venerdì 30 novembre 2012

Monte Pertica, l’ultima battaglia dei “Diavoli bruni”

di ROBERTO GIURASTANTE*

Monte Pertica, baluardo difensivo della linea del Grappa, 27 ottobre 1918. La montagna di 1.549 metri è stata una delle cime più contese tra italiani ed austriaci da quando, dopo lo sfondamento di Caporetto, il fronte si è stabilizzato sul Piave. Conquistato e riperduto più volte nel corso di un anno dagli austriaci, ora il Monte è in mano italiana.
La guerra sta volgendo al termine. L’Impero austroungarico si sta disgregando sotto la spinta dei nazionalismi. Un Impero glorioso che ha scritto la storia d’Europa creando il primo Stato sovrannazionale frutto della tolleranza sta implodendo travolto dalle ideologie totalitariste emerse dall’inferno dell’immane strage della guerra. E quel che rimane del suo esercito vittorioso, che sul campo ha sconfitto il nemico, si trova ora in fase di rapida dissoluzione. La situazione sul fronte italiano sta precipitando. Le divisioni ormai sbandate cominciano a ritirarsi. Cechi, slovacchi, ungheresi, sloveni, polacchi, ucraini, ruteni, serbi, croati, bosniaci, romeni, vogliono tornare a casa, nelle nuove Nazioni che si stanno costituendo dalla caduta dell’Impero. Pochi reparti rimangono fermi a tenere il fronte senza cedere, fino all’ultimo. Tra questi il glorioso 7° reggimento Khevenhüller. L’invitto reggimento, tra i più decorati dell’esercito austroungarico, si trova ora ad affrontare da solo l’ultima battaglia: l’attacco al Monte Pertica.
“Diavoli bruni” li chiamano gli italiani. Sono gli indomiti montanari carinziani vittoriosi sul S. Michele, sulle Alpi Giulie, nello sfondamento di Caporetto e nelle battaglie sul Grappa. Ma il reggimento è ormai l’ombra di quel fiero reparto che nel luglio del 1914 partiva da Klagenfurt tra i festeggiamenti della popolazione diretto al fronte russo. A pochi giorni dal termine della guerra è ridotto a 1/3 dei suoi effettivi originari. Poco più di mille uomini. I pochi reduci delle tante battaglie uniti ai riservisti della territoriale e ai ragazzi. Giovani di 17 – 18 anni e maturi quarantenni formano ora il nerbo di quella che era una delle unità d’elite dell’esercito imperial regio.
L’attacco è inutile perché nessun altro reparto lo potrà sostenere. Una volta conquistata la cima del monte i Khevenhüller non la potranno tenere. Ma gli ordini non si discutono: si deve conquistare il Pertica! Bisogna dimostrare ancora una volta, l’ultima, il valore dei soldati austriaci. E allora all’assalto! Dopo una marcia notturna di avvicinamento durata due ore, alle 5 il reggimento è nelle posizioni previste per l’attacco. Tre battaglioni si lanciano contemporaneamente all’assalto con la copertura dell’artiglieria austriaca. I battaglioni sono preceduti dalle pattuglie di assaltatori che devono eliminare i nidi di mitragliatrici. Il fuoco dell’artiglieria austriaca copre passo a passo l’avanzata. Anche troppo. I tiri corti mietono le prime vittime tra gli attaccanti. Gli italiani presi di sorpresa cercano di organizzare la difesa. Le mitragliatrici crepitano nel buio della notte, il fuoco di fucilieria si intensifica. Ma la marea umana dei Khevenhüller è inarrestabile. Una dopo l’altra le postazioni italiane di mitragliatrici vengono messe a tacere. Alle 6.15 i tre battaglioni del 7° reggimento fanno breccia nelle trincee italiane e dopo furiosi corpo a corpo prendono la vetta del Pertica.
Ma ora la cima così duramente conquistata deve essere difesa dagli immediati contrattacchi italiani. I primi vengono respinti dal fuoco delle mitragliatrici pesanti che i Khevenhüller sono riusciti a portare sulla vetta. Ma senza rinforzi e sempre più a corto di munizioni gli uomini del 7° devono cominciare ad arretrare. Alle 10.30 gli alpini italiani riconquistano le vecchie posizioni. Il 27 ottobre 1918 sul Pertica il 7° reggimento Khevenhüller perde 862 uomini e 35 ufficiali: i due terzi dell’organico. Questi indomabili soldati, che anziché ritirarsi hanno preferito lottare fino alla morte per difendere l’onore della propria bandiera, hanno scritto l’ultima gloriosa pagina nella storia dell’Imperial regio esercito austroungarico.
*http://robertainer.blogspot.it

La psicanalisi è compatibile col cattolicesimo?

ghostbusters
 
“Critica alla psicoanalisi” (Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 2011) dello studioso don Ennio Innocenti.
La lettura è consigliata soprattutto ai cattolici che hanno nutrito dubbi su questa sedicente “scienza”, ma anche a persone non credenti o comunque diffidenti per istinto verso il mestiere dello “strizzacervelli”. Intanto psichiatrìa e psicologìa sono messe subito al riparo dalla critica che investe la psicoanalisi di Freud e Jung, in quanto è solo nei confronti di questa che si leva il sospetto dell’autore, che vi intravede una tenebrosa religione con venature magiche avanzante sotto i panni della scienza medica. Consigliata la lettura di questo mattoncino (oltre 300 pagine), anche ai ‘fieri-laici-illuminati-illuministi’, che dovrebbero avere in odio ogni apodittico e oscuro sistema di idee basato su assiomi indimostrabili che si autoconfermano in modo tautologico. Talvolta, per beffa del destino, capita proprio agli atei razionalisti di credere involontariamente alla Kabbala, che l’autore dimostra essera stata una delle fonti principali della costruzione freudiana.
Mai ero arrivato, prima di aver letto questo libro, a considerare le suggestioni ciarlatanesche delle tante vannemarchi credibili tanto quanto quelle freudiane e junghiane anche se un sospetto già lo nutrivo da quando Evola, non da cattolico, parlò di “infezione psicanalitica”, riguardo la tendenza della stessa ad uccidere la dimensione libera, diurna, cosciente, solare e “apollinea” della persona per sprofondarla nella schiavitù di quella ctonia, tellurica, infera, mossa da esigenze solo istintuali o succuba di archetipi latenti nell’inconscio collettivo (eufemistica descrizione dei demoni?). Lo spiritismo, l’antroposofìa e l’occultismo praticati dalla società Golden Dawn (che oggi malgrado i meriti sociali riecheggia in Grecia col partito Alba Dorata) e da quella Teosofica di Elena Blavatsky furono elementi fondamentali per la formazione di Carl Gustav Jung che ad Ascona, lembo svizzero del Lago Maggiore si ritrovava con diversi personaggi a studiare l’esoterismo, l’alchimìa cinese e a praticare “sedute” particolari con libertine, annoiate e ricchissime donne disposte a seguire i percorsi suggestivi junghiani pagando profumatamente.
Giuseppe Vattuone afferma che Freud, “contrariamente alla regola costante della scienza medica – da lui praticata all’università – che procede dall’anatomia fisiologica ecc. dell’uomo sano detto normale, per capire la malattia dello stesso corpo – inizia la sua osservazione dai malati mentali. … Il medico (non il filosofo, non il teologo) Freud, paradossalmente, ignota che per intraprendere lo studio dei fenomeni patologici della psiche, avrebbe dovuto dimostrare l’anatomia, la fisiologia ecc. della cosiddetta psiche normale, al fine di riconoscerne e curarne la malattia”.
Il freudismo viene sottoposto ad una “contro-analisi” in rapporto alle categorìe della scienza, della medicina, della logica, della filosofìa, evidenziandone i tratti incompatibili con le esigenze della giustizia penale. Lo stesso Sigmund Freud viene raccontato attraverso i suoi rapporti familiari, religiosi, professionali, sentimentali e ovviamente sessuali (omo ed etero…), mettendo in luce anche l’ambiguità deontologica dell’uso/abuso della cocaina somministrata alle pazienti e dell’ accettazione felice di poter avere rapporti sessuali con le pazienti senza “compromettere” quelli “professionali”.
Rileva acutamente Piero Vassallo riguardo alla infatuazione psicoanalitica di un certo cattolicesimo progressista: “Chiuse le porte della ragione, le finestre spalancate dall’ostinazione neomodernista lasciano, purtroppo, avanzare la voce babelica e sgangherata del freudismo in quelle parrocchie, che sono ancora stordite e sbalordite dalle sfavillanti luci del balletto Excelsior… Antagonista allucinato e calunniatore di Mosé, Freud incarna la figura del messia nichilista, che si affaccia all’orizzonte dell’estenuata modernità per annunciare la fine della qualunque speranza… Partendo dall’ipotesi che esista uno stato di natura anteriore a quello civile, si può sostenere che tra individuo e società ci sia un conflitto e che la società sia repressiva del vitalismo umano… L’opera di don Innocenti è anzi tutto intesa a dimostrare, l’inconsistenza scientifica della psicoanalisi per poi risalire alle torbide fonti esoteriche del pensiero freudiano. A sostegno della sua tesi, don Innocenti cita le testimonianze di illustri scienziati, quali Luigi Gedda, Giuseppe Maria, Giuseppe Vattuone, Michele Malatesta, Giuseppe Grasso, Giuseppe Sermonti.”.
A leggere l’ecclesiologìa di Anselm Grun infatti, o la sua “rilettura” della Bibbia in chiave psicanalitica si rimane allibiti, anche se il capolavoro sincretistico col cattolicesimo sembra frutto di quel Leonardo Ancona che dava per certa la nevrosi allucinatoria dei santi (nella sua opera su Santa Maddalena), giustificando le teorìe per cui in fin dei conti e brutalizzando il discorso “sono tutti mezzi matti”. Sarà poi lo “spirito santo” che in un afflato di generosità, andrà a “ratificare” quella follìa dandole dignità soprannaturale. Quell’istinto irrefrenabile che senza libertà ha prodotto atti o pensieri, verrà così “sublimato” dall’Alto essendo l’uomo irreparabilmente determinato dall’inconscio. Ecco, siamo ormai ad una concezione della Grazia e del libero arbitrio quasi completamente protestantizzati. Dobbiamo a questa deriva la considerazione della impossibilità psicologica a prestare il consenso matrimoniale, che ha influito in modo decisivo a parere di chi scrive, per introdurre il Divorzio “cattolico” col timbro rotale. Infatti la possibilità di annullare un matrimonio valido è molto più praticata e consentita rispetto al passato.
 
