venerdì 7 settembre 2012

La Civiltà Cattolica, anno XXXII, serie XI, vol. VII (fasc. 749, 25 ago. 1881) Firenze 1881, pag. 545-563. R.P. Giovanni M. Cornoldi d.C.d.G. LA TEOSOFIA DEL ROSMINI (PARTE QUARTA)

 

 

Antonio Rosmini
 

 SEGUE L'ESAME CRITICO

LA DOTTRINA DELLA TEOSOFIA È PANTEISMO

Conciossiachè la discrepanza tra l'Ontologismo e il Panteismo si fondi nella loro varia essenza, non è tra filosofi chi confonda insieme ontologi e panteisti. Quelli si cullano soltanto nel sogno dilettoso di vedere quaggiù tutte le cose in Dio: questi vanno assai più là, e dal sogno passando al delirio sostengono che tutte le cose sono Dio. Ambedue i sistemi sono pazzi; ma disugualmente, essendo il secondo a pezza più pericoloso del primo, che tende a manomettere religione, morale e società. Se non che nell'errare in filosofia avviene come nello inciampare in erto e sassoso sentiero, in cui leggermente da un piccolo scappuccio si va ad un grande, con prossimo pericolo di fiaccarsi il collo o rompersi il capo. Una dura esperienza ci ha dimostrato che gli ontologi non si contentano di credersi partecipi con Dio dello stesso principio quodella intellettuale cognizione, ma si mostrano tentati di aspirare alla partecipazione dell'essere stesso di Dio e di divenire panteisti. Oh! quell'eritis sicut dii è un pomo non pure vagheggiato dalla donna più leggera che superba; ma vagheggiato altresì da que' filosofi che sovrastando alla donna nella superbia non vogliono esserle inferiori nella leggerezza.
Tuttavia è mestieri il dirlo: tra cotesti due errori non v'è egualmente nesso reciproco. Il panteista sì che per logica illazione è tratto ad essere ontologo, ma non così l'ontologo ad essere panteista. E di vero il panteista ammette che v'è unico essere. Che s'egli trascorre così da ficcarsi in cervello di avere con Dio comune l'essere, logicamente sarà condotto a credere di avere comune con Dio il principio quo della sua operazione intellettuale, non potendo ignorare quel famoso assioma, notissimo anche agli incipienti, che operatio sequitur esse; e s'egli tanto s'alza in punta di piedi da credersi divino nell'essere naturale, si darà tosto a credere d'essere anco divino nella più nobile delle sue operazioni qual è l'intendere ed alla quale è ordinato l'essere stesso. Così si darà a sostenere che il principio quo del suo intendere non sono già le specie intelligibili astratte da' fantasmi: metterà coteste specie tra le aniles fabulas del rimbambito Aristotele, ricantate poscia dall'Aquinate con poco o nullo consiglio e tragrande servilità verso quel sensista pagano. Ma per lui il principio d'intendere sarà Dio stesso, e studiandosi di acconciare il suo dire di guisa che non gli si sollevi contro gagliarda opposizione, dirà, secondo i varii tempi e i varii luoghi, che quel principio quosono le idee archetipe delle cose e non già l'essenza divina, comechè questa da quelle non si distingua realmente; ovvero dirà che è l'idealità di Dio, o che è un cotal essere ideale, che in Dio è Dio nè da esso si può distinguere realmente, ma che può essere termine dell'intuito intellettuale umano, senza che perciò ne sia termine l'essenza divina, le divine persone, Dio stesso.
Traendosi dunque l'ontologismo per naturale illazione dal panteismo, chi abbia il sistema Rosminiano in conto di panteismo, senz'altro lo dovrà dire ancora ontologismo. Ma noi non abbiamo per anco dimostrato che il sistema Rosminiano sia panteismo, ed abbiamo solo dimostrato (e l'abbiamo fatto con evidenza piena e piena certezza) ch'esso è ontologismo. Dobbiamo poi confessare che dall'essere ontologismo, per sè e logicamente non viene l'essere panteismo. Infatti per ciò che altri è fatto partecipe del medesimo principio quo cioè col quale Iddio conosce tutte le cose, ed anzi, parlando in maniera tanto corretta quanto chiara, per questo che l'essenza stessa di Dio, si unisca a guisa di specie intelligibile e immediatamente allo intelletto, deve egli darsi a credere non solo che conosce tutte le cose in Dio, ma di più che tutte le cose sieno lo stesso Dio? Oh davvero che questo non possiamo concedere: mentre che, se ciò reggesse, dovrebbonsi dire panteisti tutti quelli che insegnano che gli angeli beati e le anime dei giusti nel conseguimento dell'ultimo fine soprannaturale tutto vedono in Dio alla maniera testè accennata. È vero che noi qui abbiamo a fare con uomini mortali, i quali (che che folleggiando dicano) hanno in realtà i fantasmi e specie intelligibili da essi astratte e le cose tutte conoscono generando successivamente verbi mentali, ciascuno dei quali solo ciò rappresenta che nella specie intelligibile, ond'è generato, sta come in seme o principio: ma siffatta considerazione ci obbligherà sì a dire che i nostri ontologi diverranno leggermente panteisti, ma non ci trarrà a confessare che dal vedere tutte le cose in Dio, ne venga per illazione doversi ammettere che tutte le cose sono Dio: ossia che il panteismo sia una logica conseguenza dell'ontologismo.
