lunedì 10 dicembre 2012

R. P. Giuseppe Oreglia S.J.: Un po' di carità ossia i liberali mendicanti.


La Civiltà Cattolica, anno XIII, vol I della serie V, Roma 1862, pag. 27-39 (fasc. 21 Decembre 1861)

R. P. Giuseppe Oreglia di S. Stefano S.J. (1823-1895)

UN PO' DI CARITÀ

OSSIA

I LIBERALI MENDICANTI

I.

Dice il De Maistre che la Chiesa e i Papi non domandano che verità e giustizia. Tutto all'opposto dei liberali, i quali, per quel salutare spavento che debbono naturalmente avere della verità, e molto più della giustizia, non fanno altro che domandare la carità.



Padre 
Giuseppe Oreglia di Santo Stefano S.J. (1823-1895).






Sono oramai dodici anni che noi stiamo assistendo, per conto nostro, a questo curioso spettacolo dei liberali italiani, appartenenti sì al laicato e sì al presbiterato anticattolico, mendicanti in tuon lagrimoso, continuamente, fastidiosamente, procacemente, la nostra carità, e raccomandanticisi colle braccia in croce, in prosa e in versi, nei libelli e nei giornali, in lettere pubbliche ed in private, anonime e pseudonime, direttamente e indirettamente che, per carità, usiamo loro un pò di carità, che non vogliam troppo far ridere il prossimo alle loro spese, che non rivediamo troppo pel sottile le loro sublimi lucubrazioni, che non andiamo troppo cercando dei loro gloriosi fatti, che facciamo le viste di non vedere nè udire i loro strafalcioni, i loro solecismi, i loro furti, le loro bugie, le loro calunnie, le loro falsificazioni, che li lasciamo vivere, che non li disturbiamo. Giacchè insomma, la carità è la carità: e che non l'usino i liberali questo è il loro mestiere e si capisce: ma che non l'usiamo noi scrittori della Civiltà Cattolica, questo è un caso differente.
Giusto castigo di Dio questo, che i liberali, che sempre hanno astiata la pubblica mendicità, sino a vietarla, in tanti paesi, sotto la pena ancora del carcere, siano stati ora costretti a mendicare pubblicamente essi medesimi per conto proprio, chiedendo la carità e chiedendola appunto ai codini.
Colla quale loro conversione all'amore del mendicare, sembra che i liberali abbiano imitata quell'altra sì celebre e si edificante conversione alla virtù della limosina di quel ricco avaro, che ito una volta a predica, per risparmiare l'aria di casa, e abbattutosi a udire una calda esortazione a fare elemosina, tutto si commosse in vista, sì che pareva convertito. Ed in verità la predica gli era molto piaciuta: giacchè (come poi disse uscendo di chiesa) non può fare che questi buoni cristiani, che l'hanno udita, non mi diano d'ora innanzi, di quando in quando, qualche cosa per carità. Così i sempre ammirabili nostri liberali italiani, dopo aver dimostrato coi loro fatti e coi loro scritti (ognuno secondo la possibilità sua) che colla carità essi aveano tanto da fare quanto il diavolo coll'acqua santa, quando poi, dall'udirne parlare, si accorsero che esiste al mondo la virtù della carità e ch'essi ne poteano trarre profitto, se ne sono subito innamorati per conto proprio, e la vanno chiedendo al Papa, ai Vescovi, al Clero, ai Frati, ai giornali, a tutti, ed anche a noi scrittori della Civiltà Cattolica.
E bisogna sentire che belle ragioni sanno recare! A udir loro, essi non parlano punto per interesse proprio. Dio liberi! Essi parlano per l'interesse della religione nostra santissima la quale sta tanto loro a cuore, e che non può non essere molto danneggiata dal modo poco caritatevole onde noi pretendiamo difenderla. Parlano per l'interesse dei codini medesimi; e specialmente per l'interesse che essi (chi lo crederebbe?) hanno la bontà di prendere appunto per noi scrittori della Civiltà Cattolica. «Che bisogno (ci vanno dicendo in tuono confidenziale) che bisogno avete voi altri di pigliarvi di codeste brighe? Non ne avete abbastanza delle gatte a pelare? Lasciate vivere e sarete lasciati vivere. Chi vi prega di fare questo mestiere da cani di andar sempre gridando all'erta e al ladro? Che se poi vi toccano le busse, di chi è la colpa, se non di voi, i quali pare che le andiate cercando apposta col lumicino?»
