martedì 30 aprile 2013

Camicie rosse, ammiragli, massoni e affaristi: la partenza dell’ “avventura” dei Mille

 
 
 
FARE CONTROSTORIA PER FARE CONTROPOLITICA
 
Vorremmo parlare di un funesto 5 maggio: il 5 maggio del 1860 allo scoglio di Quarto, sempre che l’ormai onnipresente Napolitano (una sorta di Felice Tecoppa del XXI secolo) ci consenta di “dir male” di Garibaldi.
Dopo le delusioni amorose del “matrimonio” con la contessina Raimondi, un affranto Garibaldi si gettò con il suo solito burbero ma generoso attivismo in un frenetico impegno politico. Allettato dalle offerte di Cavour e Vittorio Emanuele, che facevano a gara nel mostrarsi più amici del generale, Garibaldi pensava di poter dare libera attuazione ai propri progetti tramite le associazioni di cui era stato fatto nominalmente presidente: la Società Nazionale, la Nazione armata e il progetto Fondo per un milione di fucili. In realtà queste associazioni non rispondevano assolutamente a Garibaldi, bensì a Cavour o a qualche suo “fratello” manutengolo. Garibaldi nel frattempo era sempre più incalzato dai patrioti siciliani guidati da Crispi, che all’inizio di aprile erano insorti in varie zone della Sicilia. La sua avventura da deputato invece finì ben presto: eletto nelle consultazioni del 25 e 27 marzo, neanche un mese dopo si dimise, in aperta rottura con Cavour che aveva dovuto regalare Nizza alla Francia in seguito al trattato di Villafranca. A Nizza infatti il solito plebiscito truccato (anche se sembra che i nizzardi fossero ben poco soddisfatti del governo sabaudo che nel XIX secolo le aveva volto le spalle per guardare a Genova) consentì il passaggio della città sabauda a Napoleone III, nonostante Garibaldi avesse provato a forzare la situazione con un maldestro tentativo d’insurrezione. Sarebbe arduo comunque cercare di delineare in poche righe i convulsi preparativi della spedizione in Sicilia, basta sottolineare come Garibaldi rimanesse interdetto e irresoluto in mezzo alle sollecitazioni degli uni e alle brusche frenate degli altri: se i mazziniani lo accusarono di codardia per non aver ancora prestato appoggio agli insorti siciliani, il re fece in modo di rimandare il più possibile la partenza. Lo stesso Rodomonte nizzardo, non ben addotto in tutti i particolari, comunque temeva che l’esito della spedizione si rivelasse alla prova dei fatti fallimentare (come già era successo ai Bandiera e a Pisacane) e, da abile manager della sua immagine, tentennava e fu addirittura tentato di tornarsene nell’eremo di Caprera. A spronare definitivamente il nizzardo fu però la minaccia di Cavour di sostituirlo con un altro avventuriero della sua terra: Ignazio Ribotti. Cavour aveva ormai predisposto la macchina e pertanto l’ “impresa” si sarebbe fatta con o senza Garibaldi. Pungolato sull’orgoglio, il generale risvegliò la sua tempra e attorniato dai fidi collaboratori chiamò a raccolta le sue schiere di volontari per dare avvio alla missione.
La spedizione era in realtà più che altro una passeggiata e di questo solo Garibaldi e i suoi volontari non ne erano consapevoli, meritando pertanto un certo umano apprezzamento per il coraggio dimostrato, mentre anche i suoi più stretti collaboratori (Bertani, Bixio, Medici), di appartenenza massonica, conoscevano molti retroscena degli eventi. Innanzitutto è da segnalare come la spedizione di Garibaldi e Bixio, volutamente resa avventurosa da una serie di montaggi scenografici volti a darle una patina da romanzo salgariano, fosse in realtà ben protetta dalla flotta britannica dal contrammiraglio Roger Mundy, vicecomandante della Mediterranean Fleet, che da tempo pattugliava le acque del Tirreno e del Canale di Sicilia, probabilmente alla ricerca di un casus belli da poter sventolare al momento adatto contro il regno duosiciliano. Allo stesso modo Vittorio Emanuele e Cavour avevano disposto che la spedizione fosse accompagnata, per tutelare gli interessi della corona sabauda, dalle navi della flotta sarda al comando di un raccomandato dal D’Azeglio, l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano che qualche anno più tardi si sarebbe meritato il titolo di “uomo di legno” per la disastrosa sconfitta di Lissa. Persano aveva il compito d’impedire che Garibaldi esagerasse e indirizzasse i suoi uomini verso fini estranei agli interessi governativi, fornendo nel frattempo un indispensabile sostegno economico e logistico alla spedizione, seguita passo passo via mare.
