si vide dunque che l'essere dovea essere la materia di tutte le cose, ma non si vide che quest'essere non rappresentava punto Dio, nè rappresentava un ente, ma un oggetto ideale ed astratto (intendi sempre dell'astrazione intuitiva rosminiana che è tutta diversa dalla astrazione scolastica), non esistente che davanti alla mente; benchè questo oggetto ideale ed astratto non fosse già nulla, nè fosse punto la mente stessa che è subiettiva, nè fosse tale cui nulla rispondesse nella realità, perchè nella realità vi corrispondeva non l'ente, ma qualche cosa dell'ente. Il dirsi dunque che tutto è essere o che l'essere si può predicare di tutto, non è panteismo; e non è un ridurre tutti gli enti ad un solo ente, benchè l'essere (si noti: anche nella realtà) sia semplice e non abbia moltiplicità; ma questo nasce perchè ogni moltiplicità trae la sua origine dai termini dell'essere e però non si può trovare nell'essere in quanto si concepisce (cioè s'intuisce) dalla mente come anteriore a' suoi termini e del tutto interminato.» (pag. 212).
La sentenza del Rosmini «il dirsi che tutto è essere, o che l'essere si può predicare di tutto, non è panteismo, e non è un ridurre tutti gli enti ad un solo ente» è verissima secondo i principii della ideologia scolastica; è falsissima discorrendo secondo i principii del sistema rosminiano. Di vero, nella ideologia scolastica, il dire che tutto è essere significa che tutto è simile alla idea dell'essere che sta soggettivamentenell'intelletto umano, o nell'intelletto divino: ogni cosa od ogni enteesprime cotesta idea. Sebbene meno propriamente si direbbe d'ogni cosa ch'è essere, e meglio direbbesi ch'è un essere, (come sempre dicono i francesi nella loro lingua) od un ente; tuttavia gli è certo che, senza taccia di panteismo, il filosofo scolastico predica l'essere di ogni cosa, perchè per esso la nozione dell'ente è trascendentale. Ma qui è da avvertire che ciò che si dice dei segni e delle imagini delle cose, hoc ipso s'intende detto delle cose medesime. Ora i verbi mentali sono imagini delle cose e le parole orali e scritte sono segni delle medesime. Così quando dico: l'uomo è ente, non intendo già di affermare l'eguaglianza dell'uomo reale con la nozione dell'ente; nè l'eguaglianza delle due parole che tengono nella proposizione la sede del soggetto e del predicato: ma intendo di affermare l'identità dei due concetti oggettivamentepresi, cioè in quanto rappresentano i reali, e di questi sono imagini. Di che viene che affermo hoc ipsoesservi nell'ordine della realtà quella identità tra uomo ed ente, che v'è nell'ordine de' miei concetti.
Fa ragione che io vegga una fotografia che esattissimamente esprime un cotale Alessandro. Nel vederla io dico: Alessandro è brutto: Alessandro è guercio: è sproporzionato nelle sue parti ecc. Non vi sarà alcuno che sospetti riferirsi cotali giudizii alla fotografia in sèconsiderata; ma bensì li crederà riferiti alla fotografia presa nella sua oggettività, in quanto cioè è rappresentatrice fedele di Alessandro, pognamo da noi non mai veduto ed ora esistente in America. Laonde cotesti giudizii si riferiranno alla persona reale di Alessandro. Così quantunque non sia in verun modo a me presente, od eziandio ora non esista nella sua realtà ciò ch'è espresso nei verbi della mia mente, tuttavia questi verbi vengono riferiti alla realtà o attuale o passata o futura o possibile, e la verità che v'è nella proporzione mentale è riferita sempre alla verità della cosa nel suo stato reale. Tutto ciò sta bene ed è chiaro nella filosofia scolastica.
Ma nella sentenza del Rosmini è mestieri sbandire il soggettivismocotanto da lui detestato. L'essere ideale, o l'idea dell'ente non è una nozione trascendentale, imaginedi tutte le cose: ma l'essere ideale è in sè, è fuori della mente, è intuìto dalla medesima, e quest'essere è uno, increato, necessario ed eterno, ed èimmedesimato coll'essere reale e col morale. La frase rosminiana che tutto è essere e che l'essere sì può predicare di tutto, ha un senso diametralmente opposto al testè indicato degli scolastici. Non è che ogni cosa sia similealla nozione dell'essere, che sia distinta realmente, anzi entitativamente divisa dalla medesima nozione; ma ogni cosa è quell'essere stesso limitatamente preso che illimitatamente preso è Dio. Ciò sarà strettamente dimostrato in appresso, ed ora torniamo col discorso all'Hegel.