Pertanto i nostri lettori ci diranno: voi ci avete assai bene dimostrato che l'ideologia rosminiana pecca d'ontologismo: siamo chiariti che alla fatta dimostrazione non si possono opporre che sofisme puerili, a disbrigarsi delle quali si avrebbe grande iattura di quel tempo che un saggio deve impiegare nel propugnare la verità, e nel diradare le tenebre d'una involontaria ignoranza. Però come è dottrina falsa ed anco censurata l'Ontologismo, così si dovrà dire della Teosofia che la propugna: ed anche per questo solo capo vuolsi questa sbandire affatto dalle scuole. Ma che in quel libro s'insegni il panteismo, questo è un altro paio di maniche. Voi avevate il dovere di avvertirci che la reciproca illazione tra ontologismo e panteismo non regge; e per ciò stesso ora siete in debito o di cessare dal sistema rosminiano la taccia di panteistico o di provarla con prove dirette e calzanti. Poniamo pure che si dica essere trascorso il Rosmini a sostenere dottrine panteistiche per una tal quale allucinazione, che talvolta fu in illustrifilosofi (così egli chiama i panteisti alemanni): ma in somma il panteismo in filosofia non è lieve neo, e direm così, un peccatuzzo veniale, è colpa di gran momento che alla fin fine guasta nelle radici un sistema filosofico. Per la qual cosa siccome nemo praesumitur reus, nisi legitime probetur, prove ci vogliono e chiare e forti per potere poi tuta conscientia accagionarne il sistema rosminiano.
Il saggio lettore ha ragione di così parlare, e rispondiamo che non mancheranno le prove e forti e molte e tali che daranno certezza. Ma qui ci è mestieri avvertirlo che a cagione della terminologia strana del Rosmini, come non è senza difficoltà il discorrere sopra la sua dottrina, così non torna agevole al lettore capirla con tutta chiarezza. Fu vezzo comune a tutti i novatori e in filosofia e in teologia inventar termini nuovi e specialmente certi termini, che presi da un lato indicano la verità, dall'altro l'errore come certe tinte nella seta che vedute a destra ti paion rosse, a sinistra ti sembrano gialle o d'altro colore. I termini nuovi imbrogliano i semplici; ed essi servono a gabbare gl'inesperti, come insoliti istrumenti da pescare servono meglio a prendere i pesci incauti. I novatori poi dei termini ambigui ed equivoci si valgono a meraviglia per istancar la pazienza ancor dei saggi, i quali mentre credono avere agguantato l'errante, costui con una distinzione acconcia, a cui si presta l'ambiguità dei termini, guizza loro di mano.
Se tra i novatori filosofi dobbiamo annoverare que' tedeschi che il Rosmini ha in pregio d'illustri, a più forte ragione dobbiamo pure ricordare il Rosmini stesso, il quale dalla natura non sortì ingegno minore di quelli, e la dottrina che da loro a lui fu consegnata come minutissimo seme, ei svolse in albero, se non per frutti, almeno per frondi, foglie e spine ubertosissimo. Nella invenzione poi de' termini la fantasia del roveretano sorpassò di gran lunga la fantasia tedesca, e beato chi di tutti i nuovi termini rosminiani può, oltre il fantasma, avere eziandio distinto concetto Chi con poco senno dirà barbara la terminologia degli scolastici sarà perciò stesso in dovere di chiamar barbarissima la terminologia rosminiana che rassomiglia in vero ad una selva selvaggia ed aspra e forte. Il sistema rosminiano si sostiene con siffatta terminologia come i saltatori camminano sostenuti dai trampoli sopra i quali al volgo paiono alcun che d'altissimo mentre sono di statura ordinaria; e tali ricompariscono quando vengono obbligati a camminare in piana terra colle proprie gambe.
Il lettore si ricorderà della sagacia adoperata dal Rosmini per cessare dal suo sistema l'accusa apparire ontologismo. Ci guardi il cielo, egli dicea, di affermare che noi vediamo Dio, o che noi vediamo in Dio tutte le cose! Ciò è assurdo e peggio. Noi vediamo tutte le cose in una appartenenza di Dio; nel suo essere ideale; e, quasi direi, non in ciò che v'ha in Dio di solido, ma nella sua superficie. È vero che siffatta appartenenza o cotesto essere ideale non si distingue realmente da Dio; ma io dico che la nostra mente intuisce quella senza intuire questo: sarebbe come noi vediamo la superficie di un corpo senza vedervi nulla per entro. Ontologista è colui che vuol vedere ciò ch'è intra Deum, non chi afferma di vedere come fo io, ciò ch'è circa Deum. Questa distinzione che parve eccellente agli ignoranti di teologia, sembrò nulla a san Tommaso, il quale nei passi da noi recati mostrò che cotesta intuizione parziale era del tutto assurda, e sopra il fondamento della dottrina del santo dottore abbiamo dimostrato che la dottrina rosminiana è ontologa. La scappatoia non la franca dal dover essere posta a lato di quella di Malebranche e del Gioberti, avvegnachè tra lei e la dottrina di costoro ci sia qualche tinta un po'differente [1]. Non minori sforzi adopera qui il Rosmini onde persuadere che il suo sistema abborre dal panteismo quasi quasi più che quello dell'Angelico.