Il qual sapiente e disinteressato discorso non ha altro difetto che quello di essere molto simile a quell'altro discorso che, nei Promessi Sposi, il notaio criminale (che ora si direbbe uffiziale di Polizia) tenne al buon Renzo Tramaglino, quando voleva condurlo in prigione alle buone, perchè capiva che alle cattive malagevolmente ci sarebbe riuscito. «Credete a me (diceva a Renzo il notaio) credete a me che sono pratico di queste cose. Andate via diritto diritto senza guardare in qua e in là, senza farvi scorgere: così nessuno bada a voi, nessuno si avvede di quello che è, e voi conservate il vostro onore.»
Ma ci avverte il Manzoni che «di tante belle parole Renzo non ne credette una: nè che il notaio volesse più bene a lui che ai birri, nè che prendesse tanto a cuore la sua riputazione, ne che avesse intenzione d'aiutarlo. Dimodochè tutte quelle esortazioni non servirono ad altro che a confermarlo nel disegno che già aveva in testa, di fare tutto il contrario.»
Il quale disegno (volendo parlare schiettamente) siamo fieramente tentati di nutrire anche noi. Giacchè non ci sappiamo persuadere nè che ai liberali importi poi molto dei danni che alla religione noi possiamo arrecare, nè che essi si piglino poi molta briga dell'interesse nostro particolare. Noi capiamo, o almeno ci pare di capire benissimo, che i liberali, se credessero davvero che il nostro modo di scrivere fa danno alla Religione, o anche solo a noi medesimi, non solo si guarderebbero bene dal porci in malizia coll'avvisarcene, ma anzi ci incoraggirebbero con commendazioni, e forse ancora con commende. Che se fanno gli zelanti e ci pregano di mutar tuono, ciò è, (o ci pare) indizio evidente che la Religione almeno non ci perde per colpa nostra, e che le nostre scritture almeno sono lette; il che, per scrittori di professione, è sempre una, consolazione.
Per quello dunque che concerne l'interesse nostro e il principio utilitario, per quanto i liberali siano giustamente riconosciuti per grandi maestri in questo particolare, siccome però essi hanno la fama di avervi profittato più per il conto proprio che per il nostro, così ci permetteranno di credere per l'innanzi come abbiam finora creduto: cioè, che in tutta questa faccenda del nostro modo di scrivere sopra di loro, i più compromessi non siamo noi e neanche la Religione.
Posta la quale nostra modesta opinione, e trovandosi ancora che le ragioni le quali si potrebbero chiamare intrinseche e indipendenti dal principio utilitario, che i liberali allegano a favor proprio e contro il nostro modo di scrivere, sono state nelle Serie passate della Civiltà Cattolica molte volle già confutate, non ci rimarrebbe qui altro che congedare amorevolmente in pace questi mendicanti di nuovo conio, pregandoli a far d'ora innanzi gli avvocati in causa propria con arte migliore che coll'usata già con Renzo dagli antichi sbirri del mille e seicento. Ma poichè essi non restano di pitoccare, e novellamente ancora hanno pubblicato con gran fracasso un opuscolo apposta in Perugia col titolo: Che cosa è ìl così detto partito cattolico, dove non si fa, altro che chiedere alla Civiltà Cattolica pietosamente la carità, non sarà forse inutile che noi ripetiamo ancora una volta, nel principio di questa Quinta Serie, le vecchie risposte alle vecchie obbiezioni. Ed anche questo sarà un'opera di carità. Non già quella per l'appunto che i liberali chiedono: ma un'altra la quale ha anche il suo merito: che è quella di udirli benevolmente non sappiamo bene se per la cinquantesima o la centesima volta; tanto parendo anche meritare quel tuono umilmente lamentevole che da qualche tempo hanno imparato a trar fuori dal loro italico petto quando ci chiedono la carità.

II.