Un aspetto che ci permette però d’intravedere il ruolo giocato dalla massoneria nella “passeggiata” dei Mille è comunque quello dei finanziamenti. II soldi che servirono per organizzazione della spedizione, armamento e approvvigionamento delle truppe, ma soprattutto per la corruzione in massa degli ufficiali dell’esercito borbonico vennero rispettivamente messi a disposizione dai seguenti finanziatori:
- 2.000.000 di franchi oro raccolti dal massone Cavour e affidati alla Società Nazionale;
- 3.000.000 di franchi francesi raccolti dalle logge di rito scozzese della massoneria in Inghilterra, nel Canada e negli Stati Uniti;
- 90.000 lire provenienti dal fondo del milione di fucili, raccolti in Piemonte, Lombardia e Veneto da privati ma soprattutto da comuni, che applicarono con il benestare del governo una tassa sui fondi rustici;
- 25.000 lire di provenienza ignota;
Probabilmente i fondi ufficiali impiegati furono ancora maggiori dato che nel 1864 il ministro delle Finanze Quintino Sella avrebbe registrato nel bilancio del Regno d’Italia un’uscita di 7.900.000 sotto la voce “spese per la spedizione di Garibaldi”.
Un altro aspetto che mette in luce la preparazione “massonica” dell’avventura dei Mille è legato alla vicenda delle due navi sulle quali i garibaldini compirono la traversata del Tirreno. I due navigli, che ebbero il significativo nome di Lombardo e Piemonte, provenivano dalla flotta dell’armatore genovese Raffaele Rubattino. Tanto per chiarire i termini della questione Rubattino era massone e il direttore generale della sua società di navigazione, Giovanni Battista Fauché, era altrettanto massone e in buoni rapporti con Giuseppe Garibaldi. Rubattino non era d’altronde del tutto estraneo al movimento risorgimentale dato che di sua proprietà era anche la nave Cagliari, che nel 1857 era stata rubata sulla rotta Genova-Tunisi da Carlo Pisacane per il tentativo di sbarco a Sapri, dove avrebbe voluto far insorgere i contadini campani contro i Borboni. In realtà però il furto era stato simulato e Rubattino era stato regolarmente remunerato per il servizio prestato (e l’annessa sceneggiata) e, dopo il fallimento della spedizione, riuscì ad ottenere indietro la sua proprietà dal governo borbonico grazie a pressioni diplomatiche inglesi, in quanto i due macchinisti erano cittadini britannici. L’accordo per il nuovo “furto” da compiere da parte di Garibaldi venne sancito a Modena, dove Vittorio Emanuele e Cavour si accollarono di fronte al Rubattino le spese per il nolo di due navigli adatti per il trasporto dei Mille. Il 4 maggio Garibaldi e Rubattino, in presenza di commissari regi, firmarono presso il notaio il contratto delle due barche, con la condizione del finto furto (che come tale ci viene raccontato anche da Giulio Cesare Abba). Rubattino, certamente convinto massone, era però con ancor più convinzione uomo d’affari: in cambio delle due sgangherate navi (una delle quali in partenza dovette addirittura essere rimorchiata) riuscì ad ottenere, oltre al regolare nolo, anche l’esclusiva per il servizio a vapore verso la Sardegna nel futuro Regno d’Italia e altre concessioni. Negli anni successivi non si sarebbe accontentato degli ampi guadagni già avuti in cambio della sua “militanza patriottica”, anzi avrebbe avuto a più riprese modo di lamentarsi con Bixio di non essere stato ripagato degli sforzi fatti. In realtà già nell’ottobre del 1860 a Rubattino era stato accordato dal Cavour un sostanzioso rimborso per le tre navi “risorgimentali” e negli anni successivi gli vennero fatte ulteriori concessioni che l’imprenditore genovese seppe sfruttare investendo nel commercio col Medio Oriente. Un altro importante evento storico italiano ebbe a che fare con il Rubattino: nel 1869 arrivò ad acquistare la baia di Assab in Eritrea che qualche anno più tardi sarebbe stata ceduta alla monarchia sabauda, in vena di espansione coloniale. A onor del vero vi è da dire che Rubattino seppe comunque dimostrare gratitudine per i suoi benefattori, Garibaldi per primo: a questi venne concesso quasi sempre di viaggiare gratuitamente nei suoi frequenti spostamenti e verso il termine della sua vita il nizzardo riuscì a far assumere nell’azienda del Rubattino, divenuta Società Generale di Navigazione Italiana, il genero Stefano Canzio.
 