Perciò egli non si lascerà giammai cader dalla penna, che v'è di tutte le cose una sola sostanza o natura, come fece incautamente lo Spinosa; non ci dirà mai che l'enteassoluto ovvero Dio diventa, svolgendosi con indefinito progresso, tutti gli enti come disse l'Hegel, dal Rosmini, più per la sua franchezza e semplicità che per la sua dottrina, ripreso, come vedemmo; detesterà come bestemmia l'affermare che ogni ente è una particella di Dio o dell'ente assoluto o del gran tutto; e contentandosi di dare a certi panteisti qualche incensata onorevole, dichiarerà in fine ch'egli non ha a vedere nulla con essi. E i meno accorti tutti lì a credere ed anzi a tacciare di temerari coloro che, sospettosi del contrario, vogliono un po' esaminare severamente la sua dottrina e vederne il netto.
Il Rosmini rigetta le varie forme di panteismo tali quali dalla massima parte dei preteriti panteisti furono ammesse, ma ammette quell'unità od identità dell'essere che tutte in sè quelle forme contiene. E perchè in ciò consiste la essenza del panteismo ontologico da lui professato, di qua conviene prendere le mosse al nostro discorso.
Anzi tutto rechiamo un passo già portato altrove, ma è necessario che qui il lettore l'abbia sott'occhio. «Giace, dice il Rosmini, nell'intelligenza umana il bisogno di ridurre ogni cosa ad unità. Ora l'essere è una natura semplice ed una: e perciò la natura umana non può persuadersi, che sia qualche cosa fuori dell'essere, il che sarebbe un'aperta contraddizione: tende dunque incessantemente ed aspira a ridurre tutte le cose all'essere, come unica e semplice natura. Ella non tende già solamente a conseguire questa unità nell'ordine delle cognizioni, ma anco in quello delle cose reali, perchè anche in queste non vede finalmente altro che essere. Forse la prima volta che questo bisogno dell'intelligenza si trasformò in un esplicito problema filosofico fu presso di noi per mezzo di Parmenide. Questo filosofo sembra averlo sciolto con grande coraggio speculativo, ma senza coglier nel vero, poichè dichiarando che sono uno tutte le cose, non indicò come la pluralità de' concetti e de' reali a quest'uno si riducesse» [2]. A questo passo mette bene congiungere un altro che riguarda lo stesso punto. «E veramente tutta la filosofia antica, qualora si voglia partirla secondo la soluzione data a questo gran problema, presenta tre sistemi esclusivi, che si uniscono poi in un quarto, i quali comprendono tutte le soluzioni possibili, benchè indicate in un modo generale.
I. Classe di sistemi. Quelli che non trovando il modo di conciliare l'unità degli enti con la loromolteplicità, esclusero questa seconda, e ammisero l'ente uno, il Τἔν di Parmenide.
II. Quelli che disperati ugualmente della conciliazione, esclusero affatto l'uno e posero i molti πολλὰ,come Leucippo e Democrito.
III. Quelli che trattarono di conciliare l'uno coi molti, benchè noi crediamo che non ci sieno riusciti, i quali ammisero l'ἔν καὶ πολλὰ; nel qual numero credo si possa collocare Anassagora.
IV. Finalmente quelli che ammettevano ad un tempo l'ἔν καὶ πᾶν, l'uno e tutto, e πολλὰ i molti, e l'ἔν καὶ πολλὰ, l'uno e i molti, sotto diversi rispetti. Sembra che tra questi devono collocarsi i maggiori filosofi, Platone ed Aristotele.» [3]
Di quale bisogno dell'umana intelligenza parla qui Rosmini? Qual è quell'unità cui tende ogni filosofo e nell'ordine ideale e nell'ordine reale? Sebbene la virtù dell'umano intelletto sia debole e non rare volte avvenga ch'erri, tuttavia non possiamo dire che vi sia in esso un bisogno di errare, nè che si debba dire filosofica la tendenza all'errore. Per la qual cosa il vero bisogno dell'umana intelligenza è quello cui tentò di soddisfare Aristotele e con l'Angelico soddisfece a pieno la scolastica filosofia. Altro è l'ordine ideale altro il reale, l'uno è similitudinedell'altro, ma tra essi non v'è identità. Vi è certamente un bisogno nell'ordine ideale di ridurre ogni concetto al concetto dell'essere e di ridurre ogni principio al principio di contradizione: perchè tutti i concetti in quello come sinteticamente racchiudonsi e così tutti i principii in questo principio. La filosofia per certo tende a così fatta sintesi. Così v'è bisogno di classificare tutti gli esseri sotto differenti specie; tutte le specie sotto differenti generi e tutti i generi riferire allo stesso concetto dell'essere. Nell'ordine dei reali troviamo l'unità o l'uno in ogni specie: così ogni uomo è uomo, ma non un sol uomo: ogni vivente è vivente ma non un solo vivente: ogni ente è ente ma non un solo ente: di guisa che l'uomo ha il proprio essere il quale è diverso e separato dall'essere di un albero, di un angelo, di Dio. Perciò non solo di quelli che nella specie differiscono ma ancora di quelli che hanno una specie medesima dicea l'Aquinate «sub una specie contenta differunt secundum esse, et tamen conveniunt in una essentia [4]
Non è questo ciò che intende il Rosmini. Egli parte da un principio; cioè che l'intelletto vegga che tutti gli enti convengono nel concetto di essere e da questo finge un bisogno nella intelligenza di trovare modo di stabilire un esseresolo: ma non così che vi sia una sola reale corrispondenza di tutte le cose al concetto dell'essere (il quale sebbene soggettivamente preso sia molteplice, perchè modificazione degli intelletti, pure oggettivamente preso si può dir uno) bensì che veramente e in sè altro non ci sia che un solo essere. Che questo sia il sentimento del Rosmini è chiarito dalle quattro soluzioni dei vetusti filosofi ch'egli reca, conciossiachè queste riguardano non la relazione anzidetta tra l'ordine reale e l'ordine ideale, tra l'ontologico e il logico, ma tutte e quattro riguardano l'esserè in sè cioè l'ordine ontologico. Però Parmenide disse che non ci sono molti ma che v'è solo l'uno. Leucippo e Democrito dissero che vi sono soltanto i molti, cioè gl'innumerevoli atomi. Anassagora disse, ma non giustamente, che vi sono i molti e l'uno: e finalmente Platone ed Aristotele che ammisero l'uno il quale nella sua perfezione infinita contiene tutto, quale atto purissimo, ed oltre questo i molti. Adunque il gran problema cui il primo sciolse con audacia somma, anzi che con gran coraggio, come dice il Rosmini, l'unitario Parmenide risguarda non il fondamento della relazione degli esseri alle nozioni ideali, ma sì l'essere in sè stesso considerato. E il Rosmini dice che è mestieri confessare che l'essere in sè è uno, senza disconfessare che gli enti sono molti: a provare il quale asserto non vi sarà certamente minore difficoltà di quella che s'incontri nel pretendere di dimostrare che, nell'ordine reale vi è un solo uomo avvegnachè nello stesso ordine reale gli uomini sieno molti.
