martedì 12 marzo 2013

La guerra di Lincoln rese schiavi molti uomini liberi

di DAMIANO MONDINI 

Nel marzo del 1850, a pochi giorni dalla propria morte, il grande statista e pensatore del South Carolina John C. Calhoun scriveva quanto segue ad un amico:
L’Unione è destinata ad essere dissolta, i segnali sono evidenti. […] [Non è più possibile] evitare, o concretamente posporre, la catastrofe. Plausibilmente mi aspetto che ciò accada entro dodici anni o tre mandati presidenziali. […] Il modo in cui succederà non è così chiaro, […] ma con ogni probabilità la detonazione avverrà nel corso di una elezione presidenziale.
In effetti le cose andarono esattamente così: il 6 novembre 1860 il candidato del Partito repubblicano – partito fondato nel 1854 che ereditava le tradizioni whig, freesoiler e radicali – Abraham Lincoln vinse le elezioni con una maggioranza relativa piuttosto risicata, in quanto i suoi avversari avevano presentato tre candidati differenti. Fu chiaramente un’elezione contro il Sud, nel quale “Lincoln non ottenne un solo voto”: divenne così Presidente soltanto di una parte del paese. Fra la sua elezione e l’insediamento nel marzo 1861 gli Stati del Sud decisero che la loro posizione era divenuta indifendibile all’interno dell’Unione, e dichiararono uno dopo l’altro la secessione; avrebbero in seguito dato vita alla Confederazione ed eletto il senatore del Mississippi Jefferson Davis suo Presidente. Una scelta in linea col principio cardine dell’Unione originaria: questa si configurava come una confederazione di Stati autonomi, che volontariamente delegavano al governo federale l’esercizio di specifiche e ben definite funzioni comuni; trattandosi di un contratto di natura fondamentalmente privatistica, qualora uno dei contraenti  fosse stato in disaccordo con gli altri, avrebbe potuto ritirare la delega e fuoriuscire liberamente dall’Unione. Il diritto di secessione non era previsto dalla Costituzione del 1787, ma vi era implicito: persino i più radicali sostenitori del centralismo, Alexander Hamilton e Daniel Webster – entrambi provenienti dalla borghesia del Nord -, concedevano che in casi estremi taluni Stati avrebbero potuto ricorrervi. La secessione fu in effetti un atto pacifico, che in nessun caso avrebbe potuto causare una guerra – che dunque non poté essere “di secessione”. Ciò nondimeno, vi era chi non poteva transigere sulla supremazia e sulla inscindibilità dell’Unione, chi non poteva concepire l’atto degli Stati del Sud che come una “ribellione” a Washington che andava messa a tacere: il repubblicano Abe Lincoln. Come scrisse Alexander Stephens, per Lincoln l’Unione si era elevata alla sublimità del misticismo religioso. Premessa fondamentale del suo pensiero era il carattere di “nazione” degli Stati Uniti. Questi ultimi erano stati per il founding father Thomas Jefferson una nazione “solo per finalità specifiche”, mentre Calhoun aveva parlato di “assemblage of nations”; per Lincoln, tuttavia, si trattava di nazione senz’altra qualifica:
Per effetto di una legge universale e della Costituzione, l’Unione di questi Stati è perpetua. La perpetuità è implicata, se non espressa, nella legge fondamentale di tutti i governi nazionali. Si può affermare con certezza che nessun governo propriamente detto ha mai previsto nella sua legge organica il suo stesso termine.  […] [Ne consegue che] nessuno Stato […] può legalmente abbandonare l’Unione”. Marito e moglie possono divorziare […], ma le diverse parti di questo paese non lo possono fare”. […] [Il principio della maggioranza] è l’unico autentico sovrano di un popolo libero. Chiunque lo rifiuti cade nell’anarchia o nel dispotismo”. Questo fu l’unico vero fine che mosse il Presidente: preservare l’Unione ad ogni costo, sciogliere le istanze della minoranza nel potere indiscusso della maggioranza. Ed il fine giustificava i mezzi, in suo nome si poteva mentire: è celebre la Lincoln’s spectacular lie, secondo cui l’Unione avrebbe preceduto e creato essa stessa gli Stati, mentre nella realtà erano stati questi ultimi a dare vita liberamente ad essa. Il fine giustificava mezzi ben peggiori della menzogna, come le ripetute violazioni della Costituzione, gli abusi di potere, la sospensione dell’habeas corpus e l’utilizzo di corti marziali per far processare civili, sovente semplici dissenzienti accusati di essere spie sudiste. A tal proposito, è eloquente quanto lo stesso Lincoln rispose a chi per tali ragioni lo criticava:
Ero convinto che il giuramento di difendere la Costituzione al meglio delle mie possibilità da me prestato mi imponesse il dovere di difendere, con tutti i mezzi necessari, quella forma di governo – quella nazione – della quale la Costituzione era la legge organica. Era mai possibile perdere la nazione e al tempo stesso conservare la Costituzione? […] Ero quindi persuaso che talune misure, per altri versi incostituzionali, sarebbero diventate legittime se fossero state necessarie al fine di preservare la Costituzione per mezzo della conservazione della nazione. Giusta o sbagliata che fosse, questa era la mia posizione.
Deve sorprendere una tale solerzia nel voler difendere una “nazione”, una “grande repubblica” che, come ricordato poc’anzi da Luraghi, nei fatti ancora non esisteva. Come evidenzia correttamente Bassani, quello che prima di Lincoln e della Guerra civile non era presente sul suolo americano era il concetto di “Stato moderno”, con l’annessa idea europea di “sovranità”. Lincoln importò dunque Machiavelli, Bodin e Hobbes negli Stati Uniti – mentre Jefferson era stato erede dell’adamantino liberalismo di Locke; vi aggiunse inconsapevolmente Rousseau affiancandolo ai riferimenti al “popolo americano”, un’entità metastorica – se non proprio metafisica – che trascendeva il potere dei singoli Stati, in nome della quale il potere veniva ineluttabilmente devoluto al governo federale di Washington. Lottare contro le rivendicazioni di autonomia degli Stati, così come opporsi ai rebels a mezzogiorno del Potomac, erano necessità cogenti per Lincoln. La nota lettera che l’avvocato di Springfield indirizzò ad Horace Greeley rappresenta la confutazione più palese dell’idea che Lincoln abbia scatenato la guerra contro la terra di Dixie col nobile intento di sradicare la mala pianta dello schiavismo; egli non voleva che “chicchessia nutrisse il minimo dubbio” sui reali motivi del conflitto:
Ciò che voglio è salvare l’Unione. […] Il mio obiettivo primario in questa lotta è quello di salvare l’Unione e non quello di conservare o eliminare la schiavitù. Se potessi salvare l’Unione senza dover liberare un solo schiavo, lo farei e se la potessi salvare liberando tutti gli schiavi lo farei. Se potessi salvarla liberandone alcuni e abbandonandone altri farei anche questo. Ciò che faccio riguardo alla schiavitù, e per la razza di colore, lo faccio perché penso che aiuti a salvare l’Unione e ciò che non faccio, non lo faccio perché non credo che serva a salvare l’Unione.
Da abile uomo di Stato qual era senza dubbio, Lincoln sapeva contraddire se stesso con abilità: nel suo secondo discorso inaugurale del 4 marzo 1865 affermò che “gli schiavi costituivano un interesse peculiare e potente. Tutti sapevano che questo interesse fu, in qualche modo, la causa della guerra”. Nel suo primo discorso inaugurale del 4 marzo 1861 aveva purtroppo detto: “Non ho nessuna intenzione, direttamente o indirettamente di interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati in cui esiste”; aveva addirittura paventato di renderla perpetua: “Ogni protezione che, in accordo con la Costituzione e le leggi può essere fornita, sarà immediatamente fornita a tutti gli Stati”.