Pietro Ferrari
 
Fonte:
 

Postille a “Il dolce musetto di Satana”

 
 
Visto che il mio primo ed ultimo (per ora) articolo su Radio Spada è stato oggetto di parecchie polemiche (che a me sembrano per la gran parte frutto di una mancata comprensione di quanto ho scritto), mi è parso opportuno aggiungere qualcosa al fine di chiarire ciò che è stato – da alcuni – mal compreso.
Infatti, se qualche sporadica incomprensione è inevitabile, quando le incomprensioni e le polemiche diventano troppo numerose, sorge nell’autore il sospetto o il timore di non essersi spiegato sufficientemente.
In primo luogo, vorrei chiarire di non aver additato come “satanisti” o “posseduti” né gli animalisti né coloro che amano il proprio cane. Credevo di averlo detto in maniera abbastanza chiara in conclusione della seconda parte dell’articolo[1], ma è bene ribadirlo. Aggiungo che io stesso avevo un cane, di nome Lara[2].
Non ho neppure detto che è da “satanisti” il non mangiare carne. Conosco i molti Santi che si sono astenuti dal mangiare carne, conosco i molti Santi che hanno amato gli animali ed io stesso mi astengo dalle carni ogni venerdì dell’anno e negli altri giorni in cui la Chiesa lo prescrive.
Non ho neanche negato che probabilmente, forse, chissà, nel Paradiso Terrestre non si mangiava carne ma solo frutta che la natura produceva spontaneamente (se si volesse interpretare in tal senso Gen. 1,29, anche se poi, in base a Gen. 1,30 dovremmo dire che anche gli animali tipo: leoni, tigri, coccodrilli, aquile, falchi, pitoni, boa, squali, piraña, etc si cibavano solo ed esclusivamente dei frutti della natura[3]).
Ho anche scritto che le animaliste (o gli animalisti) sono brave persone, potenzialmente delle sante o delle missionarie, che potrebbero fare gran bene all’umanità ed arrecare gran gloria a Dio.
Com’è possibile, dunque, che io sia stato frainteso?
Ciò che ho affermato è che l’inganno di Satana consiste nel “deviare” il naturale sentimento di bontà, di premura, di “devozione” di queste persone su oggetti diversi da quelli per i quali si avrebbe un merito celeste.
In altre parole, se il comandamento di Cristo dice ci dice di amare Dio con tutto il corpo, con tutta la mente e con tutta l’anima ed il prossimo nostro come noi stessi[4], Satana sa che se noi facciamo questo potremo salvare la nostra anima e sfuggire alle sue grinfie. Siccome si rende conto anche di avere a che fare con BRAVE PERSONE, difficili da tentare con peccati evidenti (San Doroteo faceva l’esempio di peccati quali prostituirsi o rubare[5]), le inganna facendo loro credere di star facendo qualcosa di buono e meritevole (dedicare tutta la propria vita, tutti i propri soldi e tutte le proprie energie alla cura dei cani/gatti/topi/cavalli/oranghi del Borneo/etc…), ma in realtà li DISTRAE dal far del bene al prossimo, cioè ad altri UOMINI, dall’amare i propri NEMICI (anzi li spinge ad odiare i propri nemici: cacciatori, gente che maltratta gli animali, signore con la pelliccia, etc etc, a cui alcuni[6] “animalisti” augurano morte, malattie ed ogni male possibile[7]…).
Orbene, nel giorno del Giudizio saremo giudicati per aver dato da mangiare, bere, per aver vestito, per aver visitato in ospedale od in carcere i nostri fratelli[8], cosa molto difficile da fare, perché i nostri fratelli ed il nostro prossimo sono spesso persone antipatiche, buzzurre e becere (come me e gli altri autori di questo blog[9]) le quali ci fanno proprio schifo! È molto più semplice e gratificante[10] aiutare ed accudire i cagnolini che sono sempre grati e scodinzolanti e mai ingrati e pieni di pretese come gli uomini, che spesso ricambiano il bene fattogli con il male.
E tuttavia, o forse proprio per questo, Cristo ci giudicherà in base a quanto avremo aiutato il prossimo, amato i nostri nemici e pregato per i nostri persecutori. Non in base a quanto avremo amato gli animali[11].
Pertanto io affermo che NON C’È NULLA DI MALE o di satanico nell’amare gli animali, nell’amare il proprio cane o nell’essere vegetariano, così come non c’è nulla di male nell’amare la propria collezione di penne stilografiche o di francobolli, nell’amare la musica di Mozart o Beethoven, nell’amare la squadra della Juventus o del Milan, nell’amare Parigi o Londra, nell’amare i puzzle o le parole crociate[12].
E tuttavia, poiché nessuno di quelli che amano le stilografiche o Mozart o la Juventus o Parigi o l’enigmistica crede di essere un santo o un missionario o di essere divenuto una “persona migliore” da quando pratica queste attività, e invece molti di quelli che diventano “vegani” o “animalisti” o “gestori di canili” lo credono, mi sembra che questi ultimi siano in un pericolo maggiore di essere ingannati da Satana nel modo descritto da Doroteo di Gaza e quindi mi sembra doveroso, senza alcun intento provocatorio, “metterli in guardia” a tal proposito[13].
Un’ultima osservazione sull’aborto. Mi è stato fatto notare che non sarebbe vero che «il militante medio animalista è poi a favore dell’aborto umano». Mi auguro che ciò sia vero, sebbene la mia – pur rudimentale e limitata alle persone che conosco[14] – statistica evidenzi il contrario. In ogni caso, se anche la percentuale di animalisti “pro choice[15]” fosse solo del 40 o del 30 o del 20% resterebbero comunque valide le considerazioni svolte sulla deriva filosofica verificatasi negli ultimi decenni e secoli.
Qualcun altro invece ha affermato che il paragone aborto/animalismo è assurdo. Io attendo di sapere come si possa giustificare filosoficamente (o logicamente), in maniera diversa da quella da me descritta, la posizione di chi è – al contempo – contro l’uccisione degli animali ed a favore dell’aborto umano.
Pierfrancesco Palmisano

[1] «Sicuramente non si fa niente di male a voler bene al proprio cane o ad essere gentile con gli animali…»;
[2] Mi sto autonorimberghizzando…
[3] Certamente gli amici animalisti avranno una loro “opinione” anche su Gen. 3,21 e Gen. 4,4…;
[4] “Il prossimo” sono evidentemente altri UOMINI… se poi qualcuno vorrà sostenere che il prossimo sono anche gli “animali non umani”, dichiaro sin d’ora di alzare le braccia ed arrendermi…;
[5] In apertura della prima parte dell’articolo avevo riportato questo passo, che si ricollegava poi al finale della seconda parte… è forse sfuggito a qualcuno questo collegamento? «Quando il Divisore [cioè Satana] vede qualcuno che non vuole peccare, non è così sprovveduto nella sua malizia da suggerirgli un peccato evidente e manifesto; non gli dice: “Va’ a prostituirti”, oppure “Va’ a rubare”. Egli sa che non vogliamo fare queste cose e non prova a dirci quello che non vogliamo, ma, come dicevo, appena trova in noi una volontà propria o una pretesa di autogiustificazione, se ne serve a nostro danno con pretesti apparentemente ragionevoli. Quando ci attacchiamo alla nostra volontà e ci affidiamo alle nostre pretese di giustizia, allora, proprio quando crediamo di fare qualcosa di buono, tendiamo insidie a noi stessi e non ci accorgiamo che ci stiamo perdendo»;
[6] non generalizziamo, per carità!
[7] da poco ho visto su facebook uno “screen” nel quale si potevano leggere, alla notizia della morte di un 14enne in un incidente di caccia, i commenti di giubilo e di festeggiamento di alcuni “animalisti”… mi auguro che si trattasse di un “fake”, come si dice in gergo internettiano…
[8] vale quanto detto alla nota 4;
[9] immaginino le animaliste che leggono quanto sarebbe più difficile per loro accudire noialtri invece dei loro cagnolini… molto più difficile e dunque molto più meritorio!
[10] per lo meno apparentemente ed inizialmente;
[11] vale sempre quanto detto alla nota 4;
[12] ovviamente a meno che si sperperino in queste cose soldi che potrebbero più utilmente (per la propria anima in primis) essere destinati ad attività caritatevoli;
[13] I Santi “animalisti” e/o “vegetariani” di cui si diceva sopra, facevano le cose nel giusto ordine: in primis amavano Dio con tutto il cuore, poi amavano il prossimo loro come se stessi. Infine, per sovrappiù, avevano cura e tenerezza per il creato e per gli animali e si astenevano dal mangiare carne un po’ per questo motivo e soprattutto come pratica ascetica e come sacrificio e privazione personale, come appunto fanno, ancora oggi, i cristiani ogni venerdì;
[14] forse si tratta di mia personale sfortuna?
[15] ovvero che ritengono che la donna possa scegliere se abortire o meno. La cosa in Italia è regolamentata dalla L. 194 del 1978.
 