La ragione cui si appoggia il Rosmini per affermare che vi è un solo ed identico essere cui appartengono i molti è tolta dall'ordine logico. Essa sonerebbe così: noi riduciamo i molti a un solo concetto dell'essere; dunque è uno l'essere dei molti. Ecco le sue parole. «La scienza consiste nel vedere i molti nell'uno, e l'uno ne' molti senza contraddizione nè confusione, nè distruzione de' due termini. In questo sta il sintesismo scientifico;al quale deve rispondere di necessità un sintesismo ontologico. Poichè ammesso il principio di cognizionech'è il più evidente di tutti, cioè ammesso che l'essere sia l'oggetto del pensiero; come e perchè la mente non s'acqueta nell'uno? Come e perchè la mente non s'acqueta ne' molti? Ogni potenza quand'è pervenuta ad unirsi pienamente col suo oggetto, trova la sua quiete e piena soddisfazione, non rimanendole altra attività da spiegare. Se dunque la mente, che ha per suo oggetto l'essere, non s'acqueta nell'uno, convien dire che l'essere, in quant'è uno, non è a pieno l'essere; e se non s'acqueta ne' molti senza unità, convien dire, che i molti senza unità non sono a pieno l'essere. Ma se s'acqueta nell'uno-molti, tostochè ella conosca che in questa antinomia non giace alcuna contradizione, convien conchiudere, che l'essere sia uno-molti; cioè che sia essenziale all'essere tanto l'unità, quanto la molteplicità, consistenti in esso senza discordia. L'uno dunque e i molti formano nell'essere un sintesismo ontologico, sono entrambi condizioni necessarie all'essere, oggetto d'ogni intelligenza.[5]» Ora chiediamo, perchè dalla sintesi dell'ordine logico, secondo la dottrina scolastica, viene la necessità di ammettere nell'ordine ontologico e reale l'uno che eminentemente comprende tutto; ed, oltre questo, i molti, sentenza che il Rosmini attribuisce a Platone ed Aristotele, e non la necessità di ammettere l'uno-molti come il Rosmini pretende inferire? La risposta a questa interrogazione spiegherà chiaramente l'indole della dottrina rosminiana.
Come al primo percepirsi co' sensi una sola pietra, per lo mezzo della specie intelligibile formiamo la idea universale di pietra, così al primo affacciarsi di qualunque cosa, noi generiamo l'idea o il concetto o la nozione universale di ente. Se non che di quella guisa che non si può conoscere l'amante, senza hoc ipso conoscere l'amare ch'è l'atto o la forma ond'è costituito l'amante, della medesima non si può avere il concetto dell'ente senza aver quello dell'essere, onde l'ente partecipa. Mal si apporrebbe chi credesse che siffatto concetto dell'essere fosse in noi così perfetto che, col solo lavorarci intorno con l'analisi riflessiva, potessimo trarne i concetti di tutte le cose. Non mai! Esso è vago, esso è indeterminato e, perchè puòapplicarsi a tutti, è potenziale. Ma perchè si possa fare in atto tale applicazione ci conviene, mediante astrazione, acquistare i concetti delle varie cose. Fa ragione di udire il suono della voce umana: per ciò soltanto sei tu alla portata di conoscere per riflessione tutte le parole di tutte le lingue umane? No per certo, comechè ciascuna parola altro non sia che un suonodeterminato. Similmente dobbiamo dire del concetto dell'essere. E come dal primo e transcendentale concetto dell'essere scaturisce il primo principio di contradizione; così dal concetto dell'essere determinato per altri concetti derivano gli altri principi che si possono ridurre a quello per sintesi, e per analisi si possono derivare dal medesimo.