Liberismo e protezionismo

Si è spesso sostenuto che il Nord avrebbe avuto interesse ad eliminare lo schiavismo al Sud per ovviare alla concorrenza sleale di quest’ultimo. Niente di più inesatto: come si è visto, la schiavitù rendeva parecchio soprattutto ai nordisti, e le produzioni erano talmente eterogenee fra le due aree da impedire qualsivoglia competizione; d’altro canto, proprio la liberazione degli schiavi – il nome di quel free work auspicato dai repubblicani - avrebbe incrementato l’offerta di lavoro tanto da ridurre drasticamente i margini dei salariati del Nord, che di ciò erano ben consapevoli. E’ bene comunque sottolineare che l’opposizione centralismo/federalismo – espressi rispettivamente dal Nord e dal Sud – nascondeva  effettivamente una linea di faglia di natura economica, la quale giocò un ruolo eminente nella secessione, nel conflitto e nel desiderio impellente di Washington di impedire l’indipendenza del Sud. Il Nord industriale premeva infatti per l’imposizione di pesanti misure protezionistiche – forti dazi doganali -, mentre il Sud agricolo, che esportava cotone ed importava gran parte dei prodotti dall’Europa, optava per il libero mercato e il liberoscambismo. I repubblicani erano notoriamente espressione della borghesia industriale yankee, e Lincoln fu assiduo sostenitore del protezionismo, promettendo più volte ai capitalisti settentrionali drastici rincari delle tariffe daziarie – promessa che avrebbe poi solertemente mantenuto. Il ritratto di Pasolini Zanelli coglie ancora una volta nel segno:
Lincoln era disposto a quasi ogni compromesso sulla questione della schiavitù. […] Su un punto invece era assolutamente intransigente: il potenziamento degli Stati Uniti attraverso lo sviluppo industriale e, a questo fine, il protezionismo, il centralismo […] Erano necessari per uno sviluppo “imperiale” interno su linee non dissimili dal mercantilismo che aveva retto l’Inghilterra nel XVII e nel XVIII secolo, prima della svolta liberista dell’Ottocento. “Sistema americano” [American System, n.d.r.] aveva chiamato questo progetto Henry Clay, il suo più coerente propugnatore di cui Lincoln doveva essere l’erede. Tutto questo costava molti dollari e per reperirli il governo federale […] non poteva contare che su tasse sui consumi e, soprattutto, sulle tariffe doganali, che costituivano nel  1860 il 95 per cento dei suoi introiti. Gran parte dell’aggravio sarebbe pesato sugli Stati del Sud […], [il quale Sud] intuiva che sarebbe stato rovinato dal protezionismo industriale (e lo fu, durante la guerra e per lunghi decenni di dopoguerra) e avrebbe dovuto coprirne i costi. Fu questo, non l’attaccamento alle istituzioni schiaviste, che spinse i suoi dirigenti verso la soluzione disperata della Secessione.
Fin dal dibattito genetico intorno alla Costituzione, i fautori del centralismo – prevalentemente nordisti -  avevano sovente sostenuto misure di intervento pubblico nell’economia; al contrario gli Antifederalisti, ovverossia i “federalisti autentici” espressione dell’intellighenzia sudista, avevano sempre difeso il laissez-faire delle origini e la libertà economica dalle ingerenze del governo federale. Essi avevano correttamente compreso che ogni rivendicazione di libertà che voglia essere fondata deve partire innanzitutto dalla difesa della libertà di mercato e della sfera privata dei singoli contro le invasioni della “mano pubblica” dello Stato. Al contrario, il centralismo dei redattori dei Federalist Papers – Hamilton in primis – e di Webster, così come il nazionalismo intransigente di Lincoln, avrebbero fatto da spalla alle pretese di Washington di controllare e dirigere ampi settori dell’economia: la difesa del “made in USA” era il cavallo di Troia mediante cui veicolare l’affermazione di uno Stato centrale forte e la soppressione del regime di “libertà federale”. Tutto ciò fu reso possibile dalla sconfitta della Confederazione: l’America, come ha scritto efficacemente Alberto Mingardi, morì il 9 aprile 1865 ad Appomattox, quando il Generale Lee firmò la resa incondizionata dinnanzi a U.S. Grant. Questa scena è ahimè rappresentata da Spielberg nel suo peana cinematografico come l’inizio di una nuova era di uomini liberi ed eguali.