a cura dell’ufficio politico Fronte Indipendentista Lombardia
8 maggio 2010

Giuseppe Garibaldi tra camicie rosse e sottovesti. Il caso della contessina Raimondi



 

E’ noto come un atto fondamentale per il rafforzamento della politica interna del Piemonte sabaudo e quindi per porre le basi per l’invasione della penisola italiana, fu il famoso “connubio” Rattazzi-Cavour (1852) con la quale il conte piemontese riuscì a formare un governo costituito da esponenti della sinistra moderata e della destra liberale, isolando così nel Parlamento subalpino la destra clericale, baluardo contro la politica anticattolica verso cui aveva intenzione di indirizzarsi il Cavour, allo scopo di attrarre la fiducia dei liberal-massoni. L’evento ebbe sicuramente una certa importanza nel sancire l’esito del biennio 1859-61 (anche se forse di minore rilevanza rispetto alla politica estera e agli interessi economici), ma qui vorremmo occuparci di un connubio ben più prosaico: il matrimonio tra Giuseppe Garibaldi e la contessina Raimondi. L’esito dell’unione tra i due, come vedremo, ebbe una certa importanza nel far sì che il nizzardo scegliesse effettivamente d’intraprendere l’ “impresa” offertagli da Cavour, anche se fin da subito è bene specificare come la spedizione dei Mille, sfrondata del belletto della retorica, risulti molto meno decisiva al fine della sabaudizzazione della penisola rispetto alla pressione diplomatica e operativa dell’Inghilterra e alle esigenze dei poteri economici alleati di Cavour. La vicenda che racconteremo è peraltro pienamente in sintonia con l’esistenza sentimentale del Garibaldi, torbida e passionale, sempre sospesa tra ingenuità e pulsione irrazionale.
La contessina Giuseppina Raimondi di Fino Mornasco, figlia di un mazziniano esiliato, era nel 1859 una giovane diciottenne che svolgeva, nel teatro degli scontri della Prima Guerra d’Indipendenza, l’attività di portaordini per i patrioti lombardi, intrecciando il patriottismo con una certa facilità a concedersi agli aitanti garibaldini. Il 2 giugno la Raimondi si recò, in compagnia di un prete, a Malnate, dove Garibaldi si era ritirato dopo essere stato respinto da Laveno, per chiedere l’intervento del generale a Como, dato che l’effimera vittoria di San Fermo del 27 maggio aveva solo respinto gli austriaci ma non assicurato il controllo della città alle truppe filo-piemontesi. Dopo la serata passata in romantiche conversazioni con la Raimondi, Garibaldi non temporeggiò e diresse al vice Camozzi uno stringato ma significativo biglietto: “Marcio su Como”. La decisione, presa “sulla base di pulsioni testosteroniche più che tattiche” (G.Oneto), gli permise comunque di evitare l’accerchiamento delle truppe del generale Urban e, ben più importante per lui, di sostare per cinque giorni a casa della Raimondi, dove potè conoscere anche il padre, da poco tornato dall’esilio svizzero e desideroso di guadagnare un seggio in senato con una saggia politica famigliare, incurante dei 34 anni di differenza tra la figlia e Garibaldi. Le vicende belliche lo costrinsero a prendere la via di Bergamo e di Brescia, una passeggiata senza scontri significativi che poco significò nella guerra conclusasi l’11 luglio con l’armistizio di Villafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe. Con la fine della guerra Garibaldi poté dedicarsi totalmente ai suoi progetti sentimentali intrattenendo relazioni e corrispondenze con almeno quattro donne contemporaneamente: la bolognese Pepoli, la Raimondi, Speranza von Schwartz, che più volte rifiutò di sposarsi col nizzardo, e la servetta Battistina Ravello, che gli aveva appena sfornato la figlia Anna Maria Imeni, detta Anita. Ciò che fermava però l’ “eroe” da un impegno più concreto con una delle tre era però il legame matrimoniale che lo univa ancora alla vera Anita, la morte turbolenta della quale aveva reso impossibile al Garibaldi produrre un certificato di morte che avrebbe sancito il termine legale del connubio. Proprio nell’estate riuscì, riesumando la salma di Anita e trasferendola a Nizza, ad ottenere la possibilità di risposarsi ma i problemi politici lo tennero lontano dalla prospettiva matrimoniale. Era rimasto infatti indispettito da alcuni comportamenti di Vittorio Emanuele e Cavour nei suoi confronti, i quali infatti, dopo averlo lusingato col progetto della Nazione armata, una lega di tutte le associazioni patriottiche messa a disposizione del barbuto generale, impedirono qualunque messa in atto dei progetti garibaldini. Il 28 novembre, mentre stava per imbarcarsi per la Maddalena, un improvviso ed eloquente biglietto della Raimoni (“Ti amo, fammi tua”) lo sorprese a Genova, convincendolo a desistere da un volontario esilio e conducendolo a Fino dove la sorte collaborò con Cupido (o forse con la furbizia della Raimondi) in quanto una caduta da cavallo il 4 dicembre lo costrinse a letto per tre settimane, sempre assistito dall’amorevole e interessato conforto della contessina. Il cuore passionale del Garibaldi a quel punto non poté districarsi dal groviglio amoroso e acconsentì ad unirsi nel vincolo nuziale il 24 gennaio 1860, nella chiesa della stessa cittadina comasca. La gioia della celebrazione imenea fu però turbata da una vicenda tragicomica, che a dire il vero per Garibaldi ebbe ben poco di comico. Immediatamente dopo le nozze a Garibaldi venne comunicato, tramite un foglietto, che la novella moglie era incinta di un altro garibaldino, Luigi Caroli, e che lo aveva tradito (forse anche la sera prima del matrimonio) con almeno un altro uomo. Il generale nizzardo mostrò il biglietto alla sposa che non poté negare il fatto, al che Garibaldi scoppiò in un perentorio: “Signora voi siete una puttana!”. A questo la ragazza rispose con un’orgogliosa quanto infelice risposta: “Pensavo di essermi sacrificato per un eroe, invece non siete che uno zoticone!”. A quel punto Garibaldi partì subito a cavallo non volendo più rivedere per tutta la vita la moglie, che nell’agosto partorì un bambino morto, che teoricamente avrebbe potuto essere frutto delle focose notti di dicembre del convalescente e della Raimondi infermierina. Garibaldi spesa la vita nel cercare di ottenere il divorzio, il che gli avrebbe permesso una nuova cartuccia matrimoniale dopo aver sprecato malamente la seconda, cosa che avvenne solo nel 1880. Si vendicò però facendola pagare a tutti quelli che furono implicati nella vicenda: al Caroli venne impedita qualsiasi partecipazione patriottica, tanto da dover andare a morire in Polonia in una spedizione suicida, mentre il conte Raimondi, già inserito nelle liste delle nomine senatoriali, vide troncata ogni possibile ascesa. Dicevamo che la vicenda ebbe immediate connessioni con la spedizione in Sicilia infatti il Garibaldi affranto dalle vicende personali nei mesi seguenti venne stordito anche da quelle politiche, in particolar modo la cessione di Nizza a cui seguirono le sue dimissioni da deputato. Pressato dagli insorti siciliani, agitato dai mazziniani e intiepidito dal re, Garibaldi, rispetto al suo tipico decisionismo scervellato, si dimostrava stranamente irresoluto e tentennante davanti alla possibilità di guidare una spedizione di volontari per strappare la Sicilia ai Bguelorboni, legandole il cappio sabaudo sotto il pretesto della liberazione dell’isola. Il Cavour nel frattempo, tramite la rete che lo univa ai rivoltosi siciliani e alla marina britannica, aveva già organizzato per filo e per segno la “passeggiata” duo siciliana e aveva solo bisogno di un protagonista: davanti ai dubbi di Garibaldi il ministro piemontese aveva già pensato anche ad un sostituto, Ignazio Ribotti, noto avventuriero nizzardo. Davanti alla possibilità di essere eclissato da un concittadino, Garibaldi in un ultimo sussulto di orgoglio mascolino, troppo abbassato dalle vicende del gennaio, accettò in aprile di guidare la spedizione: Cavour trovò così lo spaventapasseri che cercava mentre Garibaldi trovò pane per i suoi denti, cioè un impresa senza rischi ma utile a far continuare il suo mito.
 