Nota redazionale: nell’immagine che accompagna l’articolo compare Frida II, fedelissima e assai rimpianta gatta di uno dei redattori di Radio Spada
 

Primarie: hanno vinto i trinariciuti

Anche la domenica delle Primarie – da scrivere rigorosamente con la P maiuscola – è passata. Come era prevedibile, Bersani ha ottenuto la maggioranza. Seguono Renzi – orgogliosissimo di aver vinto nelle regioni rosse, Vendola – felicissimo di aver elemosinato voti delle “forze” più depravate della Nazione, il povero Tabacci – abbandonato sia dai cattolici che dai compagni e – infine – la Puppato, messa lì solo perché le Primarie – scritte con la P maiuscola – non hanno senso se non concorre una donna. È la logica delle quote rosa, bellezza.
Nella notte si è assistito ad uno blackout degli aggiornamenti e, subito, il popolo delle Primarie ha denunciato il complotto: “insabbiano lo spoglio”, “stanno cercando di far fuori il demo-compagno Tabacci”, “Berlusconi, dimettiti!”, “servono più scrutatori tecnici per riprendere lo spoglio”…
Ovviamente, non c’è stato nessun insabbiamento, compagni. I brogli stanno a monte e sono intrinseci al fu Partito Comunista, oggi Partito Democatico. Nel 2009 una responsabile del P.D., se non sbaglio di una sezione comasca, mi disse: «vorrei votare Marino, ma come si fa? I nostri dirigenti provinciali hanno già deciso chi dovrà esser votato dalla nostra sezione: Bersani». Quella donna mi fece una pena enorme: non tanto perché costretta a votare un politico del calibro di Bersani, ma perché aveva deciso di non ragionare con la sua testa. Quella donna aveva accettato di diventare massa informe al grido di «obbedienza cieca, pronta e assoluta».
Ma, come – diranno i nostri lettori – Renzi non ha forse ottenuto il 36% dei voti e Vendola il 15%? È vero, cari amici: ma i voti di Renzi sono dovuti, in gran parte, ad elettori di centrodestra che – non avendo candidati seri dalla loro parte – stanno cercando, giustamente, di sabotare l’avversario. Mentre Vendola – che ha alle spalle, oltre al proprio compagno, anni di cattiva gestione regionale – ha semplicemente raccolto il voto dei vari movimenti LGBT ed associati, che – purtroppo – rappresentano una lobby potentissima.
Non spaventatevi, compagni: le Primarie – rigorosamente con la P maiuscola – sono andate come dovevano andare: ha vinto il potente del Partito. Non c’è stato nessun insabbiamento dovuto al blackout delle notizie: tutt’al più, è stata la Bindi che, per non spaventare gli scrutinatori, ha deciso di far calare il buio, staccando la corrente.
 
Matteo Carnieletto
 
Fonte:
 

Un uomo, un ideale, un’epopea – Plinio Corrêa de Oliveira

 
 
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L'impresa dei Mille

La storica "impresa dei Mille" inizia storicamente il 6 Maggio 1860 con la partenza dei volontari da Quarto sui battelli a vapore Piemonte e Lombardo che Giacomo Medici acquista a nome di Garibaldi dalla società Rubattino.

Come garanti del rogito furono il re Vittorio Emanuele II e il conte Camillo Benso di Cavour.
E' ormai accertato che a finanziare la spedizione fu il governo inglese con una cassa di piastre d'oro turche che al tempo era la moneta di scambio del Mediterraneo.

L'esercito sabaudo, nella figura del maggiore Giorgini, armò la spedizione fornendo carbone, fucili, munizioni e 4 cannoni che vennero imbarcati a Talamone e e ad Orbetello
Lo sbarco avvenne il giorno 11 dello stesso mese a Marsala sotto lo sguardo vigile della flotta inglese che impedì di fatto alle navi borboniche di impedire l'invasione.
Sulle coste siciliane sbarcarono quindi 1089 uomini tutti della media e alta borghesia con provenienza per la metà dalla Lombardi e dal Veneto.
In appoggio alle camice rosse intervennero numerosi esponenti della malavita locale e in special modo dai capimafia Miceli e Badia radunati da alcuni nobili latifondisti come Rosolino Pilo conte di Capaci.
Il governo borbonico attivò le proteste presso il governo inglese e piemontese contro l'atto di pirateria tramite il ministro Carafa, proteste che caddero nel vuoto.
A Salemi Garibaldi il 13 maggio si autoploclama dittatore della Sicilia con l'appoggio del barone Sant'Anna.
Le collusioni e le corruzioni impediscono all'esercito regolare al comando del generale Landi (comprato con una fede di credito di 14000 ducati dai carbonari) di distruggere i garibaldini a Calatafimi dove il maggiore Sforza con sole 4 compagnie di cacciatori sbaraglia le forze invasori e le insegue ma deve desistere per la mancanza di munizioni e quindi deve ripiegare verso Palerno dove si stava ritirando il grosso delle forze lealiste.
E' incredibile il fatto che Landi non venne nemmeno sottoposto al giudizio di una corte marziale ma semplicemente sollevato dal comando dal generale Lanza che inviò 2 colonne di contrasto contro i garibaldini, una formata dal 3° battaglione estero, comandata dal maggiore Von Meckel, e l’altra dal 9° Cacciatori, al comando dal maggiore Ferdinando Beneventano del Bosco, per un totale di tremila uomini con quattro obici da montagna.
Un primo scontro avvenne a nelle campagne di Partinico, dove circa mille “filibustieri” furono rapidamente messi in fuga da Von Meckel. In questo scontro morì Rosolino Pilo. Il resto delle armate rosse con Garibaldi in testa, si rifugiò sul monte Calvario. Il giorno successivo, al primo attacco dei borbonici, Garibaldi, quasi circondato, fuggì fortunosamente nella notte con il resto delle sue truppe alla volta di Corleone.
Giunti al quadrivio di Ficuzza, i Garibaldini si divisero in due gruppi, uno con alla testa Garibaldi indirizzò verso Palermo, l’altro al comando di Orsini prese la strada per Corleone. Ad inseguire Garibaldi furono i reparti di Von Meckel, mentre le truppe di del Bosco inseguirono Orsini che, attestatosi a Corleone, fu immediatamente investito dalle truppe borboniche che lo annientarono con un rapido e violento assalto.
Von Meckel, intanto, aveva saggiamente inviato velocemente il grosso delle sue truppe con al comando il maggiore Colonna a posizionarsi al ponte delle Teste, poco fuori Palermo, per tagliare la strada ai filibustieri, i quali stretti tra due fuochi sarebbero stati facilmente sbaragliati.
Ma il Colonna all'arrivo trovò il generale Lanza che gli ordinò di acquartierarsi in città e quindi di non schierarsi.
La città in pratica aveva gli accessi (Porta S.Antonino e Porta Termini) praticamente sguarnite.
Con questo stato di fatto Garibaldi, che intanto era stato rafforzato da 3500 picciotti mafiosi, entra in Palermo attraverso Porta S.Antonino.
I borbonici in quel momento avevano in città circa 16000 uomini che il generale Lanza lasciò rinchiusi nei forti.
La stessa sorte la ebbero il 1° e il 2° battaglione esteri inviati da re Francesco II che rimasero imbarcate sui bastimenti fino al giorno 29 quando venne ordinato loro di occupare il palazzo reale.
Da notare inoltre che nel porto di Palermo vi era una consistente forza navale borbonica che non venne praticamente impiegata mentre navi piemontesi rifornivano impunite armi ai garibaldini.
In questo stato di cose Garibaldì occupò il palazzo pretorio usandolo come quartier generale e al carcere della Vicaria assoldò altri mille delinquenti comuni portando così il numero delle sue bande a circa 5000 uomini.
Le truppe di Von Meckel, giunto intanto a Palermo, all’alba del 30 attaccarono i garibaldini, sfondando con i cannoni Porta di Termini ed eliminando via via tutte le barricate che incontravano. L’irruenza del comandante svizzero e della sua truppa fu tale che arrivò rapidamente alla piazza della Fieravecchia dove era pronto ad assaltare il quartiere S. Anna, vicino al quartier generale di Garibaldi, che praticamente non aveva più vie di scampo. A fermare il maggiorefurono i capitani di Stato Maggiore Michele Bellucci e Domenico Nicoletti che, con l’ordine del Lanza, gli intimarono di sospendere i combattimenti perché ... era stato fatto un armistizio.
La rabbia dei soldati borbonici altamente motivati fu tale che vi furono episodi di disobbedienza con il proposito di combattere comunque nella notte, ma vennero fermati dal colonnello Buonopane perché a suo dire “non era finita la tregua” .
Il Garibaldi ed il Türr, insieme agli emissari borbonici Letizia e Chretien, si recarono il 31 maggio sul vascello inglese Annibal, ove, presenti anche ufficiali americani, conclusero i patti dell’armistizio. I giorno dopo il dittatore, annunciò boriosamente che aveva concesso la tregua per umanità. Tra gli accordi, però, era imperativa la condizione della consegna del denaro del Banco delle Due Sicilie di Palermo al Crispi e dello scambio dei prigionieri. I garibaldini vennero in possesso così di oltre cinque milioni di ducati in oro e argento che successivamente venne impiegata in parte per la “conversione” di altri ufficiali duosiciliani e il rimanente fu distribuita ai garibaldini, compresi i capi.
Un'altra condizione era che l'esercito borbonico lasciasse la città, questo avvenne l’8 giugno dove oltre 24.000 uomini, lasciarono Palermo per recarsi ai Quattroventi per imbarcarsi, tra lo stuporee la rabbia della popolazione che non riusciva a capire come un esercito così numeroso si fosse potuto arrendere senza quasi neanche avere combattuto.