Quanto la mente è più perfetta e quanto è più perfetta la cognizione in essa, tanto è più perfetta la specie intelligibile che è il principio quo; cioè col quale si genera il verbo, in quo si compie la cognizione. Ed è tanto più perfetta la specie quanto rimanendo una offre la conoscenza di più; e similmente vuolsi discorrere del verbo. Il perchè in Dio v'è una sola specie ed è la semplicissima sua essenza che basta alla cognizione di tutto: ed un solo Verbo in cui Dio sè ed ogni altra cosa conosce. Ma da questa sintesi, diciamo così, nell'ordine logico, per la quale tutto si può ridurre ad una sola specie e ad un solo verbo, discende forse eguale sintesi nell'ordine ontologico e nella realtà? Se l'essere nell'ordine ontologico e nella realtà fosse l'identico essere dell'ordine logico che è nell'umana mente, per certo si dovrebbe dire che v'è in quello la sintesi e la conseguento unità che v'è in questo. Ma non è così secondo l'Aquinate e la sincera filosofia scolastica. Le cose hanno un essere nella mente umana essenzialmente diverso da quello che hanno in sè stesse; nella mente possono collegarsi in unità, sebbene in sè non lo possano, come i raggi che sono in sè essenzialmente divisi e tra sè distanti s'impuntano nel centro del circolo. Segue solo che ciascuna cosa esprima l'essere ideale della mente; che tutte variamente esprimano i concetti generici e specifici della mente stessa; e finalmente che corra tra l'ordine logico e l'ontologico la sola ragione di similitudine e non mai quella dell'eguaglianza. Il perchè non si potrà giammai dedurre dalla sintesi logica che i molti unifica in una idea, una sintesi ontologica che tutti unisca in un solo essere. Ma vi sarà corrispondenza qualora esistano moltiesseri limitati, ed unoinfinito il quale comprenda in sè la perfezione di tutti e ne sia causa. Se concepisco un foglio di carta e in esso concepisco tanti limiti che mentalmente mi dieno come tanti piccoli foglietti di carta, vi sarà corrispondenza nell'ordine ontologico a questo concetto, se vi saranno a parte rei e un foglio di carta che esprima il tutto ed, oltre a questo, tanti foglietti quanti ne ho concepiti: nè è punto mestieri che esista un solo foglio con in esso le pensate limitazioni. Similmente al concetto dell'essere non è punto necessario che risponda un essere solo con in sè tutti que' limiti che nell'essere ideale posso concepire; ma basta che risponda un essere solo infinito ed, oltre a questo, altri esseri limitati, la cui perfezione sia eminentemente contenuta nella perfezione di quello.
Filosofando adunque con questi principii intorno all'essere delle cose, troviamo in primo luogo ch'esso nella mente umana è accidentale, perchè sta nella specie e nel verbo che sono accidentali modificazioni della medesima: in Dio al contrario è un essere sostanziale, divino, perfettissimo, semplicissimo, perchè le cose tutte hanno in Dio il proprio essere come nella causa esemplare ed efficiente: in ipso vita erat, cioè tutte le cose sono eminentemente in Dio la stessa vita di Dio. In secondo luogo l'essere delle cose non ha essenziale dipendenza dall'essere che hanno nella mente umana: ma bensì ha questa dipendenza dall'essere loro nella mente divina, perchè l'umana è misuratadalle cose, come dice l'Angelico, dove la mente divina è loro misura: e l'umana mente conosce e vuole le cose perchè sono, ma queste sono perchè Dio le conosce e le vuole. In terzo luogo l'essere delle cose in Dio è necessario, ed increato, nelle cose stesse è creato e contingente, e perciò come Dio avrebbe potuto non crearlo, cioè trarlo dal nulla, così per sè potrebbe ridurlo al nulla od annichilarlo. In quarto luogo finalmente l'essere delle varie cose ha una cotale mutua indipendenza, mercecchè Dio potrebbe annichilare l'essere di una cosa e perciò annichilare la cosa stessa, senza annichilare l'essere di un'altra cosa e così conservarla nella sua esistenza. Da ciò appare eziandio manifesto che l'essere delle cose nell'ordine ontologico e reale è affatto diverso dal loro essere nell'ordine logico ed ideale; ossia che l'essere nella forma ideale non è uno ed identico coll'essere nella forma reale: conseguenza questa di altissima rilevanza.
Ma il Rosmini nel testo citato filosofa in senso affatto contrario e dalla sintesi ed unità dell'essere nell'ordine logico deduce la sintesi e l'unità dell'essere nell'ordine ontologico e reale. Ed egli si crede in diritto di trarre questa illazione supponendo che non abbia la mente una specie soggettiva la quale presa oggettivamente rappresenti l'essere, ma che sia l'essere stesso immediatamente da essa intuito. A ben capire il motivo per cui il Rosmini trae siffatta illazione, piglia, caro lettore, a considerare il fantasma interno onde tu imagini la statua del Lacoonte, e la sensazione esterna onde tu la senti toccandola con la mano. Tu avvisi che il fantasma è solo imagine sensibile del Lacoonte, e non prendi già il fantasma per identico alla statua. Quindi non attribuirai al fantasma tutti quei predicati che attribuisci alla statua. Al contrario ciò che percepisci col tatto non l'hai in conto d'imagine, ma di realtà e dici che tu tocchi la statua stessa, e a questa attribuisci tutti quei predicati che attribuisci all'oggetto immediato del tuo tatto; perchè questo oggetto è identicoalla statua, cioè è la statua stessa. Quale disordine sarebbe il dire che il fantasma è desso il reale e non la costui imagine sensibile. In tale disordine cadde il Rosmini rispetto all'umano intelletto giudicando che la specie intelligibile non sia l'imagine dell'essere, ma l'essere stesso confondendo con ciò l'ordine logico con l'ordine ontologico e reale, e attribuendo all'essere in que' predicati che spettano soltanto alla sua imagine intellettuale.