 

Terrorismo liberale: in ricordo dei morti di Milano (6-9 maggio 1898)

 
Barricate degli insorti  ed aggressione dei bersaglieri, Milano 1898, foto di Luca Comerio


Non solo il presente è testimone delle efferate violenze liberal-democratiche (Iraq, Afghanistan, strangolamenti economici liberisti) ma anche la storia ha molto da mostrare a noi ingenui posteri; i primi decenni di vita del regno sabaudo furono costellati dalla repressione violenta e legalizzata di moti popolari fossero essi espressione del pensiero controrivoluzionario e legittimista, come quello dei briganti duosiciliani sterminati dal gen. Enrico Cialdini in ottemperanza alla legge Pica del 1863, spontanee insurrezioni, come i moti del macinato del 1868-69 contro la omonima tassa, oppure manifestazioni organizzate legate alle prime forme di associazionismo operaio e contadino. Queste ultime, in cui si diluirono le insurrezioni spontanee, incominciarono a dimostrare una certa pericolosità per l’integrità del regno negli anni ’80 quando ai primi scioperi nel Nord Italia (Cremona e Rovigo) seguirono manifestazioni sempre più virulente ed endemiche, anche a causa del crollo della fiducia nelle istituzioni motivato dalle sconfitta di Dogali (1887) e dagli scandali della Banca Romana (1889). L’ultimo decennio del secolo si aprì con la fondazione dei Fasci Siciliani di contadini e operai, la cui grande capacità aggregativa costrinse l’allora capo di governo, Francesco Crispi, a ricorrere alle maniere forti attraverso leggi “contro la sovversione sociale”, ossia contro l’associazionismo proletario.
La morte politica colpì però Crispi in seguito alla sconfitta di Abba Garima del 1896 quando il fortore delle critiche inviperite e la durezza degli scontri, soprattutto a Milano dove il popolo bloccò i binari della stazione centrale per impedire la partenza dei soldati (rimediandone parecchie baionettate), costrinsero il primo ministro alle dimissioni. A quel punto il sovrano Umberto I, nonostante avesse preferito un primo ministro ancora tenacemente bellicista, dovette nominare il marchese siciliano Antonio Starrabba di Rudinì che, pur nell’aleatorietà delle posizioni politiche in quell’epoca, avrebbe dovuto rappresentare la linea liberal-conservatrice; il marchese di Rudinì si era segnalato al truce sguardo di casa Savoia già dal 1866 quando da sindaco di Palermo aveva rifiutato qualsiasi compromesso coi separatisti attuando una repressione nel sangue degli insorti.
Fin da subito assunse un atteggiamento contraddittorio cercando di compiacere le fazioni organizzate di sinistra, con la concessione dell’amnistia ai condannati politici, eppure colpendo la popolazione nei suoi bisogni basilari, con un aumento del dazio sul granoturco da L. 1,15 a L. 7,50, il che ebbe effetti catastrofici considerando che dopo il pane (già colpito dall’aborrita imposta sul macinato) la polenta era l’alimento più consumato.
La montante collera popolare, inasprita dallo scarso raccolto del 1897, portò a una revisione della politica governativa in direzione destrorsa attraverso provvedimenti di soppressione delle camere di lavoro: ciò provocò l’alienazione di qualsiasi appoggio dei socialisti di Turati, mentre rimanevano in attesa i repubblicani radicali e i democratici. Le gravi condizioni d’indigenza premiarono però la posizione del partito socialista rispetto alle altre correnti di sinistra mostrando un inequivocabile scivolamento a sinistra: “i democratici sono moribondi, i repubblicani assorbiti giorno dopo giorno dai socialisti, questi avanzano!” scrisse il Corriere della sera l’indomani delle elezioni politiche del 1897. Ad ogni modo di Rudinì coinvolse la sinistra non socialista nel suo nuovo governo del 1898, nel quale affidò a Giuseppe Zanardelli il ministero di Grazia e Giustizia, equilibrando in tal modo, con un’azione al limite del trasformismo, le forze conservatrici. Integrati nel sistema erano anche i cattolici liberali, ribelli al Non expedit di Pio IX, i quali rinchiusi nella loro ottica elitaria e borghese erano incapaci di interpretare i moti popolari come spontanea espressione della disperazione, preferendo evidenziarne l’azione eversiva e chiedendone, di conseguenza, la repressione.