Fonte:


http://www.duesicilieoggi.eu/

    I borbone e i pirati, Ferdinando e lo schiavismo

    Le fregate "Cristina" e "Regina Isabella" furono inviate a Tripoli. La squadra navale era investita di una delicata missione: studiare con il console delle Due Sicilie le possibilità di un eventuale compromesso e, nello stesso tempo, valutare la consistenza delle difese di quel porto. L'accordo si rivelò impossibile ed il bey fissò un termine di due mesi per ottenere la somma richiesta.
    Fu decisa, quindi, un'azione navale. Una flotta composta di navi di vario tipo e da diverse cannoniere il 22 agosto si schierò su due file di fronte al porto di Tripoli. Verificata l'indisponibilità del bey ad una composizione pacifica della vertenza, il 23 agosto iniziò il cannoneggiamento contro i fortini del porto. L'attacco contnuò per una settimana. Il 28 agosto i tripolini tentarono una sortita, ma furono respinti.
    La flotta napoletana si ritirò, ma il problema non era stato risolto: il bey, infatti, continuò ad aggredire le navi mercantili che transitavano nello Jonio e nel canale di Sicilia. Il 27 settembre la "Regina Isabella" ed il "Principe Carlo" intercettarola la "Mabrouka", goletta tripolina con 56 uomini d'equipaggio, la catturarono e la trasportarono nel porto di Trapani. A questo punto, il bey venne a piú miti consigli ed il 28 ottobre 1828 si decise a firmare a diverse condizioni un nuovo trattato di pace.
    Ma, non era ancora finita. Il 23 marzo 1833 fu sottoscritto un accordo di reciproca assistenza contro la pirateria con il Regno di Sardegna: fu decisa un'azione navale congiunta contro il bey di Tunisi. L'iniziativa si concluse positivamente il 10 maggio, mentre il 17 novembre veniva sottoscritto a Tunisi un trattato di pace e di amicizia fra il bey ed il Regno delle Due Sicilie. Con quell'accordo si confermava una precedente convenzione, sottoscritta il 17 aprile 1816, in base alla quale la bandiera delle Due Sicilie era considerata come quella della "nazione piú favorita".
    L'epoca della pirateria impersonata nei barbareschi del Nord Africa era, ormai, al tramonto. Tuttavia, si ebbe ancora un colpo di coda. Nel 1834, infatti, sorsero nuovi "dissensi" con il Marocco. Materia del contendere: il rispetto della libertà di navigazione nelle acque mediterranee ed atlantiche di quel paese. Si sapeva che il sultano Mulay Abdel Rahman stava armando navi da guerra.
    Fu deciso pertanto che un raggruppamento navale delle Due Sicilie effettuasse una "dimostrazione" davanti alle coste marocchine. La divisione composta da una fregata, da una corvetta e da una goletta partí da Napoli il 13 maggio. Il retro ammiraglio Giavan Battista Staiti, giunto a Gibilterra, prese contatto con Mulay Abdel Rahman attraverso il console delle Due Sicilie per sapere se il sultano accettava le proposte del governo di Napoli per il rinnovo del trattato di amicizia. La fregata "Regina Isabella" uscí in Atlantico e costeggiò, verso sud, i litorali marocchine fino a Salè, effettuandovi delle manovre. Poi si ricongiunse con le altre unità della divisione a Cadice.
    Il 23 giugno il trattato era sottoscritto dagli emissari del Sultano e dai rappresentanti di Ferdinando II: le basi erano le stesse di un precedente trattato del 1782. Un consolato delle Due Sicilie era aperto a Tangeri, alle navi "dalla Real bandiera napolitana coverte" si riconosceva piena libertà di navigazione ed al Sultano si accordava un donativo di 16.000 colonnati "una tantum".
    Da quel momento non si hanno piú notizie di aggressioni da parte di pirati barbareschi contro navi, paesi e beni delle Due Sicilie. Un'epoca si chiude, mentre si profilano i presupposti per la nascita di un'epoca nuova. I prigionieri musulmani catturati durante le incursioni erano stati utilizzati per la costruzione della Reggia di Caserta, cosí come i militari e civili delle Due Sicilie catturati dai barbareschi erano stati venduti come schiavi a Tripoli, a Tunisi o ad Algeri.
    Da parte del Regno delle Due Sicilie, però, non c'erano mai stati tentativi di prevaricazione nei confronti dei popoli del Nord Africa: le radici del colonialismo si sarebbero manifestate soltanto all'indomani del 1860 e sarebbero nate in altri contesti, a partire dalle velleità imperialistiche dell'ex garibaldino Francesco Crispi, sensibile esecutore degli interessi della nascente economia industriale "padana": il governo borbonico, per un secolo, si era limitato ad esercitare esclusivamente il proprio diritto alla legittima difesa.
    Il suo obiettivo era sempre stato quello di salvaguardare i propri interessi nazionali e commerciali. Strumento privilegiato per il conseguimento di questi scopi era sempre stato quello di stabilire accordi diplomatici con tutti i governi disseminati sulle sponde orientali e meridionali del Mediterraneo: dalla Sublime Porta di Costantinopoli fino al Sultano del Marocco. Suo interesse strategico era sempre stato quello di stabire con tutti gli stati rivieraschi accordi di amicizia e di collaborazione.
    Risolti gli spinosi problemi posti dalla pirateria che dominava i mari circostanti il Regno, le Due Sicilie - superata qualsiasi forma di rancore per le negative esperienze del passato - si stavano avviando su una strada del tutto nuova: quella del dialogo, della tolleranza, del rispetto per i diritti umani e dei diritti dei popoli. Non ci sono trattati a dimostrarlo, ma qualcosa di molto piú importante, eloquente e convincente. Alcuni fatti, per la verità, poco noti, che riguardano la vita di Ferdinando II.
    Ce ne parla Michele Topa, giornalista e biografo degli ultimi Borboni di Napoli. Uno degli impegni che caratterizzò la vita del penultimo Sovrano delle Due Sicilie fu la lotta contro la tratta degli schiavi. Nessun libro di storia lo dice, ma egli, sin da quando cinse la corona, si occupò di quel problema che lo angosciava ed il 14 febbraio 1838, in una convenzione stipulata con l'Inghilterra e la Francia, assunse con piacere l'impegno ci cooperare, tanto con rilevanti somme di denaro quanto con la forza delle armi, alla lotta per l'abolizione di quel nefando, odioso commercio. Nel Reame introdusse pene severissime contro coloro che avessero esercitato quel turpe mercato.
    Un'altra testimonianza che mette in evidenza lo spirito con cui i Borboni si erano posti nei confronti delle popolazioni di colore è costituita dall'accoglimento, nell'ambito della famiglia reale, di due moretti schiavi, donati a Ferdinando II dal generale Paolo Avitabile.
    Costui, nativo di Agerola, dopo essere stato ufficiale nell'esercito borbonico era emigrato nel Medio Oriente, dove era divenuto vice re del Peshawar, molto agevolando il commercio con il Regno delle Due Sicilie. Ritornato in patria, offrí al Re i due piccoli mori, che si chiamavano Marghian e Badhig. Ferdinando fece immedietamente liberi i due fanciulli, li tenne al fonte battesimale e fu anche loro padrino di cresima. Al piú grandicello, Marghian, diede il proprio nome. All'altro, quello del principe ereditario Francesco.
    Li fece istruire nel collegio dei Gesuiti e successivamente in quello dei Barnabiti. Prima di morire, nel 1859, accordò loro una pensione dalle sue sostanze private. Sia lui che la Regina Maria Teresa, parlando dei due moretti, dicevano 'i nostri figli neri'. Finiti gli studi, Ferdinando Marghian ebbe un'impiego nella biblioteca privata del Sovrano. L'altro, cagionevole di salute, fu affidato al guardarobiere del Re, Gaetano Galizia. Entrambi, diventati adulti, restarono fedeli alla famiglia reale anche nella sventura. Seguirono Francesco II a Capua ed a Gaeta e, dopo la resa della fortezza, nel 1861, a Roma.
    I fatti, è noto, parlano piú di tante parole. Ed a questi fatti si affida la conclusione di una storia che era iniziata con il racconto del tentativo dei pirati algerini di catturare, nelle acque del golfo di Napoli, Carlo di Borbone, il restauratore dell'autonomia del Regno delle Due Sicilie, mentre ritornava a casa dopo una battuta di caccia al fagiano nell'isola di Procida. Fatti inoppugnabili che delineano un inizio ed una fine, attraverso cui si chiude un cerchio. Fatti che ci parlano di quello che avrebbe potuto essere il futuro. Anzi, a ben riflettere, di quello che potrebbe ancora essere il futuro.
    Fonte:

    I borbone e i pirati, nascita dell'Armata di mare

    Era il 21 aprile 1738 quando una squadriglia di sciabecchi algerini, guidata da un rinnegato cristiano chiamato Haji Mussa, era entrata persino nel golfo di Napoli, con un progetto a dir poco ardito, che, tuttavia dà l'idea di quale fosse lo strapotere che i pirati barbareschi avevano raggiunto in quel periodo nel Mediterraneo: erano intenzionati a catturare ed a portare come ostaggio al bey turco di Algeri niente di meno che Carlo di Borbone, l'allora giovanissimo Sovrano, da pochi anni assiso sul trono delle Due Sicilie, di cui aveva ricostituito l'indipendenza.
    Il Re si era recato nella sua tenuta di Procida per una battuta di caccia al fagiano e stava per far rientro a Napoli. Il folle piano non andò a segno, ma l'episodio serví a convincere il Sovrano dell'assoluta necessità di proteggere le popolazioni costiere ed i traffici mercantili del Regno meridionale contro una minaccia che si era fatta gravissima, come ci racconta monsignor Luigi Dal Pozzo, nella sua "Cronaca civile e militare delle Due Sicilie".
    Rapidamente si passò, pertanto, dalle parole ai fatti. Il 25 febbraio 1739 fu stabilito di armare sette navi (quattro galeotte e tre feluconi) che si trovavano in allestimento. Dopo un mese, si entrò in azione. Furono formate tre squadre.
    La prima ebbe il compito di sorvegliare le coste del Tirreno dallo Stretto di Messina fino alle Bocche di Capri, la seconda lo Jonio e la terza la Sicilia con gli arcipelaghi del suo sistema insulare periferico. Il 23 giugno, il primo scontro: al largo di Capo Palinuro. La squadra del Tirreno affrontò due navi corsare (una galeotta ed uno scappavia) provenienti da Tripoli. Furono catturate e condotte nel porto di Napoli.
    Mentre aveva rinforzato le difese ed inferto i primi colpi, Carlo di Borbone cercava saggiamente di percorrere anche un'altra via: quella di un onorevole compromesso con l'Impero Ottomano, da cui dipendevano le reggenze di Tripoli, Tunisi ed Algeri. Questi tre, infatti, erano i principali porti dove venivano equipaggiate ed armate le navi impiegate nelle incursioni dei pirati barbareschi.
    Il 5 novembre di quello stesso anno, quindi, si metteva in moto un meccanismo che avrebbe portato - in un lasso di tempo abbastanza rapido - alla creazione fra la Sublime Porta di Costantinopoli ed il Regno delle Due Sicilie di quelli che oggi verrebbero chiamati "rapporti diplomatici".
    Un delegato del Re partiva per la capitale turca con la nave inglese "Gertrude" ed il 7 aprile 1740, nella sua qualità di rappresentante delle Due Sicilie, sottoscriveva, in nome e per conto di Carlo di Borbone, un "trattato di pace, navigazione e commercio". Per parte ottomana il documento era firmato dal Gran Vizir El Haji Mohamed. Negli archivi napoletani l'accordo sarebbe stato cosí rubricato: "Prammatica Foedus Regium et Othomanum, XCVIII, 1740".
    In esecuzione del trattato il 22 dicembre di quell'anno fu inviato a Costantinopoli un incaricato d'affari del Regno delle Due Sicilie. Mentre, nel giugno 1741, due navi napoletane che avevano portato nella capitale turca doni del Re per il Sultano accompagnarono a Napoli El Haji Hussein Effendi, ambasciatore straordinario della Sublime Porta presso la corte di Carlo di Borbone.
    Il Sultano turco Mahmud Han mantenne la parola e diramò subito l'ordine ai bey del Nord Africa di rispettare il trattato stipulato con le Due Sicilie: i suoi vassalli di Tripoli, Tunisi ed Algeri, però, da un orecchio se lo fecero entrare e dall'altro se lo fecero uscire. Le incursioni dei barbareschi contro le popolazioni costiere ed i convogli mercantili del Regno meridionale, pertanto, continuarono come prima.
    Il 13 agosto 1740, mentre si trattavano i dettagli dell'accordo fra Impero Ottomano e Due Sicilie, due galeotte napoletane sorpresero presso Capo Sottile due galeotte tripoline che preparavano un'incursione. Le assalirono e le affondarono: 78 uomini della ciurma furono portati prigionieri a Napoli.
    La flotta organizzata dal Re Carlo faceva buona guardia e, quasi sempre, riusciva ad avere la meglio sui pirati barbareschi. Il 22 settembre 1743 una squadra di due galeotte delle Due Sicilie ritornava a Napoli con un legno partito da Tripoli, catturato con tutto l'equipaggio. Nella lotta contro la minaccia dei corsari, ben presto, si mise in luce un ufficiale borbonico, che assunse la dimensione di un eroe quasi leggendario: Giuseppe Martinez, alfiere di galera, comandante della "Sant'Antonio".
    La bandiera con i gigli d'oro dei Borbone cominciava a far paura ai corsari del Nord Africa e ne riscuoteva il rispetto: le incursioni si ridussero fin quasi a scomparire. La situazione, però, cambiò ben presto. Quando, nel 1759, il Re dovette partire per Madrid per cincervi la corona spagnola con il nome di Carlo III, il consiglio di reggenza che guidò lo Stato delle Due Sicilie fino al raggiungimento della maggiore età di Ferdinando IV non diede impulso alla marina da guerra. Le coste del Regno, pertanto, non potettero essere adeguatamente protette.
    Nel 1763 il bastimento mercantile napoletano "Sant'Antonio", inseguito dai pirati barbareschi, lungo il litorale pugliese fu costretto ad arenarsi presso Polignano. Nonostante tutto, però, quello stesso anno due galeotte napoletane riuscirono a catturare, a 30 miglia da Giannutri, una galeotta tunisina facendo 35 prigionieri.
    Questo stato di cose durò fino allo scioglimento del consiglio di reggenza: il nuovo Re, infatti, comprese subito l'importanza che l'Armata di mare aveva per la protezione delle popolazioni costiere e per i commerci e le diede ben presto nuovo impulso. Nel 1784 la flotta delle Due Sicilie - assieme a quella della Spagna, di Malta e del Portogallo - partecipò ad un'azione coordinata contro la base dei barbareschi di Algeri: dal 12 al 24 luglio i cannoni delle navi alleate fecero fuoco contro le fortificazioni e le postazioni di artiglieria del porto algerino.
    L'aggressività dei corsari fu frenata, ma non debellata. Nel maggio 1792, infatti, due sciabecchi algerini attaccarono una polacca sorrentina. Intervenne la fregata napoletana "Sirena", che le inseguí e le affondò a cannonate nella rada di Cavalaire, sconfinando nel dipartimento francese del Fréjus: ne nacque un incidente diplomatico. Il 21 giugno 1796 gli sciabecchi napoletani "Robusto" e "Diligente" erano in crociera nel Tirreno.
    A 20 miglia da Ustica furono attaccati da due grossi bastimenti dei barbareschi: il "Diligente" fu catturato dai pirati ed il "Rubusto" fu costretto a rientrare a Napoli.
    Nell'aprile del 1797 un altro scontro, questa volta vittorioso per i colori delle Due Sicilie. Un convoglio di navi mercantili cariche di cereali era diretto da Messina a Brindisi, lo scortava la corvetta "Aurora". Presso il capo di S.Maria di Leuca una grossa polacca tunisina, armata con 14 cannoni, aggredí il convoglio. Intervenne la corvetta, che ebbe la meglio.
    Dopo un violento cannoneggiamento, l'imbarcazione barbaresca fu catturata. Stato di allarme anche nel maggio 1798. Una squadra napoletana guidata dal "Sannita", nei pressi delle isole pontine, si mise sulle tracce di un brigantino e di uno sciabecco tunisni e riuscí a catturare il brigantino.
    La "Aretusa", invece, si riuscí ad impossessare di una polacca genovese: la nave era stata, in precedenza, catturata dai tunisini che se ne erano impadroniti. La "Sirena" e la "Cerere", in quegli stessi giorni, incrociando nel canale di Sicilia, si imbatterono in un pinco proveniente da Tripoli: lo catturarono e portarono a Napoli i 35 membri dell'equipaggio.
    Le stesse navi, appena ripreso il mare, ebbero la meglio nei confronti di una galeotta tunisina, incrociata al largo di Ponza: i 68 uomini della ciurma furono fatti prigionieri. Poche settimane dopo, le due unità delle Due Sicilie erano in Adriatico, dove scortavano un convoglio mercantile. Uno sciabecco algerino tentò un'aggressione al largo di S.Maria di Leuca, ma fu costretto alla fuga.
    L'invasione francese, l'effimera esperienza della repubblica partenopea ed il regno dei napoleonidi misero in crisi l'economia ed il sistema di sicurezza che era stato costruito per poteggere le Due Sicilie contro i barbareschi: per 15 anni l'Italia meridionale fu esposta alle aggressioni dei pirati, rimanendo praticamente senza difesa.
    Soltanto dopo il ritorno a Napoli del Re Ferdinando fu possibile riprendere il vecchio discorso. Il 25 aprile 1816 fra il Regno delle Due Sicilie ed il bey di Tripoli fu sottoscritto un trattato di pace. Nove anni piú tardi, quando il trattato avrebbe dovuto essere rinnovato, il bey alzò la posta. Contro i 40.000 colonnati che avrebbe dovuto ricevere dal governo di Napoli, ne chiese piú del doppio: 100.000. Francesco I, da poco succeduto al padre Ferdinando, deceduto nel 1825, non accettò il ricatto...
     
    Continua nel prossimo articolo...
     
     
    Fonte:
     

    giovedì 29 novembre 2012

    La tattica della Contro-Rivoluzione (Estratto dal libro "Rivoluzione e Contro-Rivoluzione" di Plinio Corrêa de Oliveira)



    La tattica della Contro-Rivoluzione può essere considerata a proposito di persone, gruppi, o correnti
    di opinione, in funzione di tre tipi di mentalità: il contro-rivoluzionario attuale, il controrivoluzionario
    potenziale e il rivoluzionario.


    1. In relazione al contro-rivoluzionario attuale

    Il contro-rivoluzionario attuale è meno raro di quanto ci sembri a prima vista. Egli possiede una
    chiara visione delle cose, un fondamentale amore della coerenza e un animo forte. Per questo ha una
    nozione lucida dei disordini del mondo contemporaneo e delle catastrofi che si addensano
    all'orizzonte. Ma la sua stessa lucidità gli fa cogliere tutta l'ampiezza dell'isolamento in cui così
    frequentemente si trova, in un caos che gli sembra senza via d'uscita. Allora il controrivoluzionario,
    molte volte, tace scoraggiato. Triste situazione: vae soli, dice la Scrittura (3).
    Un'azione contro-rivoluzionaria deve, anzitutto, mirare a scoprire questi elementi, fare in modo che
    si conoscano, che si appoggino gli uni agli altri, per la professione pubblica delle loro convinzioni.
    Questa azione può realizzarsi in due modi diversi:
    A. Azione individuale

    Questa azione deve essere svolta anzitutto su scala individuale. Niente è più efficace della presa di
    posizione contro-rivoluzionaria franca e coraggiosa di un giovane universitario, di un ufficiale, di
    un professore, soprattutto di un sacerdote, di un nobile o di un operaio influente nel suo ambiente.
    La prima reazione che otterrà sarà, a volte, di indignazione. Ma se persevererà per un tempo più o
    meno lungo, a seconda delle circostanze, vedrà a poco a poco manifestarsi degli amici.
    B. Azione d'insieme

    Questi contatti individuali tendono, naturalmente, a suscitare nei diversi ambienti vari controrivoluzionari
    che si uniscono in una famiglia spirituale, le cui forze sono moltiplicate dal fatto
    stesso della loro unione.