L'Hegel che, con lo Schelling e col Fichte, conobbe al dire del Rosmini (ciò che da Parmenide a' razionalisti tedeschi nessun conobbe) la necessità di conciliare la unità dell'essere con la pluralità degli enti, non isciorinò quella dovizia di termini, che il Rosmini, e la discrepanza tra questi due è più presto di parole che di sentenze. Ad evitare ogni inutile controversia vediamo che cosa dice il Rosmini di sè stesso e dell'Hegel. «Andò a sangue all'Hegel quest'espressione de' suoi maestri: L'Io ponesè stesso dicendo: Io sono io. Ne inferì, e giustamente, che se l'Io pone se stesso dicendo: io sono io; l'Io doveva esistere prima d'esistere; poichè in quanto si poneva non era ancora, perchè non s'era ancora posto; e pur era, perchè si poneva. La scoperta era sorprendente. L'Hegel disse: è vero il principio perchè me l'hanno insegnato i miei maestri, dunque è vera la conseguenza. Su questa conseguenza fabbricherò io un sistema, che farà sbalordire il mondo: negherò come un'anticaglia il principio di contraddizione. I miei maestri nell'Io = Io vedono il principio d'identità, come forma universale del sapere; io andrò più avanti, e ci troverò la contraddizione e l'essere = zero; e in questa contraddizione che fa cose eguali l'essere e il nulla, riporrò la forma universale del vero sapere. Vera era la conseguenza, assurdo il conseguente. E tuttavia la mente umana, la cui essenza è d'intendere, non sragiona mai tanto che nello stesso tempo, di sbieco, non riguardi in qualche verità. L'essere iniziale non esiste separato da' suoi termini, se non nella mente che restringe il suo sguardo, e invece di fissarsi in tutto il suo oggetto, non ne considera che un elemento. L'essere iniziale dunque non è ancora nessun ente: ammette dunque la denominazione di non-ente. Ora nel linguaggio esagerato un filosofo che ama di sorprendere i suoi uditori col paradosso, alla denominazione di non-ente si poteva sostituire quella di nulla, senza scrupolo: come a quella d'essere iniziale si potea sostituire quella più semplice di essere, e con queste sostituzioni e scambi si otteneva effettivamente la formula dell'essere uguale al nulla.» (Vol. I, pag. 216).
Prima di comparare il Rosmini all'Hegel, non possiamo non maravigliarci della meraviglia del primo, il quale trasecolò al pensare alla scoperta sorprendente che avea fatta l' Hegel quando conobbe che se l'Io avesse fatto o posto l'Io, avrebbe lo stesso Io dovuto esistere prima di esistere. La meraviglia qui è indegna di un uomo di fine ingegno e che si vanta filosofo: conciossiachè egli è questo un argomento universalmente trito nelle scuole e ab antico conosciutissimo, onde si dimostra che il mondo non potè produrre sè stesso. Ma tiriamo innanzi.