Il cattolicesimo intransigente invece, avendo rifiutato il coinvolgimento nei tetri meandri del potere liberale e preferito le vie dell’azione caritativa e assistenziale all’interno dell’Opera dei congressi , capì alla perfezione la situazione intuendo, al di là dell’aspetto rivoluzionario e socialista che molti moti avevano, quanto male lo stato liberale stesse provocando alla popolazione; principale voce guida del cattolicesimo intransigente era il giornalista Don Davide Albertario che abitualmente tuonava dalle colonne de L’osservatore cattolico evidenziando come “il liberalismo si dibattesse nell’agonia e portasse i germi di una prossima dissoluzione” e scagliandosi contro “il governo iniquo, gli sperperi e i ladronaggi ufficiali”. Dal 1898 le sollevazioni divennero sempre più diffuse e veementi soprattutto a causa del rialzo dei prezzi del pane, in parte causato dalla guerra ispano-americana ma in parte artificiali (come fu chiesto infatti il governo avrebbe potuto temporaneamente sospendere il dazio), e della chiamata alle armi della classe 1873, tanto da costituire una vera e propria minaccia al governo di Rudinì che non lesinò minacce e veri e propri bagni di sangue. La repressione manu militari, attuata da generali formatisi sull’esempio dei massacratori risorgimentali e sostenuta dagli stati d’assedio proclamati dall’indifferente capo del governo, provocò decine di vittime in tutta la penisola: ciò non fece che acuire la protesta che divenne generalizzata e visse il suo culmine a Milano, in quella che Napoleone Colajanni definì la protesta dello stomaco.
Il 6 maggio nello stabilimento Pirelli di via Galilei i sindacati distribuirono volantini accusanti il governo per la diffusione della carestia, oltre a denunciare l’uccisione il giorno precedente a Pavia di Muzio Mussi (figlio del vicepresidente della camera Giuseppe), che aveva tentato di agire da paciere tra popolo e militari; immediatamente si scatenò una protesta spontanea eccitata dall’intervento della polizia che arrestò svariati sindacalisti e operai. Presentendo il pericolo di una strage, Turati intervenne riuscendo a calmare il tumulto e far rilasciare tutti gli imprigionati tranne uno, una sorta di ostaggio. La permanenza di costui in prigione provocò la spontanea riattivazione della rivolta che si spostò alla caserma di polizia di via Napo Torriani bersagliata da sassate provenienti dalla folla: le fucilate sparate sui manifestanti provocarono la morte di due operai; i moti proseguirono timidamente la sera con piccoli drappelli di esagitati in piazza Duomo e in galleria.
Il 7 maggio mentre il cardinal Ferrari, mal consigliato dal braccio destro Filippo Meda, lasciava i suoi concittadini nel momento del bisogno per una visita pastorale, la mobilitazione popolare sfociò in uno sciopero generale che, memore delle altre cruente repressioni del ‘98, non esitò a erigere barricate per difendersi dalla preventivata reazione dell’esercito guidato dal gen. Fiorenzo Bava Beccaris; a costui, su pressione regia, il marchese di Rudinì aveva affidato la carica di commissario regio che gli permise di dichiarare, nel pomeriggio, lo stato d’assedio, sospendendo in tal modo i diritti civili. Il giorno seguente il generale ordinò alle truppe di sparare ad altezza uomo e, di fronte alla strenua resistenza del popolo che gettava tegole contro i militari ostacolati dalle barricate (soprattutto a porta Vittoria, Romana, Garibaldi e alle colonne di san Lorenzo), mise in azione l’artiglieria pesante che cannoneggiò i popolani ad alzo zero, cioè con la deliberata volontà di commettere un carneficina; tale fu il risultato, dato che la stima ufficiale di 80 morti e 400 feriti è solo un pallido riflesso del reale e sanguinoso effetto. La repressione militare spietata e indiscriminata (fu cannoneggiato e occupato dai soldati anche il convento dei cappuccini in via Monforte) fu accompagnata a partire dal 9 maggio da quella giudiziaria: ne fecero le spese non solo i giornali socialisti (come Critica sociale di Turati e Lotta di classe) e repubblicani, ma persino l’Osservatore cattolico di don Albertario il quale, accusato di aver aizzato la folla coi suoi caustici editoriali, venne condannato a 3 anni di carcere, in compagnia dello stesso Turati, condannato 12 anni, e alla Kuliscioff, 2 anni. Pur non avendo preso parte ai moti direttamente, il cattolicesimo intransigente venne perseguitato per la sua azione di protesta nei confronti della società liberale e anticattolica, tanto è vero che nella repressione vennero coinvolte anche l’Opera dei congressi e il comitato diocesano. La conclusione di questa vergognosa pagina non potè essere che il conferimento al Bava Beccaris della croce di Grande Ufficiale dell’ordine militare di Savoia, per volontà di Umberto I, che due anni dopo pagherà con la vita per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, vindice dei morti milanesi, questo gesto sconsiderato. Il naturale connubio cattolico-socialista, inconciliabilmente divisi in tutto il resto tranne che nell’opposizione allo stato liberale, non fu forse del tutto sterile: nei moti di Pavia un giovane focoso universitario di medicina, Edoardo Gemelli, nei panni del militante socialista, professava la sua contrarietà allo stato assassino e affamatore… qualche anno più tardi sarebbe diventato fra Agostino Gemelli!
Il Fronte Indipendentista Lombardia ricorda quindi quei morti e quei coraggiosi che seppero opporsi (con la penna e con la spada) alla belva della Rivoluzione italiana e li mostra ai distratti e ignari lombardi di oggi.