Posta la confusione della specie o della soggettiva imagine della realtà con la realtà stessa, il Rosmini inferisce che l'essere è uno-molti in sè ossia nell'ordine ontologico, dando ad esso, in sè considerato, quella sintesi che solo è possibile nell'ordine logico, nel quale, come dicemmo, in una specie e in un verbo l'essere di tutte cose si può immaterialmente unificare. Adunque egli ci dice: se la mente umana ha per oggetto l'essere uno e i molti, e questi nell'ordine logico riduce a quello (notammo già che i concetti tutti si riducono a quello dell'ente, e tutti i principii a quello di contradizione), è giuoco forza dire che nell'ordine ontologico non vi sieno più esseri ma un essere solo nel quale Dio e tutte cose s'incentrino. «Se dunque la mente che ha per suo oggetto l'essere, non s'acqueta nell'uno (qui siamo nell'ordine logico), convien dire, che l'essere, in quant'è uno, non è a pieno l'essere (qui siamo nell' ordine ontologico); e se non s'acqueta ne' molti senza unità (e questo è ordine logico), convien dire che i molti senza unità non sono a pieno l'essere (quest'è ordine ontologico). Ma se s'acqueta nell'uno-molti, tostochè ella conosca che in questa antinomia non giace alcuna contraddizione (torniamo all'ordine logico), conviene conchiudere, che l'essere sia uno-molti (torniamo all'ordine ontologico e della realtà); cioè che sia essenziale all'essere tanto l'unità, quanto la molteplicità, consistenti in esso senza discordia. L'uno dunque e i molti formano nell'essere un sintesismo ontologico, sono entrambi condizioni necessarieall'essere, oggetto (cioè termine intuìto immediatamente) d'ogni intelligenza» (l. c.).
Il Rosmini adunque come principio ontologico pone che l'essere è uno: ma d'onde si trarrà la molteplicita? Dalle forme dell'essere stesso, il quale da tre forme è costituito. Questo abbiamo veduto in più passi del Rosmini recati nella Esposizione (§ 1): ci basti recare qui il primo.«L'essere stesso, sebbene tutto intero, è in modi diversi a lui essenziali. Ci sono adunque queste forme? L'essere per la propria natura dell'essere è egli in un modo solo o in più? e se è in più modi, è egli in ciascun modo tutto l'essere?... Questo forme ci sono e sono tre cioè l'essere come tale è identico in tre modi diversi a lui essenziali. Noi denominiamo queste forme subbiettiva, obbiettiva e morale (cui dice anche reale, ideale, santitativa)
Quest'essere, in sè considerato, non solo in quanto è immediatamente intuìto dalla mente, che è? Ce lo dice il Rosmini chiaramente (Espos. § VIII), non è il nulla, non è una modificazione della mente, non è il soggetto intelligente; ma «all'essere così considerato appartengono i caratteri seguenti. 1° Che è l'essenza pura dell'essere. 2° Necessario. 3° Eterno. 4° Uno e semplice. 5° Universale, nel senso di totale, non lasciando cosa alcuna fuori di sè.» (Esp. § IX). Dunque è Dio! Non per anco. Ti dirà il Rosmini che l'essere è l'essenza di Dio. «L'essenza di Dio è l'essere, e non altro che l'essere» (Esp. § IV). Ma egli ci ha detto che all'essere sono essenzialiche sono necessarie le tre forme; è impossibile adunque che esso non sia stato da queste sempre costituito. Queste tre forme con l'essere sono Dio. «L'ente illimitato (Dio) dimora essenzialmente nelle tre forme [6].» Così preso l'unico essere dicesi assoluto in tre persone identico, mercechè nella forma soggettiva è il Padre, nella oggettiva è il Verbo, nella morale è lo Spirito Santo. «L'essere assoluto nella sua forma subiettiva dicesi il Padre. L'essere assoluto nella sua forma obiettiva dicesi il Verbo (Esp. § IV)» e conseguentemente l'essere assoluto nella sua forma morale è lo Spirito Santo (l. c.).
Posto ciò vengonsi a considerare questi punti rilevantissimi nella presente controversia.
1° Che è naturale, secondo Rosmini, l'intuito immediato dell'essere.
2° Che quest'essere è in sè.
3° Che quest'essere è essenzialmente nelle tre forme.
4° Che quest'essere assoluto nelle tre forme è Dio sussistente nelle tre divine persone.
5° Quindi che base della filosofia è l'ammettere che Dio sussiste e che sussiste in tre persone distinte. Questi si hanno da avere quali due postulati.
Già l'ha detto il Rosmini (Esp. § IV). «Sarebbe dunque impossibile inoltrarci nelle ricerche, che ci restano a fare intorno alla natura dell'essere, e molto più condurre la detta dottrina a quella perfezione di cui ella è suscettiva (limitata solo dal limite delle nostre facoltà individuali), se non assumessimo per conceduti due postulati, che dalle stesse dottrine, che con essi si rinvengono, ricevono poi compiuta dimostrazione: e questi due postulati sono: 1° Che l'essere assoluto, il quale dicesi Dio, sussista. 2° Che l'essere assoluto sussista identico in tre persone divine ciascuna assoluta ed infinita.» Perciò parlando del mistero della Trinità (l. c.) dice. «Questo sublime mistero dunque è il profondo e immobile fondamento, su cui si possa innalzare l'edificio non solo della dottrina soprannaturale, ma anche della Teosofia razionale. Dal che, essendo dimostrato, se ne avrà questa conseguenza importante, che alla divina rivelazione la stessa filosofia dovrà la sua perfezione, l'inconcussa sua base, e il suo invariabile fastigio.» Dalla quale sentenza viene che se Dio, elevando il genere umano all'ordine soprannaturale, non gli avesse fatta la rivelazione de' misteri, o la filosofia sarebbe stata impossibile o l'uomo con le sue naturali forze avrebbeli conosciuti, dimostrati ed adoperati quale base inconcussa della stessa filosofia. Ad entrambe queste sentenze noi non ci possiamo aggiustare; ma procediamo.