Il Rosmini non si trova gran fatto in disaccordo con l'Hegel: e se questi avesse adoperati termini proprii non apparirebbe discrepanza di verun momento. Tanto afferma il Rosmini il quale, indirettamente, sembra ascrivere a sè stesso quell'ampolloso detto (che non fu proferito, a nostro credere, dall'Hegel) «fabbricherò un sistema, che farà sbalordire il mondo.» Il Rosmini adunque, nel passo testè recato, ripete per la centesima volta che l'essere iniziale non esiste separato dai suoi termini, il che equivale a dire (Esposizione § X) che è un'appartenenza di Dio, e che ciò che non si distingue realmente da Dio non è in realtà separato da quei termini ond'è costituita la pietra, il bruto, l'uomo ecc. — Nondimeno la mente lo intuiscesenza intuire cotesti termini, anzi non solo senza intuire cotestitermini, ma senza intuire i termini essenziali onde Dio è costituito assoluto essere reale, ideale, morale. Ma l'essere senza termini non è ente; non ente infinito ed assoluto; non ente finito e relativo. Per la qual cosa se l'Hegel, invece di dire nulla, avesse detto non ente sarebbe stato d'accordo con Rosmini. Ma l'Hegel adoperò il vocabolo nulla, nè, a quanto dice il Rosmini, è in ciò da rimproverare, quasi che avesse errato nella sostanza della dottrina. «L'essere iniziale (appartenenza di Dio che realmente non si distingue da Dio) non è ancora nessun ente: ammette dunque la denominazione di non-ente. Ora, nel linguaggio esagerato d'un filosofo che ama di sorprendere i suoi uditori col paradosso, alla denominazione di non-ente si poteva sostituire quella di nulla, senza scrupolo: come a quella d'essere iniziale si potrà sostituire quella più semplice di essere, e con queste sostituzioni e scambi si otteneva effettivamente la formula dell'essere eguale al nulla.» Adunque senza scrupolo, e con mere sostituzionie scambi di parole, per confessione dello stesso Rosmini, il sistema dell'Hegel si trasforma nel sistema rosminiano. Ma davvero che nè il Rosmini, nè l'Hegel fanno sbalordire il mondo col loro sistema, se pure il mondo non rimanga sbalordito per ciò che un filosofo cattolico ed italiano di non comune ingegno e di pazientissimo studio vada a cercare la vera filosofia presso ai filosofastri del nebuloso protestantesimo settentrionale.
Se non che mentre il Rosmini strigne la mano all'Hegel, dicendogli; la discrepanza tra noi è solo di parole, non di cose, si guarda attorno e sospettando che altri rimanga scandolezzato di cotal pateracchio, muta sembiante e par che voglia bisticciarsi col panteista alemanno. E perchè? Il Rosmini accetta la formola Hegeliana l'essere = zero, ossiail nulla = l'essere, purchè per nulla s'intenda il non-ente, ch'è proprio l'essere iniziale (appartenenza di Dio). Ma pognamo che l'Hegel accetti la correzione Rosminiana; perciò stando al principiodel suo evoluzionismo panteistico, l'Hegel direbbe che il nulla, il non-ente, o l'essere iniziale pone sè stesso: che Dio ogni entediventa. A questa parola diventa, Rosmini s'arresta, s'impunta, e par che detesti il sistema dell'Hegel da capo a fondo. Sono bizze coteste di amanti, amantium irae, più apparenti che reali.
Per ciò che si attiene alla parola, diremo sacramentale, del porsi non v'è al mondo veruna discrepanza; essa è delle predilette al Rosmini: e come detesta l'applicarsi all'essere la parola fatto o creato dal nulla, sebbene si tratti dell'essere delle cose finite, così accetta ed usa volentieri la parola porsi. Così l'essere pone sè stesso nei tre termini proprii onde viene costituita l'augustissima Trinità (v. Esposizione § IV), e così l'essere pone sè stesso in que' termini impropriionde sono costituite le singole cose o i singoli enti. Se si dicesse che l'essere crea l'essere, o fal'essere, ammettendo la rosminiana unità dell'essere anche nell'ordine della realtà, s'incorrerebbe in quell'errore del quale fece la sorprendente scoperta l'Hegel, e ne verrebbe l'assurdissimo paradosso che l'essere fosse prima di essere. Ma il porsi è conciliabilissimo con la esistenza primiera, come per porsia letto è indispensabile l'esistere prima di coricarsi. Il porsinei limiti proprii, e nei limiti improprii suppone, almeno dialetticamente, la previa esistenza di quell'essere che così si pone. Adunque sul vocabolo porsi non ci può essere divario punto notevole.