Il tramonto della old republic

Avviandoci alla conclusione, dobbiamo spezzare inusitatamente una lancia a favore dell’honest Abe Lincoln. Quest’ultimo compì certamente un atto di cattivo gusto allorquando, entrato trionfalmente a Richmond dopo la capitolazione della capitale confederata, visitò la residenza di Jefferson Davis prendendosi la soddisfazione di sedersi sulla sua poltrona. Nondimeno, dopo la resa di Appomattox si dimostrò – cosa a prima vista paradossale – strenuo difensore del Sud contro i “falchi” repubblicani come il segretario della Guerra Edwin M. Stanton: figura per certi versi obliqua e senza scrupoli – diceva di voler “far urlare di dolore e di orrore tutto il Sud” -,  costui presentò l’11 aprile 1865 un suo progetto per sottoporre l’intero Sud ad una lunga occupazione militare, come fosse una qualunque terra di conquista. Lincoln fece respingere il piano, mandando Stanton su tutte le furie.  Luraghi chiarisce il motivo di questa apparente retromarcia del Presidente:
Egli prevedeva che se si voleva far nascere veramente la nazione americana, era meglio smetterla con il fuoco e il sangue; se ne era già fatto un uso addirittura eccessivo. I rancori  lasciati dalla guerra, in definitiva, sarebbero scomparsi abbastanza presto; ma quelli seminati dall’oppressione sarebbero durati a lungo. La politica meschina, vendicativa, feroce dei radicali sarebbe costata agli Stati Uniti quasi un secolo di odii sezionali che, se Lincoln fosse vissuto, sarebbero stati forse evitati.
Il fine poteva giustificare anche mezzi relativamente pacati, in ossequio al noto adagio per cui “si ottiene di più con il miele che con l’aceto”. Forse, se le cose fossero andate così, il Sud avrebbe presto dimenticato le razzie e i soprusi fini a se stessi messi in atto sul proprio territorio dai soldati nordisti, Sherman e Sheridan in primis; forse, obliata l’onta della sconfitta, il Sud si sarebbe col tempo reintegrato e – chissà – nella collaborazione con Washington avrebbe potuto ottenere in futuro alcuni margini di azione. Tuttavia, la sera 14 aprile 1865, presso il teatro Ford di Washington, John Wilkes Booth sparò con una calibro 44 al Presidente Lincoln; un colpo alla tempia che lo avrebbe stroncato poco dopo. L’assassino si gettò poi sul palco, donde gridò ad un pubblico sconvolto una frase destinata a diventare celebre: “Sic semper tyrannis!”, “così sempre ai tiranni!”, il motto dello Stato della Virginia, le parole che Bruto aveva rivolto a Cesare mentre lo pugnalava. SI può pensare – e Spielberg avvalora con fare sornione questa idea – che Booth fosse un simpatizzante sudista, o finanche un agente di Davis, deciso a vendicare la sconfitta del proprio paese e a destabilizzare le istituzioni degli Stati Uniti. Scrive tuttavia Luraghi:
Era chiaro che se qualcuno rimaneva gravemente danneggiato dall’assassinio, questi erano i sudisti. In base quindi al semplice cui prodest, l’ipotesi che i capi del Sud avessero potuto ordire la trama appare già del tutto inverosimile. Ma anche il procedimento che si cercò di imbastire contro l’ex Presidente confederato Jefferson Davis (il quale fu incarcerato, trattato in un modo che era una patente violazione non solo del diritto delle genti, ma della più elementare umanità, e caricato di accuse prive di qualsiasi fondamento) finì in un fallimento clamoroso: tutta la buona volontà di un Tribunale manifestamente di parte ed asservito ai radicali e a Stanton, non riuscì a mettere insieme contro Davis la benché minima prova. […] Cominciarono poi a venire alla luce i legami tra Booth e Stanton, tuttavia non ancora perfettamente chiariti. […] Secondo l’ipotesi più probabile, John Wilkes Booth fu, durante il conflitto, un agente segreto dello spionaggio nordista.