L’ufficio politico del Fronte Indipendentista Lombardia
5 maggio 2010



Fonte:

 

Regolamento Monarchico dove per via di domande e risposte si propongono i diritti e i doveri del Sovrano e dei suoi sudditi - Per uso educativo. (2).







CAPO SECONDO

DEI DOVERI DEI SUDDITI VERSO IL SOVRANO

E I LORO DIRITTI.

 

I.


Dell’Onore , e Rispetto, che i Sudditi

debbono al Sovrano

 

D. Sono tenuti i Sudditi ad onorare , e rispettare il Sovrano?

R. Si ; Temete Iddio : e rendete onore al Sovrano , dice l’Apostolo S. Pietro nella prima sua lettera.

D. E’ questo un precetto , o un consiglio?

R. Questo è un precetto naturale , e divino.

D. Dove si trova scritto?

R. Nel quarto comandamento della legge di Dio: onorerai il Padre e la Madre : sotto alle quali parole vengono in singolar maniera compresi i Sovrani , come insegna S. Tommaso .

D. Che vuol dire onorare il Sovrano ?

R. Onorare , dice lo stesso S. Tomasso , non è altro che : protestarsi di avere alta idea dell’altrui eccellenza.

D. In cosa consiste quest’onore , che i Sudditi debbono al Sovrano?

R. Ad amarlo, a rispettarlo, ad assisterlo , ad ubbidirgli , ed a mantenergli fedeltà.

D. Come si comportavano i primi Cristiani verso gli Imperatori gentili?

R. Onorandoli con ammirabile esemplarità.

D. Si invischiavano in qualche congiura contro gli stessi Imperatori?

R. No , mai , ma furono sempre sudditi fedeli.

 

II.

Dell’ubbidienza che i Sudditi debbono

al Sovrano.

 

D. Vi è obbligazione di obbedire al Sovrano?

R. Si ; perché Dio gli ha dato potestà di comandare.

D. Dove si constata questa obbligazione?

R. Da tutta la Scrittura , singolarmente da S. Paolo , che dice: ubbidite ai vostri Superiori.

D. Vi sono obbligazioni di ubbidire ai Ministri del Sovrano?

R. Si ; perché fanno le sue veci , e sono di lui rappresentanti.

D. E se il Sovrano , e i suoi Ministri si comportassero contravvenendo ai loro doveri per il bene del Popolo?

R. In tal caso decadrebbero ipso facto dalla loro posizione; essi sono tenuti a rispettare le leggi di Dio il quale gli ha investiti del loro potere : la loro potestà viene da Dio e perciò deve essere applicata solo per il bene.