Sulla parola diventaresembra consistere potissimamente il dissidio. Ma a che si riduce? Il Rosmini affermò che Hegel senza scrupolo potea cangiare il non ente nel nulla, ed implicitamente venne per conseguenza affermando che la discrepanza non era poi assai grande e che potevansi conciliare. E non si potrà dire lo stesso rispetto al diventare? Dice il Rosmini. «La dottrina della semplicità e dell'identità degli enti conduce a intendere il concetto del diventare, che male inteso diede occasione a innumerevoli errori, tra i quali i più recenti della scuola hegeliana.» (v. I, p. 612). L'argomento potissimo del roveretano chiarirà la portata del suo corruccio. «Cominciamo dal considerare questo concetto in sè stesso, per considerare poscia le applicazioni a tre ordini. — Un ente diventa un altro. — Anzichè questa proposizione abbia una verità rigorosa conviene che ci sia identità tra l'ente che diventa e l'altro diventato, perchè in ogni proposizione vera ci deve essere una identità tra il predicato e il subietto. Ma questo è impossibile, perchè il diventato è un altro, diverso da quello che diventa, e però sono due, e l'ente è essenzialmente uno. Nè vale il mutar forma alla proposizione riducendola così. — Un ente è diventante un altro. — ovvero: — un ente è diventato un altro. — Poichè la seconda di queste due forme ha lo stesso assurdo in sè stessa, perchè l'ente diventato già non è più l'ente di prima, onde non è l'ente di prima che sia diventato, perchè l'ente diventato non è quello a cui si attribuisce l'atto del diventare. Manca dunque ancora ogni identità del giudizio. Dicendo poi — l'ente è diventante un altro — fino che l'ente è diventante solamente è ancora l'ente di prima, ma quando ha finito il suo atto, egli si è annullato, e perciò non è mai diventante un altro, ma solamente è nell'atto di annullarsi, checchè rimanga dopo di lui, che non è lui. Se non può mai essere diventato un altro, nè pure può essere diventante. Gli Hegeliani dunque, che fanno del diventare il principio della filosofia, fondano la scienza sopra un concetto che nella sua enunciazione rigorosa è un assurdo; e in fatti sono poi costretti a confessare essi stessi che la loro filosofia s'intesse di contraddizioni, e se ne danno vanto come d'una grande scoperta.» (vol. I, p. 613) Il Rosmini seguita poscia a svolgere il medesimo argomento in altre maniere con quella serietà con cui un discepolo di teologia, per esercizio scolastico, argomenterebbe contro le parole evangaliche della consacrazione hoc est corpus meum non ponendo guari attenzione alla diffferenza che corre tra la proposizione speculativa e la proposizione pratica; tra quella che esprime la cosa in facto esse, e quella che la esprime in fieri, come dicono le scuole. Ma la sarebbe pedanteria il perderci in arzigogoli e in sofisticherie nella presento questione.
Parliamo col linguaggio dei fatti che vuol essere l'unico linguaggio della sincera filosofia. Egli è certo che — il ferro diventa caldo —Pietro diventa sano — quel palazzo diventò un mucchio di rovine — ciò ch'era erba diventò carne viva nel bue ecc. ecc. — Ora in queste proposizioni viene designata una mutazione nel soggetto, il quale per essa non è punto annientato. È la materia seconda, cioè il corpo, che dall'avere una forma accidentale passa ad averne un'altra pure accidentale nelle tre prime proposizioni: ed è la materia prima che nella quarta proposizione dall'avere una forma sostanziale passa ad averne un'altra. Questi sono fatti chiari e queste sono espressioni egregiamente scientifiche: nè accade recar noia a lettori con altre terminologie rosminiane. Il diventare sta nella natura e sta nella scienza. Laonde concediamo che un ente sostanzialmente determinato non diventa un altro sostanzialmente determinato: nè un ente accidentalmente determinato diventa un altro pure accidentalmente determinato in sensu compositodella prima determinazione. Però se scrupolosamente si pesino le parole, con poca proprietà si direbbe —il ferro freddo diventa ferro caldo — o l'erba diventa carne: tuttavia assai bene il diventare si applica all'ente incompleto, cioè al soggetto od alla materia prima e seconda. E lo confessò il Rosmini dicendo «L'ente è, o non è, non diventa mai, nè diventa un altro; ma la materia diventa un ente o un altro.» (p. 620).
Se il Rosmini ammette, come principio del suo sistema conciliatore dell'unità dell'essere colla moltiplicità degli enti, che l'essere virtuale è materia e che l'iniziale è forma di tutte le cose, non sembra che abbia a corrucciarsi contro l'Hegel. Ma egli protesta che ha di che opporsi, e ragionevolmente, al tedesco filosofo. «Poichè la materia da sè sola non è mai un ente reale, e solo si considera per tale dalla mente per bisogno del discorso, perciò il dire che la materia diventa — non è più che una verità dialettica, su cui non si può in alcun modo fondare un sistema assoluto di verità, ossia una vera Ontologia come pretese di fare Giorgio Hegel.» (vol. I, p. 120). Ecco il gran peccato dell'Hegel! Non è stato così accurato nelle sue espressioni; e come non ebbe scrupoloquando disse nullaquell'essere iniziale ch'è il non-ente rosminiano (appartenenza di Dio), così non si prese gran fatto pensiero di definire che quell'essere iniziale vuolsi considerare quale materia dialetticasoltanto e non quale entecompiuto. E questo è un gran peccato; comechè si possa dire filologico.