E se ci chiedessero la vera carità, quella cioè che loro si conviene, e quella sola che noi, nella nostra qualità di scrittori della Civiltà Cattolica, possiamo e dobbiam loro fare, tanto saremmo lungi dal negarla loro, che anzi crediamo di averla loro finora erogata, se non secondo il loro bisogno, almeno secondo la nostra possibilità. Giacchè è un abuso intollerabile di parole questo che fanno i liberali dicendo che noi non usiamo loro carità. La carità, benchè sia una nel suo principio, è però molto varia nelle sue opere. Tanto usa carità quel padre che batte, come quell'altro che bacia il suo figliuoletto. Tutto sta nel fare le cose al loro tempo. E posto questo, è molto possibile che talvolta usi molto minore carità verso il suo figliuoletto quel padre che lo bacia, che non quell'altro che lo batte. Noi battiamo i liberali, non può negarsi, e li battiamo spesso: a parole, s'intende. Ma forse si potrà dire per questo che noi non li amiamo? Che non usiamo loro carità? Questo si potrà dire solamente da coloro che, contro i precetti della carità, interpretano male le altrui intenzioni. Chè quanto agli altri, quello solo ch'essi possono dire con verità si è che noi non facciamo ai liberali quella carità appunto che essi desidererebbero. Ma vi è carità e carità: e, poichè i liberali chiedono la carità, dovrebbero anche sapere il proverbio, che a caval donato non si guarda in bocca.
Essi vorrebbero da noi la carità di essere lodati, ammirati, sostenuti, o almeno quella di essere lasciati fare. Noi facciam loro invece la carità di sgridarli, di riprenderli, di eccitarli in varii modi a rinsavire. Quando dicono una bugia, appiccano una calunnia, pigliano la roba d'altri, i liberali vorrebbero che noi coprissimo quelle loro venialitadi col gran mantello della carità. Noi invece li sgridiamo di questo loro essere ladri, menzogneri, calunniatori, facendo loro la carità più fiorita che ci sia, che è quella di non adulare coloro ai quali si vuol fare del bene. Quando scappa loro qualche strafalcione di grammatica, di ortografia, di lingua, di logica, essi vorrebbero che facessimo le viste di non accorgercene, e si lagnano, quando ne sono fatti avvisati in pubblico, che manchiamo alla carità. Laddove invece noi usiamo la compiacenza di far loro in questi casi toccar con mano, che essi, invece di essere gran maestri, non sono nemmeno mediocri scolari, promovendo così in Italia, secondo la nostra pochezza, le buone lettere, e nei liberali l'esercizio dell'umiltà cristiana, di cui si sa da tutti che essi hanno un bisogno straordinario.
Specialmente poi vorrebbero i liberali essere presi sempre sul serio, e stimati, riveriti, ossequiati, trattati insomma da uomini d'importanza, anche quando hanno torto da vendere; e si contenterebbero di essere confutati, purchè si stesse dinanzi loro col cappello in mano, la mano al petto e la testa bassa in atto di venerazione profonda. Ondechè si lagnano forte di essere talvolta un po' canzonali e posti, come sarebbe a dire, in ridicolo, essi che sono i padri della patria, gli eroi del secolo, i veri italiani, anzi l'Italia, com'essi sogliono dire per amore di brevità. Ma di chi è la colpa se tale loro pretensione è ridicola per sè medesima sì che ecciterebbe le risa anche ad Eraclito? Dobbiam dunque soffocare ogni movimento di riso naturale? Il lasciar ridere quando non se ne può a meno, è anch'essa un'opera di miscricordia che i liberali potrebbero ben fare con buona voglia, giacchè essa non costa loro niente. Inoltre se i liberali si potessero persuadere che, oltre a loro, ci è qualche altro a questo