    2. In relazione al contro-rivoluzionario potenziale

    I contro-rivoluzionari devono presentare la Rivoluzione e la Contro-Rivoluzione in tutti i loro
    aspetti, religioso, politico, sociale, economico, culturale, artistico, ecc. Infatti i contro-rivoluzionari
    potenziali le vedono in generale soltanto attraverso qualche aspetto particolare, e da questo possono
    e devono essere attratti alla visione totale dell'una e dell'altra. Un contro-rivoluzionario che
    argomentasse soltanto su un piano, quello politico, per esempio, limiterebbe di molto il suo campo
    di attrazione, esponendo la sua azione alla sterilità, e, quindi, alla decadenza e alla morte.
    3. In relazione al rivoluzionario


    A. L'iniziativa contro-rivoluzionaria

    Di fronte alla Rivoluzione e alla Contro-Rivoluzione non vi sono neutrali. Vi possono essere,
    certamente, dei non combattenti, la cui volontà o le cui velleità sono, però, consapevolmente o no,
    in uno dei due campi. Per rivoluzionari intendiamo, infatti, non solo i partigiani integrali e dichiarati
    della Rivoluzione, ma anche i "semi-contro-rivoluzionari".
    La Rivoluzione ha potuto procedere, come abbiamo visto, a patto di occultare il suo volto totale, il
    suo vero spirito, i suoi fini ultimi.
    Il mezzo più efficace per confutarla di fronte ai rivoluzionari consiste nel mostrarla intera, sia nel
    suo spirito e nelle grandi linee della sua azione, che in ciascuna delle sue manifestazioni o manovre
    apparentemente inoffensive e insignificanti. Strapparle, dunque, la maschera significa sferrarle il
    più duro dei colpi.
    Per questa ragione, lo sforzo contro-rivoluzionario deve dedicarsi a questo compito con il massimo
    impegno.
    È chiaro che, in secondo luogo, sono indispensabili al successo di una azione contro-rivoluzionaria
    le altre risorse di una buona dialettica.
    Con il "semi-contro-rivoluzionario", come d'altronde anche con il rivoluzionario che ha "coaguli"
    contro-rivoluzionari, vi sono alcune possibilità di collaborazione, e questa collaborazione crea un
    problema speciale: fino a che punto è prudente? A nostro avviso, la lotta contro la Rivoluzione si
    svolge convenientemente soltanto legando tra loro persone radicalmente e completamente esenti dal
    suo "virus". Si può facilmente concepire che i gruppi contro-rivoluzionari possano collaborare con
    persone come quelle sopra ricordate, in vista di qualche obiettivo concreto. Ma è la più evidente
    delle imprudenze, e la causa, forse, della maggior parte degli insuccessi contro-rivoluzionari,
    ammettere una collaborazione totale e duratura con persone infette da qualche influenza della
    Rivoluzione.

    B. La controffensiva rivoluzionaria

    In generale il rivoluzionario è petulante, verboso ed esibizionista, quando non ha davanti a sé
    avversari, o quelli che ha sono deboli. Ma se trova chi lo affronta con fierezza e ardimento, allora
    tace e organizza la campagna del silenzio. Un silenzio, però, in mezzo al quale si percepisce il
    sommesso bisbiglio della calunnia, o qualche mormorio contro l'"eccesso di logica" dell'avversario.
    Ma un silenzio confuso e pieno di vergogna che non è mai rotto da una qualche replica di valore. Di
    fronte a questo silenzio di confusione e di sconfitta, potremmo dire al contro-rivoluzionario
    vittorioso la battuta di spirito scritta da Veuillot ad altro proposito: "Interrogate il silenzio, non vi
    risponderà nulla" (4).

    4. Élites e masse nella tattica contro-rivoluzionaria

    La Contro-Rivoluzione deve cercare, per quanto possibile, di conquistare le moltitudini. Tuttavia
    non deve, immediatamente, fare di questo il suo obiettivo principale, e un contro-rivoluzionario non
    ha motivo di scoraggiarsi per il fatto che la grande maggioranza degli uomini non è attualmente
    dalla sua parte. Infatti uno studio attento della storia ci mostra che a fare la Rivoluzione non sono
    state le masse. Esse si sono mosse in senso rivoluzionario perché hanno avuto dietro di loro élites
    rivoluzionarie. Se avessero avuto dietro di loro élites di orientamento opposto, probabilmente si
    sarebbero mosse in senso contrario. Il fattore "massa", come dimostra una visione obiettiva della
    storia, è secondario; il fattore principale è la formazione delle élites. Ora, per questa formazione, il
    contro-rivoluzionario può essere sempre provvisto delle risorse della sua azione individuale, e può
    quindi ottenere buoni risultati, nonostante la carenza di mezzi materiali e tecnici contro cui, a volte,
    deve lottare.

    Di Redazione A.L.T.A.

    Padre Amorth sul nuovo rito per l'esorcismo da Concilio Vaticano II




    “30 Giorni” - Giugno 2001- Intervista a Padre Gabriele Amorth,
    Decano degli Esorcisti - Stralci:

    Padre Amorth, finalmente è pronta la traduzione italiana del nuovo Rituale per gli esorcisti.
    (...) E un Rituale tanto atteso alla fine si è trasformato in una beffa. Un incredibile legaccio che rischia di impedirci di operare contro il demonio.

    Ma allora vuol dire che il nuovo Rituale è per voi inutilizzabile nella lotta contro il demonio?
    AMORTH: Sì. Ma per fortuna ci è stata gettata, all'ultimo, una scialuppa di salvataggio.

    Quale?
    AMORTH: Il nuovo prefetto della Congregazione per il culto divino, il cardinale Jorge Medina, ha affiancato al Rituale una Notificazione. In cui si afferma che gli esorcisti non sono obbligati ad usare questo Rituale, ma se vogliono possono utilizzare ancora il vecchio facendone richiesta al vescovo. I vescovi devono chiedere l'autorizzazione alla Congregazione che però, come scrive il cardinale, "la concede volentieri". (...) Noi che tocchiamo ogni giorno con mano il mondo dell'aldilà, sappiamo che, il Diavolo (Ndr), ha messo lo zampino in tante riforme liturgiche.

    Per esempio?
    AMORTH: Il Concilio Vaticano II aveva chiesto di rivedere alcuni testi. Disobbedendo a quel comando, si è voluto invece rifarli completamente. Senza pensare che si potevano anche peggiorare le cose anziché migliorarle. E tanti riti sono stati peggiorati per questa mania di voler buttare via tutto quello che c'era nel passato e rifare tutto daccapo, come se la Chiesa fino ad oggi ci avesse sempre imbrogliato e ingannato, e solo adesso fosse finalmente arrivato il tempo dei grandi geni, dei superteologi, dei superbiblisti, dei superliturgisti che sanno dare alla Chiesa le cose giuste. Una menzogna: l'ultimo Concilio aveva semplicemente chiesto di rivederli quei testi, non di distruggerli. Il Rituale esorcistico, per esempio: andava corretto, non rifatto. C'erano preghiere che hanno dodici secoli di esperienza. Prima di cancellare preghiere così antiche e che per secoli si sono dimostrate efficaci, bisognerebbe pensarci a lungo. E invece no. Tutti noi esorcisti, utilizzando per prova le preghiere del nuovo Rituale ad interim, abbiamo sperimentato che sono assolutamente inefficaci. Ma anche il rito del battesimo dei bambini è stato peggiorato. È stato stravolto, fin quasi ad eliminare l'esorcismo contro Satana, che ha sempre avuto enorme importanza per la Chiesa, tanto che veniva chiamato l'esorcismo minore. Contro quel nuovo rito ha protestato pubblicamente anche Paolo VI. È stato peggiorato il rito del nuovo benedizionale. Ho letto minuziosamente tutte le sue 1200 pagine. Ebbene, è stato puntigliosamente tolto ogni riferimento al fatto che il Signore ci deve proteggere da Satana, che gli angeli ci proteggono dall'assalto del demonio. Hanno tolto tutte le preghiere che c'erano per la benedizione delle case e delle scuole. Tutto andava benedetto e protetto, ma oggi la protezione dal demonio non esiste più. Non esistono più difese e neppure preghiere contro di lui. Lo stesso Gesù ci aveva insegnato una preghiera di liberazione, nel Padre nostro: "Liberaci dal Maligno. Liberaci dalla persona di Satana". In italiano è stata tradotta in modo erroneo, e adesso si prega dicendo: "Liberaci dal male". Si parla di un male generico, di cui in fondo non si sa l'origine: invece il male contro cui nostro Signore Gesù Cristo ci aveva insegnato a combattere è una persona concreta: è Satana.

    Padre Amorth, il satanismo si diffonde sempre di più. Il nuovo Rituale rende difficile fare esorcismi. Agli esorcisti si impedisce di partecipare a una udienza con il Papa a piazza San Pietro. Mi dica sinceramente: cosa sta accadendo?
    AMORTH: Il fumo di Satana entra dappertutto. Dappertutto! Forse siamo stati esclusi dall'udienza del Papa perché avevano paura che tanti Esorcisti riuscissero a cacciare via le legioni di demoni che si sono insediate in Vaticano.

    Sta scherzando, vero?
    AMORTH: Può sembrare una battuta, ma io credo che non lo sia. Non ho nessun dubbio che il demonio tenti soprattutto i vertici della Chiesa, come tenta tutti i vertici, quelli politici e quelli industriali.

    mercoledì 28 novembre 2012

    E ROBESPIERRE DISSE: CANCELLATE I CATTOLICI VANDEANI!