Di vero l'essere oggetto del nostro intuito in sèconsiderato non è distinto da Dio, nè può dirsi materia che diventa Dio: perchè Dio, come dice il Rosmini, è l'essere e non altro che essere (Espos. § IV). Quindi se Dio si voglia dire ente, non si può affatto adoperare ildiventa o il si farispetto al medesimo; perchè l'ente non diventa nè si fa per sè; ma la materia è quella che diventa ente. Per ciò stesso che Dio è l'essere e non altro che l'essere, Dio non ha materia: e di esso si può dire soltanto, secondo il Rosmini, ch'è l'essere che sempre si pone nelle tre forme assolutamente ed essenzialmente.
In altra guisa vuolsi parlare degli enti contingenti. L'ente non diventa un altro ente: A non diventa B, altramente dovremmo accettare la contraddizione che A = B osservata dal Rosmini. Che se Bper sè incomincia; nè v'è cangiamento di A in B; è d'uopo dire che B incomincia per creazione. Perciò diceva il Rosmini che la prima origine dell'ente finito non può essere che la creazione. Ottima sentenza se la si prendesse nella naturale sua significazione e dal concetto di creazione si escludesse la materia dialetticach'è l'essere virtuale, e la forma dialettica ch'è l'iniziale. Conciossiaché la materia dialettica del Rosmini è l'essere virtuale increato ed eterno il quale è un'appartenenza di Dio ed è come parte dell'essere compiuto, ch'è Dio. Per lo che sotto la penna del Rosmini la parola creazione ha una significazione arbitraria e falsa, significazione che può essere accettata volentieri dagli Hegeliani, ma non già dai seguaci dell'Aquinate.
Ma sopra questo punto non accade ora spendere più parole. Ciò che importa è tirare la conclusione di questo articolo, la quale è che il Rosmini non rigetta la filosofia dell'Hegel, perchè sia guasta nella sua essenza, ma più presto non l'accetta perchè imperfetta nella sua esposizione; perché cade in contradizioni, le quali si sarebbero evitate se il tedesco avesse adoperata una terminologia più castigata, più severa, più compiuta. Noi non abbiamo voluto esaminare in sè stessa la filosofia alemanna, per compararla poscia con quella del Rosmini. Questo metodo sarebbe stato irto di gravissime difficoltà, perché coloro non capirono al tutto ciò che scrivevano, nè v'ha ingegno di espositore o di storico critico che abbia saputo o che sappia esporre la dottrina loro in maniera comprensibile e chiara: altro non si fa che condensar tenebre senza spiraglio di luce. Inoltre abbracciando noi quel metodo ci sarebbe stato impossibile sbrigarci presto, e cessare da noi infinite proteste, che noi non abbiamo compreso que' barbassori, che, con reo fine, abbiamo contorto il senso delle loro sentenze, che gli abbiamo calunniati e va dicendo. In vece a giudicare dei rapporti del Rosmini con que' tedeschi ci siamo serviti dell'autorità dello stesso Rosmini, il quale in ciò è competentissimo giudice. Egli da Parmenide ai razionalisti e panteisti tedeschi, non trovò verun filosofo (l'allusione a Platone è un riempitivo rettorico e, secondo noi, di poco gusto) che si accingesse a sciogliere il gran problema di conciliare l'unità dell'essere con la pluralità degli enti. Chiamaillustri quei filosofi tedeschi che lo sciolsero in maniera panteistica, e, tutto pesato, il Rosmini non pretende di distruggere ma di correggere o perfezionare la soluzione del problema recata dall'Hegel, o piuttosto la sua terminologia.
Tuttavia confessiamo di aver fatto quest'articolo in grazia solo di molti dei nostri lettori, che credono cosa di momento determinare le attinenze della filosofia rosminiana con l'alemanna. A noi questo non preme gran fatto: quello che per noi è il tutto, è il dimostrare chein sè considerata la filosofia del Rosmini è pretto e puro panteismo ontologico. Nè a fare questa dimostrazione crediamo che ci facciano difetto calzanti e chiare prove.