mondo, capirebbero che, siccome il far ridere modestamente tal volta a spese del vizio e dei viziosi è per sè cosa onestissima, secondo il detto castigat ridendo mores, e quell'altro ridendo dicere verum quid vetat? così il far ridere talvolta i nostri lettori a spese appunto dei liberali è anche essa un'opera di misericordia e di carità verso i lettori medesimi, che non possono poi sempre stare colla corda tesa leggendo un giornale. Infine anche i liberali, se essi ben considerano, guadagnano, in questo ridere altrui sopra di loro, qualche cosa per sè medesimi; in quanto che così si viene a conoscere praticamente che non tutti i loro difetti sono tanto orribili quanto altri pretenderebbe; sapendosi da tutti che il riso nasce soltanto dal difforme innocente. Or come dunque non ci ringraziano dell'innocenza onde noi dimostriamo vestite alcune almeno delle loro difformità? E come non intendono che non vi è mezzo più efficace per indurli a correggersi di alcune loro ridicolezze, che questo appunto dell'onesto riso eccitato in chi le vede poste nel loro dovuto lume? E come non vedono che essi non hanno niun diritto di supporre che noi operiamo in questo caso meno che negli altri per l'unico motivo di usar loro carità?
Se avessero letta la vita del loro grande Vittorio Alfieri scritta da lui medesimo saprebbero che, quand'egli era piccino, la mamma, che pure gli volea bene, quando ne avea fatta qualcuna più grossa, lo mandava a messa colla reticella di notte in capo. E l'Alfieri narra che questo castigo, che non facea poi altro che porlo un po' in ridicolo, «sì fattamente mi afflisse che per più di tre mesi poi rimasi irreprensibile. Onde ad ogni ombra di mancamento, minacciatami la reticella abborrita, io rientrava immediatamente nel dovere, tremando. Pure essendo poi ricaduto al fine in qualche fallo insolito, per iscusa del quale mi successe di articolare una solennissima bugia alla signora madre, mi fu di bel nuovo sentenziata la reticella. Venne alfin l'ora: inreticellato, piangente ed urlante mi avviai stiracchiato dal maestro pel braccio, e spinto innanzi dal servitore per di dietro». Ma per quanto urlasse e piangesse e chiedesse la carità, la mamma, che gli voleva pur bene, fu inesorabile. E qual fu la conseguenza? Fu, dice l'Alfieri, che «per assai gran tempo non dissi più bugia nessuna; e chi sa se io non devo poi a quella benedetta reticella l'essere riuscito in appresso un degli uomini i meno bugiardi che io conoscessi.» Nel qual ultimo periodo spunta il liberale fariseo che sempre si crede migliore degli altri uomini. Ma noi, che dobbiamo credere che tutti i nostri liberali italiani abbiano i grandi sensi del grande Alfieri, perchè non dobbiamo anche sperare che, se non dal dir bugie, almeno dallo stamparne troppe si possano disvezzare un po' alla volta col mandarli così inreticellati, benchè urlanti e piangenti e chiedenti la carità, non già alla S. Messa, il che è impossibile, ma almeno un po' a spasso per l'Italia, non già quando loro scappa di articolare una solennissima bugia, chè il caso sarebbe troppo frequente, ma almeno quando ne pongono a stampa qualche migliaio in una volta sola?
Dunque non istiano più i liberali a lamentarsi che noi non facciam loro la carità. Piuttosto dicano, se così vogliono, che della carità che noi loro veramente eroghiamo essi ne farebbero a meno volentieri. Il che già sapevamo. Ma ciò non prova altro che il loro cattivo gusto e il bisogno che appunto hanno di essere trattati colla carità savia usata dai cerusici coi malati, dagli alienisti coi pazzi e dalle madri savie coi figliuoletti bugiardi.

