lunedì 29 aprile 2013

Polizze e pallottole: la “battaglia di Calatafimi”



 
La vulgata risorgimentale ama ricordarci come la prima vera battaglia dei Mille in Sicilia sia stata combattuta, in una disperata condizione d’inferiorità numerica e bellica, nel luogo detto “Pianto Romano” presso Calatafimi. Precedute dalla Mediterranean Fleet di sir Roger Mundy, le navi garibaldine il giorno 11 maggio 1860 avevano scelto come luogo di sbarco il porto di Marsala: approdo non casuale data la nutrita presenza e influenza inglese nella città, che dai tempi dell’occupazione napoleonica del Portogallo era stata scelta per la produzione di un surrogato del vino Porto, il Marsala. Pertanto i rappresentanti inglesi nella città siciliana avevano predisposto tutto per prestare ausilio all’arrivo di Garibaldi, a patto che i suoi militi non attentassero alle proprietà degli inglesi, ben segnalate da una visibile Union Jack sulla facciata (come il segno del sangue dell’agnello sulle porte ebree in Egitto per scongiurare l’arrivo dell’Angelo Sterminatore). Il giorno 12 il generale Garibaldi con la sua variopinta schiera si era recato a Salemi da dove il giorno 13 diresse alla popolazione il famoso Proclama, col quale assumeva l’incarico di dittatore dell’isola. Immediatamente ne aveva ricevuto l’omaggio vassallatico dei capicosca della mafia locale, come sembra chiaro dalla descrizione che Abba dà dei primi siciliani che avevano aderito alla chiamata alle armi di Garibaldi: “Le squadre arrivano da ogni parte, a cavallo, a piedi, a centinaia, una diavoleria. E hanno bande che suonano d’un gusto! Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistole. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota”. Da qui Garibaldi decise di puntare con la truppa dei Mille, rafforzata da 500 inaffidabili membri della mafia locale, verso Palermo ma già il giorno 15 incontrò sul suo tragitto, a Calatafimi, un esercito borbonico di 2500 fanti e uno squadrone di cavalleria al comando del generale Landi. Nonostante l’impresa si prospettasse come folle il nizzardo decise, anche dopo il primo attacco dei cacciatori napoletani, di non retrocedere neanche di fronte alla possibilità di una facile e dignitosa ritirata consigliatagli dal Bixio, bensì rimase fermo nei suoi propositi, cosicché la retorica patriottarda avrebbe avuto agio nel stampargli sulle labbra il famoso: “Qui si fa l’Italia o si muore!”. Evidentemente Garibaldi era stato ben avvertito dai suoi confidenti della “condiscendenza” che avrebbe avuto il generale borbonico verso le sue truppe. Nonostante la resistenza dei garibaldini si fosse dimostrata tenace, le sorti della battaglia erano saldamente in mano ai napoletani quando, con una decisione tanto inaspettata da sorprendere lo stesso Garibaldi, Landi decise di far ritirare le sue truppe, nel malcontento generale. Sul campo rimanevano 32 morti tra le camicie rosse e 36 tra i napoletani: numeri che comunicano certamente uno scontro giocato al risparmio più che una battaglia epocale. Dubbi sulla condotta di Landi vennero avanzati sin da subito da un maggiore che aveva combattuto sul campo, lo Sforza, tanto che inchieste interne all’esercito portarono Francesco II a condannarlo all’esilio su Ischia per tradimento. Il caso di Landi non è da considerarsi unico in un esercito come quello borbonico, dove i generali di carriera, spesso vecchissimi come il Landi (che aveva iniziato nell’esercito napoletano del re Giuseppe Bonaparte), non avevano mai dovuto dimostrare la loro abilità sul campo né l’attaccamento al sovrano, considerando la carriera militare come mero segno di distinzione sociale. In mezzo a una tale genia di ufficiali, l’ammiraglio Persano non ebbe difficoltà ad adempiere il compito di cui Cavour l’aveva incaricato: corrompere gli ufficiali e gli ammiragli borbonici in cambio di soldi e reclutamento a pari grado nell’esercito sabaudo. Non è un caso pertanto che nel 1861 il Landi ottenne una pensione come generale di corpo d’armata dell’esercito sabaudo, nel quale vennero assunti anche i cinque figli, tutti ex-ufficiali borbonici. Nello stesso anno comunque un caso di cronaca interessò il Landi: recatosi al Banco di Napoli per riscuotere una polizza di 14.000 ducati, scoprì che in realtà questa ammontava a soli 14 ducati. In seguito a questo piccolo incidente il Landi fece scalpore sui giornali perché accusò Garibaldi della truffa che lo aveva visto come vittima, ma la vicenda si concluse di lì a poco con la morte per ictus del Landi.
 
a cura dell’ufficio politico

Fronte Indipendentista Lombardia
 
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