D. E se le cose che comandano sono manifestatamente malvage?

R. In quel caso non si deve ubbidire ; perché si deve ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini.

D. E quando si dubita, se la cosa comandata sia buona o cattiva ?

R. Si deve ubbidire; perché in tal caso si presume che la giustizia stia dalla parte del Superiore che opera rispettando le leggi di Dio.


III.

Della fedeltà che debbono i Sudditi al Sovrano

 

D. E’ tenuto il suddito ad essere fedele al Sovrano?

R. Si ; e questo dovere viene confermato da ognuno col giuramento che i rappresentanti dei vari Popoli soggetti all’autorità del Sovrano tengono in nome dei Popoli da essi rappresentati.

D. A che si riduce questa fedeltà?

R. A non macchinare né direttamente , ne indirettamente nessuna cosa contro la persona, la vita, e i diritti del Sovrano.

D. Dove si constata questa obbligazione?

R. Dalla Scrittura , ove dice il Signore : non toccate i miei Cristi.

D. Chi è a conoscenza di una congiura , è tenuto a rivelarla?

R. Si; altrimenti si fa complice di essa.

D. E se omette il fatto perché sotto segreto naturale?

R. Non importa , perché deve prevalere il bene della Monarchia e del Popolo che da essa e tutelato.

D. E se ha giurato di serbare il segreto?

R. Nemmeno in questo caso ; perché il giuramento non può essere vincolo d’iniquità.

 

IV.

Dei Tributi che i Sudditi debbono

al Sovrano.

 

D. I Sudditi sono tenuti a pagare i Tributi al Sovrano?

R. Si; perché aiutando il Sovrano con i loro beni egli garantisce loro la prosperità.

D. Dove si constata questa obbligazione?

R. Da più parti della Divina Scrittura , dei quali una è : date a Cesare ciò che è di Cesare.

D. E dove è fondata?

R. Negli stessi diritti e doveri del Sovrano il quale deve ricompensare il Popolo.

D. E se il tributo fosse ingiusto?

R. Giudicare su questo non appartiene direttamente al Suddito : a meno che esso non manifesti la sua iniquità manifestatamente.

 

V.

Dell’obbligo che hanno i Sudditi

di dimostrare riconoscenza

al loro Sovrano

 

D. Di che altro sono debitori i Sudditi al Sovrano?

R. Della prosperità , del rispetto delle libertà concrete, e della pace che il Sovrano li dona; i Sudditi sono tenuti a manifestare la loro riconoscenza.

D. Dove si può riscontrare questa obbligazione?

R. Da S. Paolo , che dice: si faccia orazione per il Sovrano.

D. Che cosa si ha da chiedere per esse?

R. Ogni felicità , Spirituale e temporale.

D. Come si comportavano i primi Cristiani in ordine a questo?

R. Pregavano Iddio pubblicamente , e privatamente per la salute degl’Imperatori.

 

V.

Dei riconoscimenti primari (diritti)

dovuti ai Sudditi.

 

D. Quali sono i riconoscimenti primari che i Sudditi debbono avere dal Sovrano?

R. Ai Sudditi devono essere riconosciute e mantenute le Tradizione amministrativa e legislativa, storiche e culturali, della loro terra ; devono esserli garantiti lavoro e guadagno per sostenere con tranquillità la loro vita e quella dei famigliari.

D. Quali sono gli altri riconoscimenti?

R. Il suddito non deve essere eccessivamente gravato con le tasse ; non deve essere turbata la sua esistenza terrena con obblighi iniqui.

 

 

Fine…

 
 

Scritto da:

Presidente e fondatore Amedeo Bellizzi.

lunedì 29 aprile 2013

Ferdinando III di Toscana: il Granduca che diede la vita per la Toscana.


 
 
 

Primi anni e successione


Ferdinando III ancora in fasce
(a destra) con la sorella
Maria Carolina (a sinistra).
Ferdinando III d'Asburgo-Lorena , nato a Firenze il  6 maggio 1769 , era figlio secondogenito del Granduca Pietro Leopoldo e di Maria Ludovica di Borbone-Napoli; in quanto figlio cadetto fu destinato al Trono del Granducato di Toscana : essendo rimasto senza figli lo zio, l'imperatore Giuseppe II , la successione sarebbe toccata prima al padre e poi al fratello maggiore Francesco, date anche le clausole internazionali che stabilivano l'impossibilità di unire la corona toscana a quella Imperiale .
Nel febbraio 1790 morì l'imperatore Giuseppe II e Pietro Leopoldo abdicò al trono toscano per acquisire (malvolentieri) la corona asburgica; Ferdinando divenne così Granduca in un periodo che già si presentava agitato. In politica interna, il nuovo Granduca non ripudiò le riforme paterne che avevano portato la Toscana all'avanguardia in Europa ma cercò di limitarne alcuni eccessi, soprattutto in campo religioso, che erano stati accolti malvolentieri dal popolo.