III.


Ma quand'anche fosse verissimo che noi non facciamo niuna carità a' liberali, e che essi di nulla ci debbono essere grati, non per questo avrebbero verun diritto di lamentarsi di noi. Giacchè si sa che non si può mica fare la carità a tutti. I nostri mezzi (potremmo dire collo stile moderno) sono assai limitati: facciamo la carità secondo la misura delle nostre forze, preferendo, come è dovere, quelli che la norma della carità ben ordinata c'insegna a preferire, se non coll'affetto, certamente coll'effetto. Noi (intendiamoci bene) noi sosteniamo, che anche a' liberali facciamo quella carità che loro possiamo fare; e l'abbiamo fin qui dimostrato. Ma, parlando nell'ipotesi che non la facciamo, sosteniamo ancora che, anche in quel caso, i liberali dovrebbero finirla colle loro lamentazioni. Giacchè, insomma, ecco una similitudine che ci pare al caso. Un assassino sta sopra a un povero innocente col coltello alla gola. Passa un terzo che ha un buon randello in mano, e ne mena un colpo ben applicato sul capo dell'assassino, lo stramazza, lo lega, lo consegna alla giustizia, e salva così, per sua buona ventura, un innocente dalla morte e la società da un cattivo soggetto. Ha mancato alla carità? Se udiamo l'assassino, a cui duole forse ancora il capo, è certo che sì. Giacchè egli si lagnerà probabilmente che, contro la norma dell'incolpata tutela, il colpo fu troppo forte, e che bastava meno. Ma, dall'assassino in fuori, tutti lodano il passeggero, e dicono che fece un atto, non solo di coraggio, ma anche di carità; non già, s'intende, verso l'assassino, ma verso la vittima. Che se, per salvare l'uno, egli ferì in capo l'altro, senza avere il tempo di ben misurare la portata del colpo, ciò non fece per mancanza di carità, ma perchè l'urgenza del caso era tale che non si poteva usare carità verso l'uno senza bastonare un altro, e ciò senza badare troppo pel sottile all'incolpata tutela.
Applichiamo la parabola. Esce fuori (a modo d'esempio) un librettucciaccio maledico, calunnioso, scandaloso, contro la Chiesa, contro il Papa, contro il Clero, contro ogni cosa buona. Moltissimi credono che quel libretto meni oro pretto di verità, conciossiacosachè l'autore sia quel celebre, quell'insigne, quell'irreprensibile, quel chicchesiasi. Se si trova chi, passando più o meno in fretta, faccia bensì dolere alquanto il capo all'autore, ma difenda ì calunniati, e salvi dall'errore i suoi lettori, avrà egli mancato alla carità?
Ora i liberali non possono negare che essi si trovano molto più sovente nel caso degli assalitori che non delle vittime. Qual maraviglia che spesso ancora tocchino qualche randellata? Qual maraviglia che sì sovente strillino che non si usa loro carità? Ma facciano la prova di non far tanto i litigiosi e i corrucciosi; prendano, se possono, la buona abitudine di rispettare la roba e la fama degli altri; non dicano tante bugie; non ispargano tante calunnie; studino un poco prima di sentenziare sopra ogni cosa; non facciano sì poco conto della logica e della grammatica; e soprattutto siano onesti; come testè sapientemente li consigliò, con poca speranza di buon successo (non ostante l'autorità e l'esempio del consigliere) il Barone Ricasoli: e allora si potranno lamentare, se non saranno trattati con quel profondo rispetto, di cui essi, come della libertà, vogliono il monopolio.
Ma poichè essi operano e scrivono sì turpemente, e, specialmente, poichè essi sono sempre col coltello alla gola della verità e dell'innocenza, assassinando l'una e l'altra, non si sa se più a fatti o a libri; bisognerà che ci compatiscano se non possiamo far loro in queste pagine altra carità, che quella un po' severa che crediamo profittevole, non ostante il loro contrario parere, non meno alla loro che alla causa degli onesti.

IV.