    Una ricerca conferma il varo nel 1793 di due leggi per la soppressione di bambini, donne in gravidanza e religiosi cattolici: pianificati campi di sterminio e metodi di uccisione di massa per annegamento


    di Lorenzo Fazzini

    «In base a questi documenti possiamo affermare che, in seguito alla scelta di coscienza dei deputati della Convenzione, il genocidio dei vandeani inizia con il voto del 1° agosto 1793 e viene confermato da una seconda legge il 1 ottobre dello stesso anno. Dunque fu concepito, organizzato, pianificato e messo in atto sul campo dal Comitato di salute pubblica». Ovvero, tra gli altri, da Robespierre in persona. Un'inedita documentazione getta nuova luce sulla cosiddetta guerra di Vandea, la repressione da parte delle forze militari della Rivoluzione francese contro gli insorti della regione occidentale dell'Esagono, accomunati dal cattolicesimo e dall'ispirazione monarchica. Lo storico Reynald Secher, autore già negli anni Ottanta di studi 'rivoluzionari' (in senso storiografico) sulla Vandea, ha rinvenuto negli Archives nationales di Parigi diverse testimonianze scritte, talune firmate dai capi della Rivoluzione, dai quali emerge un dato inconfutabile: la morte in massa di 117 mila vandeani non è riconducibile a strategie belliche o a repressioni militari durante una guerra civile, ma a una precisa scelta genocidaria. Tale decisione politica comprendeva finanche, come sua caratteristica consapevole, l'uccisione di donne (anche in stato di gravidanza avanzata), bambini, anziani e religiosi cattolici. Il frutto di queste scoperte storiografiche è condensato nel lavoro di Secher, pubblicato di recente in Francia col titolo Vandée. Du génocide au mémoricide. Mécanique d'un crime légal contro l'humanité (Cerf, pp. 438, euro 24). Sono molteplici gli esempi di tale strategia che Secher documenta. Uno è il dispaccio del Comitato di salute pubblica datato 10 novembre 1793, in realtà «20° giorno del secondo mese del secondo anno» in base alla nuova scansione cronologica repubblicana: «Laplanche, rappresentante del dipartimento del Calvados, annuncia che prende misure terribili per sterminare i briganti di cui ignora il numero visto i differenti rapporti che gli sono stati fatti; il numero di questi viene riferito in 80 mila da diversi emissari che hanno verosimilmente compreso nel novero dei combattenti donne, vecchi, bambini che seguono questa orda». Come a dire che per i rivoluzionari non esisteva nessuna distinzione tra civili e combattenti vandeani, tutti racchiusi nella spregevole e bellica categoria di «briganti». Ancora.
    Una comunicazione scritta del Comitato (11 novembre 1793): «Il Comitato ha stabilito un piano per il quale i briganti devono sparire in poco tempo non solo dalla Vandea ma da tutta la superficie della Repubblica.
    Rinunciate e abbandonate ogni movimento parziale.
    Stringete i ranghi, assembrate le masse». Altra conferma arriva il 26 dicembre 1793 da uno scritto 'a posteriori', ovvero in seguito ad azioni belliche, del generale Westermann, in azione per conto della Rivoluzione sulla sponda destra della Loira: «Non esiste più una Vandea, cittadini repubblicani, essa morta sotto il nostro albero della libertà con le sue donne e i suoi bambini. Io sto per seppellirla nei boschi di Savenay». Una delle pratiche più utilizzate dalla forze 'ufficiali' per lo sterminio vandeano erano gli annegamenti, possibilmente di più persone insieme. Nella repressione repubblicana su larga scala Secher rintraccia una terribile affinità con le pratiche genocidarie dei totalitarismi del '900: «I membri del Comitato di salute pubblica, di fronte all'immensità dell'opera da realizzare e al tempo necessario per portarla termine, cercano soluzioni economiche 'sostenibili': visto che i modi considerati moderni hanno fallito, mettono in atto un'economia di sterminio di lunga durata. A Nantes, per esempio, il più grande campo di sterminio, visto che un battello sulla Loira, affondato, era irrecuperabile, si è deciso di riadattarlo come spazio per l'asfissia. L'idea è semplice e veloce: si fa salire il 'carico umano', si chiudono le aperture, e ci si 'dimentica' dell'operazione». La crudeltà dei rivoluzionari trova riscontro anche nelle testimonianze di quanti, soldati repubblicani, vennero in seguito messi sotto processo per le loro azioni: Pierre Chaux, 35 anni, mercante di Nantes, rende questa sua testimonianza nel processo che lo vede alla sbarra: «Accuso il comitato rivoluzionario di aver fatto annegare cinquecento bambini, i più grandi avevano forse 14 anni. Ho constatato le gravidanze di trenta donne, diverse di loro erano al 7° o 8° mese. Qualche giorno dopo queste donne erano state fatte annegare». Accanto al genocidio spicca la volontà di un memoricidio, cioè la volontà di fare in modo che ogni traccia di tale sanguinaria violenza venisse cancellata. I deputati della Convenzione, scrive Secher, «hanno messo in atto una politica sistematica di distruzione di tutti i documenti riguardanti il piano di sterminio. Sono partiti dal principio del deputato Fayot per il quale 'i vandeani non hanno il tempo di scrivere diari e così tutto questo verrà dimenticato nel tempo'». Ma non tutto è stato cancellato. È il caso degli atti del processo contro il deputato Carrier, cui viene imputata 'clemenza' nei confronti dei vandeani. È lui ad ammettere candidamente quando viene convocato dalla Convenzione l'8 febbraio 1794 (e gli atti del processo sono la controprova della strategia di genocidio) di aver ricevuto «l'ordine di sterminare la popolazione in maniera da ripopolare il paese il più in fretta possibile con cittadini repubblicani». Secher sancisce: in quel caso «per la prima volta, in maniera pubblica, il principio stesso del Terrore e delle atrocità commesse in Vandea viene denunciato e i membri del comitato rivoluzionario di Nantes sono messi sotto accusa».

    Fonte: Avvenire, 21/10/2012

    Finalmente un libro recente che riabilita i buoni: Le cinque giornate di Radetzky

    È possibile vedere le Cinque Giornate di Milano del marzo 1848 con gli occhi di Radetzky ? Rispondiamo tranquillamente che è giunto il momento di farlo. Non soltanto perché il feldmaresciallo austriaco si comportò da militare d' onore, ma per il semplice motivo che la storia del Risorgimento è da cancellare anche al Nord. Ripensiamo al così detto  Risorgimento con i primi gesti del 1848 a Milano: due damazze coccolate dalla città sentono odore di bruciato e cambiano aria. La prima è la russa Samoylov: ripara a Parigi (dopo aver seppellito il consorte finisce nel letto dello zar e poi in via Borgonuovo, in un esilio dorato); la seconda è la Elssler, strapagata alla Scala, che vende tutto, compreso - per la cifra folle di 600 lire - il suo vaso da notte. Se ne va a Vienna. Ma per meglio conoscere queste e altre vicende, è uscito nel 2008 un delizioso libro di Giorgio Ferrari: Le cinque giornate di Radetzky (Edizioni La Vita Felice, pp. 256, 12,50). Grazie a esso è possibile seguire la cronaca di Milano tra il 18 e il 22 marzo 1848, le « Cinque Giornate», senza lasciarsi irretire dalla retorica risorgimentale e da taluni eccessi patriottardi, cari al tempo che fu e al mal governo che è. Tra un pitale conteso da amanti insoddisfatti e i sogni interrotti dalla fuga della russa, c' è l' altra faccia della  storia. Ferrari ha scritto un libro accurato, lavorando soprattutto sui saggi di Luzio, sulle memorie del diplomatico austriaco Hübner - che, poverino, arrivò a Milano all' inizio della tempesta - sul testo dedicato all' insurrezione da Cattaneo. Il quale, sia detto una volta per tutte, «degli austriaci apprezzava senza remore la magnifica macchina burocratica e il buon governo del Lombardo-Veneto» e intuiva il ruolo egemone (per gettito fiscale, produzione e ricchezza individuale) che questo regno «avrebbe avuto in una federazione di province indipendenti se pur formalmente sotto la sovranità dell' aquila bicipite». Una sorta di Commonwealth che «più tardi sarebbe ridiventato un sogno fuggevole ma assai seducente per una moltitudine di lombardi e di veneti» (p.115). Il libro è anche una cronaca più vera di quei giorni, degli atteggiamenti tartufeschi di molta borghesia e di troppa nobiltà; è, di rimando, un piccolo inventario delle incertezze e della poca stoffa militare di Carlo Alberto. Radetzky, invece, anche se commise qualche errore si era temprato combattendo Napoleone. Per questo seppe perdere, riconquistare e salvare Milano, che non fece cannoneggiare: un uomo che merita di essere giudicato assolutamente non spietato al contrario di come abitualmente ce lo fanno ricordare. Insomma, un altro ritratto del grande maresciallo che a Milano ebbe una seconda famiglia, che era ben accolto nelle osterie e che, sconfitti i piemontesi, rientrò mentre il popolo diceva: «hinn stàa i sciuri», «sono stati i signori» (a volere la rivoluzione). Storia da ripensare attraverso gli entusiasmi popolari, le barricate , gli equivoci, le vittime. E Radetzky: servitore fedele dell' impero e del Gorno legittimo , con il cuore a Milano.


    Per acquistare il libro cliccare sul seguente link : http://www.ibs.it/code/9788877991812/ferrari-giorgio/cinque-giornate-radetzky.html



    Di Redazione A.L.T.A.

    La Monarchia Sacra Parte quarta : La Monarchia Sacra e i Concili : I principi e i Concili ecumenici in Occidente

    Corrado III
    Corrado III Hohenstaufen, Re dei Romani (Bamberga, 1093Bamberga, 15 febbraio 1152)  Imperatore del Sacro Romano Impero. Fu il primo Re tedesco della dinastia Hohenstaufen.  Figlio di Federico I di Svevia e di Agnese di Waiblingen.
     

    Mano a mano che si venne approfondendo la divisione che separava la chiesa latina occidentale da quella orientale, avviatasi sulla strada senza uscita dello scisma, si preparò il terreno a quella translatio e renovatio Imperi che culminò nel Natale dell’anno 800 con l’incoronazione del principe franco, Carlo.
    Per due secoli e mezzo (870-1123) la Cristianità non vide più riunirsi il corpo episcopale. Quando, nel 1123, il 9° Concilio ecumenico si adunò nel Palazzo Laterano, nella città del Papa, l’augusta assise trovò nel supremo Pastore la sua guida naturale. Da allora, furono quasi sempre i Sommi Pontefici i protagonisti dei Concili ecumenici che ebbero luogo in Occidente.
    «Grazie, tuttavia, alla buona intesa tra i due poteri, i principi secolari furono ammessi ad assistervi o a farvisi rappresentare con voto consultivo o con certi privilegi onorifici.
    Al 2° Concilio del Laterano, constatiamo la presenza del Re [dei Romani] Corrado III; al 1° Concilio di Lione, quella di Baldovino II e di San Luigi; al Concilio di Vienne, quella dei Re di Francia, Inghilterra ed Aragona; al Concilio di Firenze quella di Giovanni Paleologo; al 5° Concilio Laterano quella di Massimiliano I. Il Concilio di Trento restò fedele a questa tradizione, sforzandosi di agire in accordo con i principi cattolici, in modo particolare con l’Imperatore Carlo V, e nell’accogliere i loro desiderata nella misura del possibile».
    Tuttavia (lo si vedrà meglio nella Parte Sesta di questo breve studio) durante lo scisma che afflisse la Chiesa latina sul finire del secolo XIV e l’inizio del XV, sarà proprio l’intervento provvidenziale del Sacro Imperatore ad avviare, con la convocazione del Concilio ecumenico di Costanza, la soluzione della crisi religiosa.