Nel sistema rosminiano l'essere è l'essenza di Dio, e l'essere è uno nelle tre forme predette, cioè nelle tre divine persone. Qui abbiamo l'uno-molti; l'unità nell'essere e la molteplicità nelle forme. Ma l'essere degli enti che noi diciamo contingenti che sarà? o sarà l'essere stesso di Dio, o parte di esso, o gli enti saranno come limiti e forme concepite, a guisa di termini, nell'essere stesso, e quasi quasi sospese in esso. La formola, p. e., la pietra ha essere, nella prima ipotesi significherebbe che la pietra ha tutto l'essere di Dio e sarebbe Dio, ponendosi equazione tra l'unico essere e la pietra: nella seconda suonerebbe che la pietra ha, come in proprio, alquanto dell'essere di Dio. Nella terza che la pietra non ha in proprio alcun essere, ma essa altro non è che certi limiti nei quali viene ristrettamente concepito ed affermato l'essere divino. Il Rosmini rigetta affatto la prima ipotesi siccome assurda: rigetta la seconda siccome falsa: e si appiglia alla terza, nella quale ogni ente contingente non ha essere propriocreato dal nulla, ma è una forma sospesanell'essere, è costituito dai soli limiti. «L'ente finito è un termine o forma impropria dell'essere stesso quasi sospesa nell'essere » (Esp. § XIII). Poichè l'essenza di Dio è l'essere, viene che l'ente finito è una forma impropria quasi sospesa nella essenza di Dio. Ma perchè la dice impropria? Perchè è una forma che non è costituita che da limiti. «Il reale finito non ha per sua forma reale subiettiva od estrasubiettiva se non i limiti che lo determinano, lo dividono, lo distinguono» (l. c.). Ed ancora: «Il reale finito è quello che limita l'essere» (l. c.) di più «l'ente finito non racchiude altro che una pura relazione» (l. c.). Per lo che siccome la quiddità, come dicemmo col Rosmini, di Dio è l'essere, cioè la stessa entità, la quiddità del finito non è l'essere o l'entità, ma i limiti concepiti in quella: però l'entità di quello è positiva, di questo è negativa. «Si ritrae questa formula, che la quiddità dell'ente infinito è costituita dall'entità, ed è positiva; e la quiddità dell'ente finito è costituita dai limiti dell'entità ed è negativa» (l. c.).
Se non che giova riflettere che se da un lato sembra che il Rosmini tolga ogni essere proprio alle cose finite, considerando le medesime quali semplici forme sospesenell'essere, da un altro lato sostiene che tutto ciò che si può considerare nelle cose è essere. «Perchè dunque si dice assolutamente: la pietra è essere, l'uomo è essereecc? Perchè io non posso in alcuna maniera trovare nella pietra o nell'uomo qualche cosa che non sia essere, per quantunque e in qualunque modo io la scompongo col pensiero: anche tutte le differenze delle cose sono essere: perciò si dice che le cose sono essere (Esp. § XIII).» E qui dice bene il Rosmini perchè tutto ciò ch'è nella cosa è essere; essere è l'attuazione della essenza, essere è la sostanza, essere sono persin gli accidenti; onde l'Aquinate trae la conseguenza che l'effetto di Dio creatore è l'essere della cosa, e che l'oggetto della creazione è il medesimo essere: conseguenza impugnata dal Rosmini a cagione della sua dottrina infetta di panteismo.