Difendemmo finora verso i liberali il nostro modo di scrivere sopra di loro, dimostrandolo conforme appunto a quella carità ch'essi tanto caldamente e tanto continuamente ci raccomandano. E poichè parlammo finora con liberali, niuno si maraviglierà del tuono alquanto ironico da noi usato fìn qui; non parendoci poi troppa crudeltà l'opporre ai detti e ai fatti liberaleschi questa piccola difesa di alcune poche figure rettoriche. Ma poichè siam' entrati in quest'argomento, non sarà forse inutile che noi, mutando, com'è dovere, tenore di stile, e ripetendo qui quello che altrove abbiamo scritto a simile proposito; finiamo l'articolo con alcune parole indirizzate seriamente e rispettosamente a coloro, che non essendo per nulla liberali, ed essendo anzi fierissimi loro oppositori, possono pero forse credere che mai nello scrivere contro chicchessia, non si debba uscire da quella dignità e carità, alla quale essi possono forse credere non conforme lo stile da noi usato talvolta.
Alle cui censure volendo noi dare una qualche risposta, sia per il rispetto che loro dobbiamo, sia per una modesta nostra difesa; non crediamo poterla dare migliore che compendiando qui brevemente quella medesima, che il P. Mamachi del S. O. de' Predicatori fece lungamente di sè medesimo, nell'Introduzione al Lib. III della sua dottissima opera: Del diritto libero della Chiesa di acquistare e di possedere beni temporali. « Alcuni, dic'egli, sebbene confessano di essere rimasi appagati alle nostre ragioni, tuttavolta amichevolmente si sono espressi d'aver eglino desiderata nelle nostre risposte verso i nostri avversarii maggior moderazione. Noi non abbiamo combattuto per noi medesimi, ma per la causa del Signore e della sua Chiesa; e quantunque siamo noi stati, come ognun sa, di manifeste menzogne e di atroci imposture lacerati, tuttavolta non abbiamo neppure fiatato in difesa della persona nostra. Che se usammo nondimeno qualche espressione che possa sembrare a qualcuno aspra e pungente, non ci si farà il torto di pensare che ciò sia provenuto da mal animo o da rancore che noi abbiamo conceputo contro gli scrittori che impugniamo, mentre non solamente non avevamo da essi ricevuto verun affronto, ma nè pure li avevamo mai trattati o conosciuti. Lo zelo che dobbiam tutti avere della casa di Dio ci ha tratto a gridare e ad alzare qual tromba la voce.
Ma il carattere dell'uomo onesto? Ma le leggi della carità? Ma gli insegnamenti e gli esempi de' Santi? Ma i precetti degli Apostoli? Ma lo spirito di Gesù Cristo?
Pian piano. Non vorrei che avessimo qui ad equivocare. È vero che gli uomini traviati ed erranti si hanno a trattare con carità; ma quando ci è fondata speranza di trarli con tal mezzo alla verità. Che se non ci è tale fondata speranza, e soprattutto se coll'esperienza si è provato che, tacendo noi e non iscoprendo ancora di qual tempera sia chi dissemina gli errori, ridondi gravissimo danno ne' popoli, è crudeltà il non alzare contro di essi liberamente la voce e il risparmiar loro quella riprensione che si meritano.
Delle leggi della carità cristiana aveano piena cognizione i Santi Padri. Pure l'Angelico dottore S. Tommaso, fin dal principio del suo celebre opuscolo contro gl'impugnatori della Religione, rappresenta Guglielmo, o i seguaci di lui, che per altro non erano ancora con espresso decreto condannati dalla Chiesa, come nemici di Dio, ministri del diavolo, membri dell'anticristo, nemici della salute dell'uman genere, infamatori, seminatori di bestemmie, reprobi, perversi, ignoranti, unanimi di Faraone, peggiori di Gioviniano e Vigilanzio. Siamo noi per avventura arrivati a tanto?
Contemporaneo di S. Tommaso fu S. Bonaventura, il quale giudicò di dovere duramente increpare Giraldo; e lo chiamò protervo, calunnioso, insano, empio, aggiungente stoltezze a stoltezze, calunniatore; frodolento, mescitor dei veleni della carnale lascivia, ignorante, bugiardo, malvagio, presuntuoso, insensato e perfido. Siamo noi giunti a rimproverare altrettanto ai nostri contraddittori?
Ben giustamente è chiamato mellifluo S. Bernardo. Noi non istaremo a ricopiare quanto egli scrisse risentitamente contro Abelardo. Ci contenteremo di quanto scrisse contro Arnaldo di Brescia; poichè, avendo questi alzato bandiera contro il Clero e avendo procurato di privarlo delle sue rendite, fu uno dei precursori dei nuovi nostri politicastri. Trattollo dunque da disordinato, vagante illecitamente, seduttore, vaso di contumelie, scorpione vomitato da Brescia, avuto in orrore da Roma, in abbominio dalla Germania, discacciato dal Sommo Pontefice, affamato col diavolo, operante l'iniquità, divorante la plebe, avente la bocca piena di maledizione e di amarezze, seminatore delle discordie, fabbricatore di scismi, i cui denti sono armi, la cui lingua è spada, fiero lupo.
S. Gregorio Magno, riconvenendo Giovanni Vescovo di Costantinopoli, il tacciò di nefando e profano tumore, di luciferiana superbia, di usurpazione di stolti vocaboli, di vanità, di maltalento.