Politica estera e governo



Ferdinando III
Ferdinando III
ritratto da Joseph Dorffmeister
nel 1797.
In politica estera, Ferdinando III cercò di restare neutrale nella tempesta succeduta alla nefasta Rivoluzione Francese ma fu costretto ad allinearsi alla coalizione antirivoluzionaria su forti pressioni dell'Inghilterra, che minacciava di occupare Livorno e l'8 ottobre 1793 dichiarò guerra alla Repubblica Francese. La dichiarazione non ebbe però effetti pratici ed anzi, la Toscana fu il primo stato a concludere la pace e a ristabilire le relazioni con la rivoluzionaria  Parigi nel febbraio 1795.
La cautela del Granduca non servì però a tenere fuori la Toscana dall'incendio napoleonico: nel 1796 le armate francesi occupavano Livorno per sottrarla all'influenza britannica e lo stesso Napoleone entrava in Firenze,  accolto con tranquillità apparente dal sovrano anche se occupava il Granducato, pur non abbattendo il governo locale. Solo nel marzo 1799 Ferdinando III fu costretto all'esilio a Vienna, in seguito al precipitare della situazione politica della penisola. Le truppe francesi rimasero in Toscana fino al luglio 1799, quando furono scacciate da una controffensiva austro-russa a cui diedero aiuto gli insorti sanfedisti del "Viva Maria!".
La restaurazione purtroppo fu breve; già l'anno dopo Napoleone tornava in Italia e ristabiliva il suo dominio di usurpatore sulla Penisola; nel 1801 Ferdinando III dovette abdicare al Trono di Toscana, ricevendo in compenso prima il Ducato di Salisburgo, nato con la secolarizzazione dello stato arcivescovile e poi (1805), il Ducato di Würzburg, altro stato sorto con la secolarizzazione di un Principato vescovile.



 
 
 
Restaurazione e ultimi anni



File:Livorno Monumento Ferdinando III Piazza Repubblica.jpg
Livorno: Monumento a Ferdinando III
in Piazza della Repubblica.
Ferdinando III tornò in Toscana solo nel settembre 1814, dopo la caduta di Napoleone. Al Congresso di Vienna, ottenne alcune modifiche  del territorio con l'annessione del Principato di Piombino, dello Stato dei Presidi, dei feudi imperiali di Vernio, Monte Santa Maria Tiberina e Montauto e la prospettiva dell'annessione del Ducato di Lucca, seppur in cambio di alcune enclaves toscane in Lunigiana.
La Restaurazione in Toscana fu, per merito del Granduca, un esempio di mitezza e buon senso: non vi furono nemmeno qui epurazioni del personale che aveva operato nel periodo francese; non si abrogarono le leggi francesi in materia civile ed economica (salvo il divorzio) e dove si effettuarono restaurazioni si ebbe il ritorno delle già avanzate leggi leopoldine, come in campo penale.
Le maggiori cure del restaurato governo lorenese furono per le opere pubbliche; in questi anni si realizzarono numerose strade (come la Volterrana), acquedotti e si diede inizio ai primi seri lavori di bonifica della Valdichiana e della Maremma, che videro l'impegno personale dello stesso sovrano. Ferdinando III pagò questo lodevole impegno personale con la contrazione della malaria, che lo condusse a morte nel 1824. Si può a ragione affermare che Egli morì per la sua terra, la Toscana.




Titolazione
  • 6 Maggio 1769 - 22 Giugno 1790 Sua Altezza reale l'arciduca Ferdinando d'Austria
  • 22 Giugno 1790 - 3 Agosto 1801 Sua altezza reale il serenissimo granduca di Toscana
  • 26 Dicembre 1802 - 25 Dicembre 1805 Sua altezza reale il principe elettore e granduca di Salisburgo
  • 25 Dicembre 1805 - 27 Aprile 1814 Sua altezza reale il Granduca di Würzburg


 
 
 
Matrimonio e discendenza

Ferdinando sposò a Vienna il 19 settembre 1790 Luisa Maria Amalia di Borbone-Napoli da cui ebbe sei figli:

Luisa Maria Amalia di Borbone
 
Rimasto vedovo nel 1802, si risposò a Firenze il 6 maggio 1821 con Maria Ferdinanda di Sassonia, ma non ebbe altri figli.


Maria Ferdinanda di Sassonia
Maria Ferdinanda di Sassonia
 
 
 
 




Fonte:
 
Wikipedia
 
Indro Montanelli, Storia d'Italia: L'Italia giacobina e carbonara, Milano, Rizzoli, 1971
 
Firenze dopo i Medici .
 
Scritto da:
 
Redazione A.L.T.A.