Tolto di mezzo Lincoln – più o meno intenzionalmente – Stanton e i radicali poterono finalmente imporre al Sud quella che i manuali di Storia definiscono, con un eufemismo che parrebbe ridicolo se non fosse raccapricciante, “Ricostruzione”: fu in realtà un’occupazione militare che durò fino al 1871, che stremò fisicamente ed economicamente gli Stati del Sud, vessandoli con i tributi e le imposizioni più pressanti e condannandoli ad una posizione di minorità da cui avrebbero impiegato parecchio tempo per uscire. Scrive Pasolini Zanelli, non senza una nota di rammarico:
Per riprendersi gli ci è voluto più di un secolo. Per cent’anni dopo la sconfitta il Sud ha esportato uomini (di pelle bianca e nera) ed è stato controllato dai capitali del Nord. Il Sud aveva ostacolato lo sviluppo dell’industria del Nord scavalcandola e rifornendosi in Europa (questo era stato uno dei motivi della guerra) e ora veniva sacrificato agli interessi del protezionismo. Non ha partecipato alla conquista dell’Ovest, non ha avuto parte nel travaglio del melting pot […] il Sud non era l’America, perché l’America era ricchezza, metropoli, opifici, posti di lavoro, emancipazione, libertà; e fino a cent’anni dopo la conclusione della guerra civile il Sud non aveva ricchezza, era rurale, non possedeva industrie, non aveva “jobs” da offrire ed era incatenato ai rancori razziali e dalle barriere di casta con cui i bianchi immiseriti difendevano il proprio orgoglio opprimendo gli ex schiavi ancora più poveri di loro. Il Ku Klux Klan fu fondato negli anni torbidi e magri dell’immediato dopoguerra e dell’occupazione militare [nel 1867, n.d.r.] […] Lincoln e i suoi successori avevano tolto i ceppi agli schiavi e non avevano dato loro un lavoro ma il diritto di voto, privandone al contempo quasi la metà dei bianchi, perché avevano combattuto nelle armate del Sud. Per questi ultimi l’unico modo per vincere e riprendersi il potere locale era tener lontani dalle urne i novizi di colore terrorizzandoli coi i cappucci, le croci incendiate, le fustigazioni, gli assassini. Non era il Sud che piaceva a Robert Lee.
In effetti, un gentiluomo onesto e d’altri tempi come Lee – peraltro da sempre convinto abolizionista, al contrario del Generale yankee U.S. Grant – non poteva amare un Sud depredato e ridotto in miseria dallo sfruttamento del Nord, che covava risentimenti e rancori di cui per ironia della storia fu vittima la popolazione di colore. La crociata nordista non si limitò comunque ad immiserire il Mezzogiorno, ma contribuì nel tempo ad espungerlo dalla memoria collettiva. Con le parole efficaci di Bassani:
E’ solo dal periodo della guerra civile che la Plymouth plantation e la Nuova Inghilterra diventano più rilevanti di Jamestown e della Virginia, il puritanesimo viene proclamato la religione fondativa, il passato americano viene ricostruito a partire da una norma (il New England) rispetto alla quale gli Stati del Sud non sono che una deviazione. [… ] Il Sud si presenta come un “altrove assoluto”[…]. Sulla strada della modernità il New England si staglia come la perfezione, il “dover essere” di ogni più remota parte del paese, mentre al Sud spetta il ruolo di “non io”, di antitesi a tratti assoluta e inconciliabile. […] oggi l’attacco al passato sudista si mescola con un continuo processo di “rieducazione culturale” al quale i cittadini del Sud sono sottoposti sin dall’infanzia. Del Sud vengono attaccati costantemente simboli, idee, retaggio.