Non altrimenti parlarono i santi Fulgenzio, Prospero, Girolamo, Siricio Papa, Gian Grisostomo, Ambrogio, Gregorio Nazianzeno, Basilio, Ilario, Atanasio, Alessandro Vescovo di Alessandria; i santi Martiri Cornelio e Cipriano, S. Giustino Martire, S. Atenagora, S. Ireneo, S. Policarpo, S. Ignazio pur martire, S. Clemente, insomma tutti i Padri che, nelle più felici età della Chiesa, per la eroica carità cristiana si segnalarono.
Tralascerò di fare la descrizione dei caustici applicati da essi a certi sofisti dell'età loro, ancorchè meno frenetici dei nostri moderni in genere di Teologia e agitati da meno strane e da men veementi politiche convulsioni. Solo citerò alcuni passi di S. Agostino, il quale osservò che i novatori quanto sono insolenti tanto sono impazienti delle riprensioni, e notò che molti malamente sopportano la correzione e chiamano litighini e contenziosi coloro dai quali sono increpati; aggiungendo che alcuni traviati si hanno a trattare con una certa caritatevole asprezza. Or vediamo come abbia egli eseguiti questi suoi documenti. Alcuni chiama seduttori, scellerati, ciechi, stolti, gonfi di scellerata superbia, calunniatori: altri mentitori, dalla cui bocca esalano mostri di menzogne, iniqui, perversi, maledici, deliranti. Altri disse sciocchissimamente loquaci, furenti, frenetici, menti tenebrosissime, fronti impudentissime, lingue procacissime. E a Giuliano diceva: o sapendolo calunnii, mentendo tali cose: o non sai quello che tu dica credendo ai mentitori; e lo chiama versipelle, mentitore, di mente non sana, calunniatore, insipiente.
Dicano ora i nostri accusatori. Abbiam noi detto nulla di più, e non anzi molto di meno?»
Ma basti di questo compendio, dove non abbiam messa niuna nostra parola, benchè molte ne abbiamo omesse del Mamachi; e, fra le altre, le citazioni dei luoghi dei Santi Padri, per amore di brevità: il quale anche ci mosse a neanche compendiare la parte, del resto poderosissima, della difesa, in cui il Mamachi reca simili esempi di caritatevole asprezza presi dal S. Vangelo.
Ma dai soli esempi allegati ben possono ricavare i presunti nostri onorevoli ed amorevoli censori che, qualunque siasi la ragione sopra cui si fonda il supposto loro rimprovero, o sia che essa muova da un principio di morale, o da un certo senso di civile e letteraria convenienza; essa, se non la vogliamo dire del tutto confutata dal sì copioso numero di sì santi, sì colti e sì letterati esemplari, rimane almeno d'incerto valore, e tale da non potersi recare come perentorio e non rifiutabile argomento di riprensione.
Che se all'autorità degli esempi si brama vedere accoppiata la solidità delle ragioni, queste sono state, non meno brevemente che chiaramente, spiegate nel Capitolo II del libro I della storia del Concilio di Trento del Cardinale Sforza Pallavicino; il quale, prima di prendere a dimostrare di proposito che il Sarpi è malvagio, di malvagità manifesta, fellone, reo della fellonia più enorme, disprezzatore di ogni religione, mosso dallo zelo rabbioso dei satirici, empio ed apostata, scrisse fra le altre cose che: «siccome è carità il non perdonare alla vita di un malfattore per salvezza di molti buoni, così è carità il non perdonare alla fama di un empio per salvare l'onore di molti pii... Ogni legge vuole che per difendere il cliente da un testimonio falso si alleghi e si provi in giudizio quello che l'infama, e quello che sarebbe per altro un libello famoso capitalmente punito. Però, difendendo io nel giudizio del mondo, non un privato cliente, ma tutta la Chiesa cattolica, sarei prevaricatore enorme se non opponessi al testimonio quell'eccezione che toglie la punta al suo detto».
Che se ognuno, nel caso proprio, capisce ottimamente che sarebbe prevaricatore il suo avvocato che, potendo dimostrare essere calunniatore il suo accusatore, nol facesse per amore di carità; perchè sarà cosa si difficile a capire che almeno non può riprendersi evidentemente di violata carità, chi dimostra lo stesso degli accusatori di ben altri che di un privato per quanto rispettabile ed innocente? Or non è egli noto l'ammaestramento di S. Francesco di Sales che, nella sua Filotea, conchiude il Capo 29 della Seconda Parte col seguente bel testo: Fra tutti eccettuo i nemici dichiarati di Dio e della Chiesa che debbonsi diffamare quanto si può (ben inteso senza dir bugie) essendo carità il gridare al lupo quando è tra le pecore, anzi in qualunque luogo egli sia?
Del resto intendiamo benissimo che, siccome in altre cose assai, così ancora in questa dello scrivere dei nostri avversrii, possiamo talvolta non aver soddisfatto, come si doveva, ad ognuno. Nel qual caso, per ciò che riguarda l'avvenire non possiamo altro che promettere di voler fare il meglio che sapremo, e per quanto concerne il passato, diremo col Manzoni: Credete che non si è fatto apposta.