Ma come mai si possono conciliare tra di loro quelle due sentenze del Rosmini, che appaiono così disparate; nella prima delle quali riduce il reale finito a pura forma come sospesa nell'essere; la seconda che tutto ciò ch'è nella cosa è essere? Facilmente si spiega dicendo che tutto ciò che nella cosa ha la ragione dell'essere, prescindendo dai limiti, è divino, è eterno, è necessario, è l'essere di Dio: e non dando alla cosa, come in proprio, che i limiti concepiti ed affermati nell'essere. L'essere divino è sostanza, è intelligenza, è vita, è attività, è sentimento, è tutto ciò che v'ha di positivo nei finiti; ma in esso è illimitato è infinito, ond'è che a determinare i finiti altro non occorre che limitare col pensiero l'essere. «C'è nel reale infinito l'attività, il sentimento, l'intelligenza, tutto in una parola quello che c'è nel reale finito, ma c'è assai più e in un modo assai più eccellente: ciò che si aggiunge dunque per determinare questo, non sono che i limiti; determinato poi, nello stesso tempo l'affermazione divina lo fa esistere [7].» Le quali ultime parole se si potessero intendere così che la divina volontàcreasse dal nulla l'essere limitato a similitudine di quello concepito, il panteismo sarebbe evitato; ma, come ex professotrattando della creazione rosminiana vedremo, siffatta interpretazione riesce impossibile per molte ragioni, e qui ci basti quella che discende dalla presente dimostrazione. Cioè che non si può dire giammai, secondo il Rosmini, che vi sia essere dal nulla creato, essendo l'essere uno, semplice, necessario ed increato. Adunque l'ente finito partecipa di quest'unico essere, perchè Dio afferma la presenza dell'essere suo entro que' limiti che sono la quiddità del medesimo ente finito. «Iddio è puro essere, l'essere stesso assoluto: ecco la sua natura. L'ente finito, come abbiamo dimostrato di sopra, non è l'essere, benchè l'essere gli sia necessario, chè altramente nulla sarebbe: egli ne partecipa, l'essere gli è presente. Se l'ente finito non è l'essere, ma solo dipende continuamente dall'essere, il che si dice anche partecipar l'essere, che cosa è dunque? Noi abbiamo distinto l'essere dalle sue forme, e abbiamo detto che il reale dell'universo è una forma, ossia un termine dell'essere, la forma della realità. Quest'è la forma subiettiva e l'universo in sè non è che questa forma subiettiva. L'essere le sta aggiunto acciocchè sussista, ma non è dessa nè si confonde con essa, essendo essa individua e l'essere universale e eguale per tutti gli individui finiti. Quindi quando si prende l'essere come subietto di tutte le cose mondiali, esso è un subietto puramente dialettico; laddove quando si prende l'individuo reale come subietto, e di lui si predica l'essere, si parla d'un subietto reale. Gli enti mondiali sono dunque subietti reali, e come subietti reali operano, e non come essere, il quale non è dessi, ma solo il loro comune subietto dialettico [8].» Sebbene il lettore da ciò che sopra abbiam detto sopra la significazione della parola dialettico (vedi Espos. § III e circa alla metà dell'art. prec.) possa capire ciò che il Rosmini intenda nella recata testimonianza, pure la chiariremo con questa similitudine. Eccoti una candida tela, tutta uniforme: vi sieno messi di sopra dei merletti colorati a traforo. Se tu, prescindendo dai forellini del merletto, pensi alla tela, la concepirai dialetticamente, perchè così non esiste, sebbene così sia da te pensata: in sè esiste sotto il merletto. A cagione dei fili onde questo è costituito, nella tela uniforme tu vedi quà una figura, colà ne vedi un'altra riferendo i limiti designati dai fili colorati alla sottoposta tela, la quale è presente a que' forellini, ed ai fili come aggiunta: ed entro a que' limiti operando è cagione della sensazione svariata che provi nel percepire le varie figure. La tela ti dà la similitudine dell'essere unico per tutti gli enti, che sono l'ente assoluto e i finiti. L'assoluto è tutta la tela, perchè l'essenza di Dio è l'essere: i finiti sono i forellini a' quali è aggiunto l'essere che sta tra loro, il quale essere sebbene in sè e dialetticamente considerato sia uno e indeterminato, tuttavia veduto a traverso dei limiti è molteplice con varii termini. Non è nostra questa similitudine, la togliamo dallo stesso Rosmini. «Se si considera la relazione che i termini finiti dell'essere hanno coll'essere indeterminatoinformante secondo natura le menti create (e qui si raccomanda al lettore di sbandire ogni nozione soggettiva dell'essere ammessa dagli scolastici e solo pensare all'intuizione immediata dell'essere in sè come vuole Rosmini), non è possibile concepire che quell'essere sia limitato, determinato, finito, se non riportando ad esso i termini finiti, quasi come quando si applica ad una tela bianca un merletto a traforo di qualche colore, che la tela nulla ne soffre o si altera punto, ma sovr'essa tuttavia appaiono gli occhi coloriti e le maglie del merletto, e tutte le ripiegature, intrecci e gruppi de' fili, e ciò perchè la vista di chi riguarda unisce quelle due cose riportando l'una sull'altra. In nessun altro modo che per questo cotal confronto, che la mente fa, si potrebbe concepire alcuna differenza su quell'essere indeterminato, uniforme e del tutto semplicissimo, ed è per questo che egli, anche dopo essersi concepito determinato con questo sguardo, apparisce all'altro sguardo dell'intuito indeterminato come prima. In questa relazione pertanto che fa la mente tra il reale finito e l'essere, essa trova l'ente finito [9]
Ma troppo quest'articolo è cresciuto, ed assai ci rimane a dire, perchè l'accusa fatta, non all'intenzione del Rosmini, ma alla sua dottrina di essere reo panteismo, vuol essere così dimostrata che non si possano opporre che ciance e sofismi, alle quali cose l'uomo saggio non bada, nè perde tempo nel confutarle. Intanto rimanga fermo che il Rosmini ammette un unico essere, il quale è l'essenza di Dio; per lui gli enti non hanno proprio essere: ma quell'essere unico e divino si aggiunge ai limiti onde è costituita la quiddità degli enti. Non v'è produzionedi essere ma sola presenza, senza la quale ogni ente è nulla. –– Questo è panteismo.


NOTE:

[1] L'ontologismo non consiste nell'ammettere la immediata intuizione della divina essenza: e questa intuizione è apertamente negata dallo stesso Malebranche, come altrove abbiamo notato.
[2] Vol. I, pag. 188.
[3] Vol. I, pag. 60.
[4] Opusc. Comp. Theol. cap. 14.
[5] Vol. I, pag. 162.
[6] Vol. I pag. 114.
[7] Vol. I, pag. 302.
[8] Vol. I, pag. 450.
[9] Vol. I, pag. 382.