Difficile dar torto a Luraghi quando scrive, in modo perentorio:
Si deve purtroppo concludere che è in atto una gigantesca operazione (orchestrata dal Nord e capeggiata prevalentemente da black muslims, da ideologi del politically correct e da altri estremisti) intesa a mutilare il Sud della propria storia.
E’ alquanto probabile che il film di Spielberg si inserisca in questo filone del peggior revisionismo storico – non quello atto a demitizzare le falsificazioni storiche, ma quello teso a reiterare i più consolidati abusi della realtà. Un ultimo danno della vittoria nordista, forse irreparabile, merita di essere messo in luce. La primazia dell’Unione, tanto cara al Presidente Lincoln, condusse all’affermazione di uno “Stato americano”, un concetto che snaturava del tutto le finalità del patto federale originario. La old republic, l’America delle origini fondata sulla tutela dei diritti naturali degli individui, sul sistema federale, sugli States’ rights e sulla più cristallina idea di libero mercato, morì con la guerra civile e con la disfatta degli Stati confederati. L’idea stessa su cui dovrebbe fondarsi un’autentica democrazia – il diritto di rifiutare le angherie del potere, di recedere da un contratto politico divenuto vessatorio -, annegò nel sangue a Gettysburg e fu sanzionata dalla resa del Sud. La vittoria dello statalismo, il trionfo dello Stato moderno sulle più adamantine tradizioni liberali americane, non è avvenuto col voto, foss’anche con un plebiscito, ma grazie alla forza dei cannoni e delle baionette. Le parole di Bassani sono senz’altro la conclusione più esaustiva:
Furono le sue [di Lincoln, n.d.r.] armate che fecero assimilare a ogni cittadino americano, nel Nord quanto nel Sud, l’idea che vi fosse una comunità di interessi tra l’individuo e lo Stato (ormai identificato con la nazione/unione). Per quanto l’opinione comune ammetta ormai con franchezza che Lincoln, insieme a quelle della schiavitù, abbia reciso le radici della vecchia idea di un’opposizione tra l’individuo e lo Stato, è vero l’esatto contrario. Il suo obiettivo primario fu proprio quello di sradicare l’idea, cara alla generazione rivoluzionaria, di un’opposizione tra l’individuo e lo Stato, svuotando in tal modo di ogni significato una Costituzione fondata esattamente su tale dicotomia e, così facendo, ottenne l’effetto collaterale, provvidenziale, ma niente affatto voluto, di eliminare la schiavitù.
Insomma: la “guerra di Mr. Lincoln”, oltre a sacrificare più di 600.000 vite umane sull’altare dell’Unione, liberò dalle catene gli schiavi, ma rese schiavi molti uomini liberi. In definitiva, per quanto riguarda la tragedia centrale della storia americana, le cose non sono così semplici, anzi sono complicate come in nessun altro periodo storico.

Bibliografia ultra-minima

-          BASSANI LUIGI MARCO, Dalla Rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato moderno in America 1776-1865 (Rubbettino, 2009)
-          LURAGHI RAIMONDO, Storia della guerra civile americana (Einaudi, 1976)
-          LURAGHI RAIMONDO (a cura di), La guerra civile americana (Il Mulino, 1978)
-          ONETO GILBERTO, Unità e libertà. Italiani e padani nella guerra di secessione americana (Prefazione di Luigi Marco Bassani, Il Cerchio-Quaderni Padani 2012)
-          PASOLINI ZANELLI ALBERTO, Dalla parte di Lee. La vera storia della guerra di secessione americana (Leonardo Facco Editore, 2006)

Pubblicata su The Road to Liberty