    Chi è contro-rivoluzionario? (Estratto dal libro "Rivoluzione e Contro-Rivoluzione" di Plinio Corrêa de Oliveira)


    Alla domanda del titolo si può rispondere in due modi:

    1. Allo stato attuale


    Allo stato attuale, contro-rivoluzionario è chi:

    1) Conosce la Rivoluzione, l'Ordine e la Contro-Rivoluzione nel loro spirito, nelle loro dottrine, nei
    loro rispettivi metodi.

    2) Ama la Contro-Rivoluzione e l'Ordine cristiano, odia la Rivoluzione e l'"anti-ordine".
    3) Fa di questo amore e di questo odio l'asse intorno al quale gravitano tutti i suoi ideali, le sue
    preferenze e le sue attività.

    È chiaro che questo atteggiamento spirituale non esige una istruzione superiore. Come santa
    Giovanna d'Arco non era un teologo ma sorprese i suoi giudici con la profondità teologica dei suoi
    pensieri, così i migliori soldati della Contro-Rivoluzione, animati da una mirabile comprensione del
    suo spirito e dei suoi obiettivi, sono stati spesso semplici contadini: della Navarra, della Vandea o
    del Tirolo, per esempio.
    2. Allo stato potenziale
    Allo stato potenziale, sono contro-rivoluzionari quanti hanno l'una o l'altra delle opinioni e dei modi
    di sentire dei rivoluzionari, per inavvertenza o per qualsiasi altra ragione occasionale, e senza che il
    fondo stesso della loro personalità sia intaccato dallo spirito della Rivoluzione. Messe in guardia,
    illuminate, orientate, queste persone assumono facilmente una posizione contro-rivoluzionaria. E in
    ciò si distinguono dai "semi-contro-rivoluzionari" di cui parlavamo sopra (parte I, cap. IX).


    Di Redazione A.L.T.A.

    martedì 27 novembre 2012

    Bauco e il colonnello alsaziano

    Durante l'ultima fase dell'assedio di Gaeta diversi legittimisti francesi, spagnoli e belgi forzarono il blocco opposto dai piemontesi e offrirono i loro servigi al Re Francesco II di Borbone.
    A capo di questi c'era Theodule de Christen nato il 1835 a Colmar in Alsazia che si fece promotore presso il re di un piano strategico volto ad alleggerire l'assedio di Gaeta e nel contempo organizzare una guerriglia organizzata contro l'esercito invasore. Pertanto, con il consenso del re che approvò la strategia, partì alla volta degli Abruzzi per attuare il suo piano.

    Intanto gli abitanti del Regno che in molti casi disconoscevano già l'autorità dei Savoia e quindi attribuivano il grado di usurpatori gli uomini del Re di Sardegna, per tale motivo si organizzavano in bande armate e si univano ai soldati di Re Francesco per resistere a un esercito che giustamente consideravano straniero a tutti gli effetti anche perché parlavano prevalentemente il francese che era sconosciuto alla stragrande maggioranza della popolazione.
    A “calmare” i bollori della resistenza fu inviato Il generale piemontese Maurizio de Sonnaz che non si limitava alla semplice repressione delle bande ma interveniva spesso anche contro le popolazioni inermi.
    Durante la marcia di spostamento da Gaeta in Abruzzo per reprimere gli ultimi focolai di resistenza, il De Sonnaz nelle vicinanze di Sora incappò nelle truppe filoborboniche comandate dal Colonnello alsaziano Théodule Emile de Christen allora appena ventiseienne e dal "Brigante" sorano, il guardaboschi Luigi Alonzi detto "Chiavone".
    Quest'ultimi per evitare lo scontro con i Piemontesi si ritirano verso l'abbazia di Casamari, a ridosso del Confine con lo Stato Pontificio. I Piemontesi, incuranti delle complicazioni diplomatiche sconfinarono e si lanciarono all'inseguimento dei Borbonici e arrivati a Casamari seminarono il terrore.
    Entrarono nell'abazia sfasciando infissi, devastando tutti i locali e profanando la chiesa, non sazi legarono inoltre un frate alla spezieria della farmacia e gli diedero fuoco.
    Ripartiti i piemontesi, i napoletani e i briganti aiutarono prima a domare gli incendi e poi s'incamminarono verso il villaggio di Bauco sempre nel territorio pontificio, il luogo era idoneo per un'azione difensiva in quanto aveva un'unico accesso dal lato nord ed era circondato da mura medioevali.
    Gli uomini vennero calorosamente accolti dalla popolazione e ospitati in due palazzi del borgo non senza timori di un nuovo attacco sabaudo.
    Come infatti, De Sonnaz lasciò nuovamente Sora e De Crhristen, informato del pericolo, si apprestò alla difesa occupando tutti i punti perimetrali del paese organizzando le truppe sulle mura con armi a sufficienza e, onde evitare di trovarsi a corto di munizioni, ammucchiò una consistente quantità di pietre inoltre nella notte del 24 gennaio sopraggiunge il Chiavone con il suo gruppo. Il colonnello assicurò i maggiorenti che avrebbe lasciato il paese in capo a due o tre giorni.
    Ma all'alba il generale De Sonnaz schiera 3,500 uomini con le artiglierie intorno alle pendici del colle, e dagli spalti i difensori odono che il nemico non ha intenzione di risparmiare la vita ad alcuno degli assediati che siano soldati o meno, una sorta di paura attanaglia alla gola i 400 uomini.
    Ed è proprio l'ufficiale che voleva far strage che guida il primo attacco piemontese, un intero battaglione si lancia alla carica ma un vigoroso fuoco di sbarramento degli assediati rende vano il tentativo, molti soldati cadono sul campo tra cui lo stesso sbruffone che li comandava.
    Subito dopo in De Sonnaz ordina alla batteria di far fuoco sul Bauco da una distanza di circa 700 metri, i napolitani ad ogni colpo gridano “Viva Francesco II” causando non poco nervosismo tra gli attoniti nemici e De Christen è su un muraglione che tranquillamente fuma il sigaro offertogli da Coataudon a sberleffo dei piemontesi che riescono solo a sbatterlo a terra da uno spostamento d'aria di un colpo cadutogli vicino, quell'uomo per gli assedianti era il colmo della provocazione.
    Il bombardamento va avanti per sei ore in modo serrato e subito dopo mezzogiorno i piemontesi tentano nuovamente un assalto, con tre colonne a passo di corsa si muovono alla volta del villaggio da altrettanti lati urlando “Savoia”, il punto principale dell'attacco però è presso il giardino Filonardi dove il Caracciolo comanda un centinaio di uomini.
    Il silenzio si è fatto sugli spalti dove i napoletani accucciati attendono il comando e quando il nemico è prossimo alle mura una sventagliata di fucilate accoglie gli attaccanti, nessun piemontese riesce a raggiungere le mura di Bauco, l'intenso fuoco napoletano li falcia a qualche metro dallo sbarramento.
    Le truppe regolari dei Savoia sono costrette a ritirarsi in malo modo lasciando sul campo un tappeto di cadaveri e feriti gementi, si raggruppano e ripartono all'assalto puntando sempre sulla posizione del Caracciolo che era meno fortificata e questa volta il contatto tra i contendenti non si può evitare, si combatte un corpo a corpo serrato con baionette e con qualsiasi cosa sia utile come arma e ancora una volta i piemontesi cedono lasciando un muro di propri cadaveri come ulteriore risorsa alla difesa del paese.
    Un nuovo tentativo di assalto piemontese, questa volta però teso a scalare le mura, è respinto con l'uso delle pietre che il Colonnello Emile De Christen aveva preventivamente stipate, 300 soldati si arrendono perchè intrappolati tra le mura e vengono inviati alla parte alta del paese più protetta dai combattimenti.
    In questo momento di calma, un drappello sabaudo chiede di parlamentare con il colonnello che accetta di incontrare il generale nemico. Al colloquio De Sonnaz arrogantemente vorrebbe imporre le condizioni di resa ma l'alsaziano gli rinfaccia che chi sta perdendo è il savoiardo non lui.
    Comunque si giunge ad un accordo che prevede 3 punti, il primo che De Sonnaz avrebbe abbandonato il territorio pontificio senza possibilità di un successivo sconfinamento, il secondo che De Christen avrebbe potuto indossare le armi in qualsiasi parte del regno escluso che negli Abruzzi e in Calabria finchè Francesco era a Gaeta e il terzo era la libera possibilità ai soldati napoletani di scegliere la propria strada.
    La battaglia di Bauco termina con un pesante bilancio piemontese, circa 500 tra morti e feriti, 300 i prigionieri.
    I 400 napolitani escono dalle mura del villaggio in pieno assetto e con la bandiera in testa per ritornare nei territori del Regno, le sciabole degli ufficiali sabaudi caduti vengono consegnate nelle mani del generale De Sonnaz che le accetta e con esse ingoia l'amaro calice della sconfitta.
    Theodule Emile De Christen viene arrestato nel settembre 1861 a Napoli dove stava appoggiando la resistenza borbonica, scontò due anni di carcere duro e lavoro forzato nei carceri di S.Maria Apparente a Nisida e al forte di S.Elmo per poi essere trasferito nel carcere piemontese di Gavi ma nel dicembre 1863 era a Roma per riprendere la lotta, il governo piemontese riuscì a farlo espellere.
    Si spense nel 1870 a soli 35 anni senza mai arrendersi.
     
    Fonte: