mercoledì 8 maggio 2013

Alcune conseguenze (dell'immanenza nell'ordine intellettuale propria del kantismo).

Immanuel Kant
 
 

 

R. P. Guido Mattiussi S. J.

Da: Il Veleno Kantiano (IIa ed.), Roma 1914, cap. VIII, pagg. 308-348.

Alcune conseguenze

(dell'immanenza nell'ordine intellettuale propria del kantismo)

Dicono i temperati neo-kantisti non aver gli antichi badato sufficientemente a quel che pone il soggetto ne' suoi giudizi; che dobbiam discernere il fenomeno dal numeno; che la verità non può essere intera mai nelle nostre menti, ma sempre è relativa alle circostanze dell'educazione dell'indole e della cultura; che però ogni affermazione è mutabile col progredir degli studi e secondo le idee filosofiche comunemente ricevute: con questo va insieme che nessuna dimostrazione può avere efficacia assoluta, ma gli argomenti valgono per l'uno e per l'altro che si lascia convincere, e che i moderni hanno ragione di non accettar nulla dagli antichi dottori e di rifarsi sopra ogni cosa da capo. Esaminiamo alquanto queste conseguenze del kantismo diminuito.

Temperamenti inutili.

Se non si sta fermi ai principî, e un minimo che si accetti del moderno idealismo, o soggettivismo o agnosticismo che chiamar si voglia, la logica irresistibile condurrà a tutte intere le conclusioni kantiane. Sono vicini ad accettarle quei molti che volentieri distinguono tra fenomeni e numeni, accettando di riconoscere certezza nei primi, ponendo dubbi almeno e conoscenza velata o semi-oscura nei secondi. E vi consentono tutti coloro ai quali sembra che la nostra filosofia sia buona, solo in quanto procede coerente a se stessa, e serba le leggi logiche, e riesce conforme alle esperienze, ove sono possibili, ma non in quanto pretenda di attingere la essenziale realtà delle cose e sia conforme alla natura. I più moderati dicono almeno che conviene far le parti giuste fra quello che l'oggetto con verità mostra in se stesso e quello che per la soggettiva disposizione ci mettiam noi. Ricordiamo i tre specchi che danno l'immagine d'un oggetto medesimo: qualche cosa viene pur da questo, ma il modo dell'immagine nel concavo, nel piano e nel convesso riesce diverso: così dicono che avviene in ogni nostra conoscenza. E credono che almeno una parte del giudizio sia determinata da ciò che immane al soggetto, senza poter assegnare qual parte sia.
Comunque si temperi, quel principio che il fenomeno può essere riguardato come obbiettivo, il numeno non può, resta assurdo e distruttivo della scienza. Prima, perchè nulla meno conoscitivo che non sieno i sensi, è l'intelletto; [= perchè l'intelletto non è per nulla meno conoscitivo dei sensi, N.d.R.] anzi tanto più, quanto più alto, e per sè non passivo, e volto come a suo termine all'ente qual è in se stesso costituito, e cosciente del proprio atto e della sua proporzione all'oggetto. Che se un feroce kantista neghi tutto questo, direttamente si oppone alla natura che ci determina a pensare così: ed egli si rende incapace di cercare la verità. Or come i sensi percepiscono i fenomeni, così l'intelletto i numeni o le ragioni essenziali, benchè più o meno astratte dall'ultima designazione dell'individuo. Poi, perchè tutto quello che si offre alla mente in qualunque più volgare fenomeno è difatto un numeno, non solo pel proprio significato della voce νοῦς, ma perchè dapertutto si trova sotto le esterne apparenze l'intima essenza e la real costituzione, in sè nascosta, fatta manifesta per la necessaria proporzione che ha con gli effetti che fuori ne appaiono. E la ragione formale, che rimane la stessa, ove tornino gli stessi fenomeni come effetti e come segni, acquista nella mente l'universalità, e vi sta come precisa e pura, con tutti i caratteri di ciò che è nello spirito e non nella materia. Se vedo cadere i corpi, è impossibile che io non pensi ad una causa comune di quel tendere alla posizione più bassa; se veggo svolgersi i germi, penso ad una forza vitale; e così in ogni caso il fenomeno reale mi propone anche un oggetto, solo intelligibile e non sensibile. È un vero oggetto, che per invincibile determinazione della natura, la quale deve essere buona e non cattiva, intendo nelle cose, non nell'anima mia, a differenza di quei modi d'indeterminazione e d'universalità, che intendo esser nell'anima e non nelle cose.
Nè vale poco o punto il diminuire la mostruosità dell'errore, col dire che i sommi principî o gli assiomi debbon essere veri e obiettivi; ma che poi, quando ci facciamo a ragionare intorno alle nature più determinate, non possiamo fidarci del nostro intelletto, sul quale tante diverse impressioni influiscono diversamente. Perocchè nel ragionare, come nell'intuire le prime verità, spesso possiam riconoscere di procedere con vera necessità, in guisa che, se pensiamo a quel dato argomento, la natura dell'intelletto ripugna a pensare altrimenti. Così l'ordine universale ci sforza ad affermare un ordine; l'immaterialità del pensiero ci prova un'anima spirituale; le dimostrazioni matematiche mettono in evidenza i teoremi. Potrà alcuno oscurarsi la mente, col non attendere a questo e fissarsi al contrario nei pregiudizi scettici e kantiani, secondo i quali tutto può ridursi a sogno personale, per essi non possibile a bandire. Ma in verità, qualunque sia il processo che la riflessione ci fa scorgere necessario alla mente, dobbiamo accettarlo per buono e legittimo, come conoscitivo dell'ente reale, sotto pena di far cattiva la natura dell'anima e di non saper più nulla. Quando manchi la verità obbiettiva, v'è errore; e l'errore s'insinua, perchè la mente procede, sotto qualche esterno accidentale impulso, deviando dalla propria natura. E l'attenta riflessione o ci farà vedere cotale sviamento, o almeno ci metterà sott'occhio il punto nel quale il processo non fu necessario, dove cioè l'intelletto, senza rinunciare alla sua prima inclinazione, poteva fermarsi o pensare altrimenti. Così l'errore vien sempre di fuori, non dall'intima disposizione della facoltà intellettiva.
Invece dell'assoluta sproporzione all'oggetto, altri assegna come causa d'errore la limitazione della virtù. Questa limitazione certamente è principio del poter errare, o del potere venir meno dalla norma assoluta della verità; ma nei singoli casi essa toglie che si veda di più, non fa positivamente che si traveda o si giudichi stortamente. Nè vale la comparazione degli specchi variamente incurvati; poichè nello spirito non sono qualità che influiscano sull'immagine intenzionale, ch'è immediato principio del rappresentarsi l'oggetto. Sono quelle passioni spettanti all'essere materiale e proprio della potenza passiva; sopra di che s'innalza l'indipendenza dalla materia, in che è posta la condizione, perchè una forma semplice sia spirituale e intelligente. La similitudine dei tre specchi vale pel senso, non vale per l'intelletto. Il quale attinge l'oggetto a lui proposto, non perchè patisca in se stesso come patisce il senso nell'organo, ma perchè è costituito in atto sì perfetto da poter rinnovare a suo modo le forme dell'altre cose, come fu detto che l'anima diventa ogni natura. Diventa attivamente per sua virtù, non per fisica o entitativa immutazione nel proprio essere; diventa in guisa da riconoscere pienamente la distinzione di sè medesima da ciò che riceve nel suo concetto, e da sapere per qual via la determinazione ad intendere le è venuta, e da apprezzare la proporzione del proprio atto all'oggetto. Qual fu quello stolto infatti, che disse spirituali le pietre, perchè le conobbe con atto spirituale, o universali gl'individui che pure intese secondo le ragioni generiche o specifiche d'una natura comune a molti, o dipendente la cagione dall'effetto, ogni volta che questo fu a noi principio e ragione unica di conoscer quella? Cotali stranezze sarebbero logiche tra i kantisti, benchè bonamente si credano costoro di essersene accorti pei primi, e non ismettano di gridare contro gli Scolastici, che si son lasciati illudere; sono stranezze ignote fra noi, discepoli della vecchia Scuola e tenaci dell'antico buon senso.
Dunque sia fermo: nemmeno un punto di quello che l'intelletto conosce di dover attribuire alle cose è da ritenere invece come impressione soggettiva. Prender gli errori a metà non fa che aggiungere incoerenza, con la vanità di andare avanti ad occhi chiusi, senza vedere le conseguenze che non si vogliono. Ma il danno è uguale, perchè la logica inesorabile trascina all'estremità, fuggita invano, e l'acqua entra per una fessura, più lenta, ma certa portatrice di rovina, come se la nave fosse spaccata. Dite che qualche parte di ciò che sembra obiettivo è invece soggettivo? Or rispondete, quanto è cotesto? Se ammettete anche un pochissimo, non v'è ragione di negare il di più, non c'è motivo di fermarsi prima di conceder tutto, poichè s'è tolto vigore all'assoluto principio che la mente è fatta pel vero; che per se la natura è buona; che se è cattiva, errando per sè, non v'è altro con che portarle salute. Ove si rinunci a un sol punto naturalmente certo, è impossibile escludere qualunque altro assurdo, e qui tosto viene l'universale negazione d'ogni certezza. Parvus error in principio magnus est in fine, e ogni goccia di veleno kantiano corrompe tutta la mole delle umane cognizioni.

Verità relativa.

Quella stessa radice, che dal soggetto, se non in tutto, almeno in parte (impossibile a determinare), è determinata la conoscenza a ciò che naturalmente si attribuisce all'oggetto, produce un altro frutto avvelenato: questo è che la verità dei nostri giudizi, anche ottimi e da tutti accolti come certissimi, non è da reputarsi assoluta, realmente importando conformità della mente con le cose; ma è da prendere soltanto come relativa, per essere tal cognizione la migliore ora possibile al conoscente, secondo le disposizioni di lui e secondo le circostanze. Onde pur viene che, mutate le condizioni, il giudizio sarà mutato, e sarà migliore o più vicino alla realtà, se, come giova sperare, c'è stato movimento in meglio.
Così i nuovi maestri si credono in diritto di compatire gli antichi, i quali nella loro bonarietà consentirono in quella definizione; Veritas est adaequatio intellectus et rei. Poveri vecchi! s'immaginavano di riuscire ad adeguar col pensiero l'entità delle cose. Come se sapessimo tutto quello che nella realtà si contiene! Di fatto non sappiamo il tutto di niente, solo a stento ne scopriamo una piccola parte. È assai, dicono i moderni, che la nostra scienza si avvicini, quanto più le è concesso, alla natura: non istiamo mai fermi, e se nel moto ci allontaniamo dal termine a cui dovremmo tendere, ossia dalla reale costituzione, andiamo in errore; se ci avviciniamo a quel termine, possediamo il vero nel modo a noi possibile. Dunque la verità è un avvicinarsi con la mente alla realtà delle cose. — E così dicendo, credono d'essere acuti, d'aver confutato i vecchi, d'aver portato una nuova luce al mondo.
Senonchè verba sapientium quasi clavi in altum defixi (Eccli. XII, 11), ha detto il Savio, e invano i fanciulli s'erigono sulla punta dei piedi per giungere ad afferrarli e a strapparli. Quell'antica nozione della verità, espressione esatta d'un pensiero comune a tutti gli uomini, resterà ferma per chiunque l'avrà capita. Nessuno mai intese che quell'adequazione importasse esaurimento del conoscibile; nessuno pensò che dovesse dirsi vero l'intelletto, solo quando si fosse rappresentato totalmente la cosa qual è in se stessa, non lasciandone alcuna parte inesplorata. In questo senso chi ha mai la verità su questa terra? E nemmeno in cielo i comprensori s'adeguano all'Essenza divina, nè arrivano a sapere tutto ciò che nella creatura è possibile, per ordine all'infinita virtù di Dio. Mai non s'è pensato a pretender questo. Ma l'occhio che vede il color di una mela, non ne ha forse sincera visione, perchè non ne percepisce il sapore? E il matematico che conosce molte proprietà del triedro, non ne ha vera certezza, perchè non le sa tutte? E il metafisico che dice Iddio atto purissimo, ove ripugna qualsiasi distinzione di realtà assoluta ed ogni determinazione aggiunta all'Essere sussistente, non ne sa forse nulla, o non dice il vero, perchè ignora la trinità delle persone?
S'attenda adunque che l'intelletto riceve in sè l'oggetto secondo un'immagine che se ne forma, non tale che, esplicitamente almeno, sempre dimostri tutto quello che trovasi nella realtà; ma per astrazione (astrazione negativa, come quella dell'occhio che vede il colore e non attinge il gusto) prende una ragione intelligibile, senza prenderne ulteriori determinazioni, o senza toccare altre ragioni, che forse nello stesso soggetto s'adunano con quella. E formandosi tale immagine incompiuta della realtà, non giudica d'avere in sè tutto quello che è nella cosa, ma sa di avere una ragione formale che pur nella cosa si avvera. Così posso accorgermi alla riproduzione vitale che un soggetto vegeta, e dubitare se abbia pur la vita sensitiva. Non v'è bisogno di insistere sopra una dottrina sì manifesta.
Potrà dunque una conoscenza dirsi relativa alla perfezione d'un intelligente, giudicando, o che sia proporzionata alla facoltà del medesimo, o che sia poco svolta o manchevole in chi dovrebbe averla più ampia, o che sia dubbiosa ove dovrebbe esser certa. Ma la verità di ciascun giudizio deve assolutamente giudicarsi non dalle disposizioni del soggetto, bensì dalla conformità con l'oggetto. Altrimenti direte vera la nozione astronomica d'un medievale, che credeva incorruttibili i corpi celesti: pel suo tempo era dotto! Direte vero il giudizio d'un rustico che pensando il sole lontano, lo stimi vasto come il lago di Garda: si vede che quel rustico ha ingegno, ma non basta. La verità spetta, come è noto, ai giudizi, nei quali comparando due termini, si dice o si nega che l'uno è l'altro. Dei due termini, il primo corrisponde all'oggetto preso materialmente e interamente qual è in sè, designandolo col nome, mostrandolo quasi a dito, ma senza assegnarne ancora la propria ragione o l'entitativa costituzione. Il secondo termine, o il predicato, corrisponde ad una forma, che, più o meno compiutamente, definisce l'essenza o qualunque modo di essere della cosa prima designata. Poniamo che il giudizio sia affermativo. Esso dice che cotesta forma o tal modo di essere è in quella cosa. C'è realmente? Il giudizio è vero, e per esso la mente s'adegua alla cosa, precisamente per ciò che all'atto di essere logico, espresso nel giudizio, corrisponde l'atto di essere reale nell'oggetto. Ma al contrario, non v'è questa corrispondenza? E il giudizio è falso; nè è scusata la falsità dalla pochezza dell'intelletto o dalle condizioni infelici di chi conosce: non ci sarà colpa, ma non c'è verità. Questa dunque c'è o non c'è assolutamente, non perchè la conoscenza sia l'ottima che il conoscente nelle sue condizioni può avere: neppure perchè la rappresentazione mentale esaurisca l'oggetto, qual è in sè con tutte le sue determinazioni; ma solo perchè nelle cose è di fatto quella determinazione che nelle cose stesse è conosciuta e n'è affermata.
E chi mai, se non per incredibile dimenticanza, potè attribuire agli Scolastici di aver ignorato la limitazione, di cui dicevamo ? Chi legge una recente esposizione della filosofia dell'immanenza, può credere di trovarci il giudizio che «quella classica filosofia, per l'esigenza del suo metodo, per la vastità delle proprie aspirazioni, tendeva ad esaurire l'ordine completo del pensiero e della realtà, a pronunciarsi categoricamente sulla verità di ogni natura, a preporre o sostituire la teoria alla pratica, e trovare in se stessa una specie di sufficienza divina. Il suo dissimulato assioma è la divinità della ragione, la ricchezza inesauribile della nostra conoscenza speculativa, capace di consumare in noi stessi l'opera del divino» [1]. Per ribattere una sì inaspettata calunnia, basterebbe appellarci a qualunque novizio delle nostre scuole, domandargli come si distinguono l'apprensione e la comprensione. Posso io comprendere con la mano una noce, che nascondo nel pugno, non posso che prendere per un'estremità un tavolo. Così comprendo quella cosa che ho tutta intera secondo ogni sua conoscibilità nella mia mente; apprendo quella che in qualche modo conosco, benchè il mio pensiero resti lungi dal saper tutto quello che se ne può sapere. E il novizio filosofo ci saprà dire che noi non comprendiamo nessuna cosa; che la sostanza ci è per se nascosta, ma che la conosciamo indirettamente, in quanto si manifesta per gli accidenti; che il nostro intelletto è l'infimo fra tutti i possibili intelletti, come quello che non ha congenito verun atto, nemmeno la conoscenza di se stesso; ch'esso non può levarsi con propria rappresentazione più su delle cose sensibili, ove peraltro tanto rimane di oscuro e d'inaccessibile; che sopra di noi l'intelligibile si stende indefinitamente, anche senza mai giugnere all'assoluto atto infinito ch'è Iddio; che di tutte queste cose più alte non abbiamo altri concetti che per remota analogia; e quanto a Dio stesso, il meglio che ne sappiamo dire è questo, ch'Egli non è come noi possiamo concepirlo; che infine è celebre fra noi la sentenza del grande Aristotele: Alle cose per intrinseca intelligibilità in sè manifestissime il nostro intelletto si porta, come l'occhio del pipistrello al lume del sole. E il novizio filosofo avrà confutato quella calunnia, che pareva impossibile a scrivere.
Che se l'avversario pretende essere stato un far divina la ragione l'attribuirle potestà di conoscere con certezza immutabile gli oggetti commensurati alla sua virtù, o di sorgere dagli effetti manifesti all'affermazione d'una prima Causa, malamente egli rivolge in accusa quello che è necessario diritto di natura: è divina la ragione, in quanto partecipa una scintilla della luce di Dio, in quanto è fatta ad immagine del Creatore, in quanto è capace di attingere dapertutto la ragion di ente, di astrarla dalle sue determinazioni, e di sapere che, se non è tutta chimerica, dee necessariamente avverarsi in un primo Ente infinito. È anche divina la ragione, in quanto obbedienzialmente è capace di essere elevata ad intuire quel medesimo Ente assoluto; e in ogni modo, signatum est super nos lumen vultus tui Domine. Così la ragione è divina; e anche i pagani sentirono di dover dire l'anima nostra divinae particulam Aurae. Or tutto questo perirebbe, se gli atti primi e naturalmente necessari della ragione non fossero infallibili e assolutamente veri. Veri, cioè conformi alla realtà dell'ente obiettivo; infallibili, e però non mutabili per veruna contingenza. Adunque è vanità irragionevole il parlare di verità relativa.

Dogmi mutabili.

Ma non è quella vanità senza danno. Perchè insieme con quel reo soggettivismo kantiano in che si fonda, porta altrettanto di scetticismo. E quel che è peggio, estendendo il falso concetto e il modo errato di verità relativa, e però mutabile secondo le condizioni dell'uomo, a tutto ciò che per qualunque via giungiamo a sapere, vengonsi a ledere anche le verità rivelate. Se non osa toccarle precisamente in quanto sono in Dio o a noi vengon da Dio, almeno le guasta in quanto sono ricevute dalla Chiesa, ed espresse nell'insegnamento cristiano, e formulate nelle definizioni dogmatiche. Gli autori di quel nuovo modo di parlare s'appoggiano ancora al fatto, che la nostra mente non può adeguarsi ai divini misteri; osservano che storicamente la religione s'adattò ai concetti ed alle voci che trovò nelle umane scuole; ne deducono che le asserzioni proposte alla nostra fede son quali sono, pel fatto contingente dell'influenza greca prevalente fra noi; altre sarebbero, se da principio fosse prevaluta la filosofia kantiana o quella di Spencer o di Cartesio; e così possiamo aspettare che mutandosi lo stato degli animi con la moderna coltura anche le espressioni usate negli antichi Concili, e il senso ad esse attribuito, alle nuove età e alle nostre menti s'adatteranno.
L'Essere superiore unito all'Umanità di Cristo non sarebbe mai stato detto Verbo del Padre, così dicono, se la filosofia platonica fiorente ad Alessandria non avesse suggerito quella voce e quel pensiero. Non si sarebbe distinta l'Essenza dal concetto di Persona in Dio, se i greci non avessero parlato di supposti e di ragioni generiche e specifiche. Così la transustanziazione si fonda sull'opinione della sostanza distinta dagli accidenti. E la grazia fu concepita a modo di qualità, a cagione dei predicamenti aristotelici. E l'anima fu detta forma del corpo, esprimendo nel miglior modo che potevasi nel medio evo l'unione che fa l'uomo. Ma tutte coteste determinazioni passano e cambiano come la dottrina che domina nelle scuole. Chi dei moderni capisce più quelle viete nozioni? Verrà giorno che un Concilio adatti la religione ai nuovi tempi, esponendola secondo le idee ora accettate, come il Concilio di Trento per l'ultima volta la espose secondo le idee scolastiche. Così molti dicono, e più spudoratamente degli altri il Loisy.
Or tutto questo è intollerabile. Perchè noi siamo obbligati a credere per fede divina, cui subesse non potest falsum (come disse il Tridentino), le verità rivelate da Dio, proposte dalla Chiesa, come son contenute nelle distinte asserzioni del comune magistero o della suprema autorità. Chi non afferma le proposizioni onde constano i canoni dei Concilii, non accettando le parole ivi scritte, o alterandone il significato, cade sotto l'anatema. Chi mai osa dire: Secondo il presente grado di coltura, ci conviene affermare un'Essenza unica in Dio, nella quale sussistono tre Persone; forse avverrà peraltro che la progredita filosofia muti il proprio senso di quei termini e mostri inesatta l'espressione finora usata? Se fosse lecito dir così, la presente asserzione sarebbe falsa, e la verità dovrebbe aspettarsi, ma sempre invano, pel tempo futuro. E cotesta assurda maniera d'interpretare ossia di falsificare i dogmi della Chiesa, fu appunto escogitata da alcuni dottori di Germania nel secolo XIX, dal Guenther e dal Froschammer particolarmente, i quali Pio IX più volte condannò; e più solennemente fu il loro errore proscritto dal Concilio Vaticano nell'ultimo canone della prima Costituzione: Si quis dixerit fieri posse ut dogmatibus ab Ecclesia propositis aliquando secundum progressum scientiae sensus tribuendus sit alius ab eo quem intellexit el intelligit Ecclesia, a. s.
Alcuni credono d'avere in mano un esempio evidente di verità dogmatica, ove è necessario mutar le idee, o almen le espressioni, nella discesa di Cristo all'inferno e nell'ascensione al cielo: dicono che le nuove conoscenze astronomiche distruggono affatto le antiche immagini. — Rispondiamo che, quanto al porre sotterra l'abitazione dei dannati e delle anime sospese, non v'è ritrovato scientifico alcuno, con cui si possa combattere la vetusta opinione. Non si è giunti ancora a cinque chilometri di profondità, e per andare al centro ne restano più di seimila e trecento. Poi, chi ci andasse vedrebbe forse o udirebbe anime e diavoli? Se il descendit in inferiores partes terrae di S. Paolo persuase i Padri, può ugualmente persuadere anche noi. Quanto ai cieli, la rappresentazione che gli antichi poteron farsi di cieli sferici non fu mai oggetto di fede, e bene erano conscii gli Scolastici che trattavasi d'umana opinione. Prescindendo da ogni determinata immagine del cielo, si dice e sempre si dirà fra noi come fra gli antipodi, che localmente sale chi dalla terra si parte in senso opposto alla gravità; metaforicamente sale chi va a posto più nobile. Ora il Signor Nostro fu veduto staccarsi dal suolo e salire verso il firmamento; è ito a luogo più nobile e glorioso che la terra non sia: dunque è salito. Se qualche vecchio pensò per questo al primo mobile o all'ultima sfera, peggio per lui; mai nelle definizioni dogmatiche, mai nella profession comune di fede, di sfere e di empiro non si parlò. Dunque che volete mutare? Nulla. O pensate voi di poter fare un atto di fede secondo la cosmografia moderna? State certi che la Chiesa non la definirà nè più nè meno dell'antica.
Riguardo ai divini misteri, si avverta che i concetti o i nomi non ci son rivelati nè infusi, a guisa di nuove specie. Dobbiamo prenderli dall'umano linguaggio, umanamente determinarne la significazione. Per fede li connettiamo in giudizi, che altrimenti non formeremmo. Non ci fu detto soprannaturalmente che cosa importi sostanza o persona, che cosa sieno uno e tre: bensì Dio ci ha detto che in Lui, uno nella sostanza, dobbiamo affermar tre persone. Quelle stesse nozioni erano naturali nei nostri intelletti, sono coltivate e chiarite per uno studio sincero di filosofia, e le migliori scuole di Grecia fornirono certo una dottrina razionale, di cui pote valersi la Chiesa per esprimere esattamente la verità consegnata alla sua custodia. Per esprimere, si badi bene, la assoluta verità, non per parlare secondo la relativa coltura. Finche le espressioni non furono abbastanza chiare ed esatte, la Chiesa non definì, non formulò il dogma che dovea restare pei secoli: così ella fu prudente, così lo Spirito la diresse. Ma quando fu necessario dar l'esatta definizione contro gli eretici debaccanti, dispose Iddio che i concetti e le voci fossero preparate convenientemente, sì che le asserzioni riuscissero in tutto vere — conformi alla realtà, vuol dire — e per sempre immutabili. I nuovi studi potranno aggiungere altre notizie; correggere o toccar quelle che furono definite non potranno mai [2].
E che l'antica filosofia d'Alessandria o d'Atene abbia potuto fornire elementi atti ad essere incorporati nel linguaggio teologico cattolico, come da una miniera si traggono oro e gemme pel tabernacolo, è segno di grande onore per quella filosofia, e ben dimostra che, quantunque in molte parti incerta ed errante, in gran parte tuttavia s'era apposta al vero, col lume della buona natura; era una parte di quella philosophia perennis che a gran torto altri dicono caduca; era una testimonianza alla bontà della natura che da Dio abbiam ricevuta, e che, con verissimo sacrilegio, l'umana superbia, mentre aspira a gonfiarsi e ad elevarsi, avvilisce e distrugge. Se al contrario le moderne filosofie non hanno niente da dare al pensiero cristiano, se trovano invece di essere a quello contrarie, e tendono a mutare quello che fu stabilito, è segno ch'esse son false, e non sono già illustrazione e svolgimento, ma pervertimento e rovina, della retta ragione e del lume naturale. Noi vorremmo invitare qualsiasi ammiratore o seguace del kantismo o dell'immanentismo a suggerire le formole che ormai dovrebbero parer migliori, per esporre le verità dogmatiche: non riuscirebbe.
Certamente chi si provò ad esprimere i misteri della Trinità e dell'Incarnazione, mutando il concetto antico di persona in quello che ora corre per le scuole e pei libri, cambiò quei dogmi in assurde bestemmie. Era chiaro e profondo l'antico concetto di persona, meglio che da qualsiasi altro svolto dall'Angelico Dottore, ponendone la parte comune con qualunque supposto nella sussistenza distinta, e la propria determinazione nell'essere intellettivo. Quest'ultima nota vale a discernere la persona, che è di propria ragione a modo di fine, dalle cose semplicemente volte a bene altrui, come son tutte le nature inferiori. Ma quello che importa al mistero, sta nella prima parte della sussistenza: qui spetta la verità rivelata che la divina Essenza sussiste in tre distinte Persone; o l'altra, che in Gesù Cristo è unica la Persona divina, alla quale è assunta l'Umanità concepita nel seno di Maria Vergine. Triplice adunque è in Dio, per opposizione relativa, non per divisione di entità assolute, la personalità distinta; unica è la sussistenza in Gesù.
Or che diranno i moderni? Per adattarsi alle moderne scuole, dovranno porre la persona costituita dalla coscienza. Coscienza che è? È atto conoscitivo di sè. Saranno in Dio tre coscienze come tre persone? Dunque Egli con tre atti conosce Sè stesso, e il triteismo, o un bruttissimo politeismo, è manifesto. Gesù conoscerà sè stesso con un atto solo? Eccoci in piena eresia monofisita, e sarà tolta la distinzione perfetta delle due nature, con le loro proprietà ed operazioni. Per sottrarsi a tali bestemmie ed assurdità, diranno invece che unica è la conoscenza nella Divinità, duplice in Gesù Cristo; ma che Dio ha coscienza di esser tre, Gesù di esser uno, e in tal modo ridurranno alla coscienza la nozion di persona? Or non s'accorgono che il saper di essere suppone già l'essere costituito; che per conseguenza è ridicolo voler dichiarare l'unicità della reale persona, con la coscienza d'esser uno e non più? Conviene che antecedentemente sia vera questa unicità, o sia già costituita la persona che sa di esser una. Sono dunque questi nuovi maestri, formati ai nebulosi concetti delle moderne scuole, o empi contro la fede, o assurdi contro la ragione, e di fatto corrompono l'una e l'altra.
Potremmo recare altri esempi, forse tanti quanti sono i dogmi della Chiesa cattolica, o quanti sono i canoni del Tridentino, a cui attribuiscono la sventura di aver espresso la dottrina della fede col linguaggio dell'antica Scuola. Che diranno i moderni della grazia, o santificante o movente? Che diranno per adattare alle nuove dottrine l'Eucaristia? Basterà evidentemente per la soggettiva immanenza, che vi sia unione di pensiero e di spirito, di simboli e di figure. Hanno detto infatti: state dinanzi all'Ostia consecrata, come se Gesù realmente vi fosse. Ma questo non è dichiarare novamente i dogmi; è negarli con verissima e già dannata eresia. E senza arrivare a tali eccessi, malamente è imbevuta di scetticismo quell'ipotesi corrente che, studiando e imparando, s'abbia da mutare la dottrina prima acquistata. Questo avviene tra quelli che sono semper discentes et nunquam ad scientiam veritatis pervenientes (II Tim. III, 7); non avviene nella Scuola della sana teologia, nè tanto meno nella Chiesa di Dio vivo, la quale è colonna e fermezza della verità (I Tim. III, 15).

Ogni dimostrazione inefficace.

Nella stessa guisa che il kantismo porta a non accettare altra verità da quella che dicesi relativa al soggetto, il quale non deve mai pretendere di sapere come sia la cosa in sè stessa, ma sol di pensarla nel miglior modo che a lui è possibile, ha pur suggerito l'idea che non possa darsi dimostrazione per sè valevole e necessaria; che anzi ogni prova debba considerarsi soltanto in ordine alle disposizioni di qualcheduno, a cui persuadere sia volta, adattandosi ai giudizî ed ai concetti ch'egli si è formati. Non pretenderemo di recar mai un argomento assolutamente efficace. Infatti, dicono, quale sarebbe cotesta assoluta efficacia? Quella che convincesse ogni possibile avversario. Ora non v'è argomento che basti a convincere tutti quanti: ciascuno ha i suoi principî, ciascuno i suoi metodi; nè gli argomenti di S. Tommaso, buoni nella scuola medievale, hanno luce o forza pei nuovi maestri. V'è forse negli uomini una ragione universale? No, ma ciascuno ha la sua; dunque a ciascuno devono adattarsi gli argomenti. Così essi.
Ma confondon le cose. Che disputando con uno, debbansi assumere principî da lui conosciuti e ammessi, s'è saputo e s'è detto sempre: senza questo, nè saremmo intesi nè verremmo mai a conchiudere. Tuttavia fu anche avvertito in ogni tempo che sarebbe in se fallace un argomento, il quale assumesse una proposizione, creduta vera dall'avversario, realmente falsa o inesatta. Semplicemente sarebbe cotesta una prova nulla e da respingere; avrebbe solo per caso qualche valore ad hominem, in quanto potrebbe, posto l'errore dell'avversario, aver forza su di esso e condurlo ad ammettere la conclusione per non contraddire all'errore prima accolto. Così trovandosi con chi credesse Maometto profeta vero e pur ricusasse di accettare i libri di Mosè, gli potrei dire che anche secondo il suo profeta deve credere a Mosè. Gli ho provato la verità? Materialmente, e valendomi del suo errore, sì; formalmente e assegnando una causa che per sè produca una buona conoscenza o una legittima persuasione, no. Tanto è vero che se colui viene a sapere come il suo Maometto sia bugiardo, e non attinge il vero ad altra fonte, disdirà la fede che aveva già concepita riguardo a Mosè.
Molto bene avvertivano i vecchi logici che da un falso antecedente può dedursi secondo le regole un conseguente vero. Infatti quell'antecedente, ancorchè falso, può contenere qualche parte vera: basta per la falsità, che una proposizione non sia vera in tutta la sua estensione; posso dunque trarne con buona conseguenza quelle parti che forse son vere. Tuttavia non assegno così una reale cagione della verità, e nemmeno nell'ordine conoscitivo quell'antecedente per sè mi conduce a sapere il vero; ma soltanto per accidente arrivo ad enunciare un giudizio conforme alla realtà, in quanto accade che il mio dire convenga con ciò che trovasi nelle cose. Tali sono e così provano gli argomenti relativi e ad hominem, sostenuti solo dall'ignoranza e dall'errore di quelli ai quali si rivolgono.
Anche disputando con un avversario, non meno che cercando luce per sè stessi, convien procedere in guisa da conoscere e da possedere la verità. Vorremo dunque appoggiar le conclusioni a premesse assolutamente vere e dalle quali per necessità di logica quelle seguano legittime ed evidenti. Sarebbe cosa affatto ridicola contentarsi di recare una prova, la quale non potesse essere ricusata da chi avesse certi pregiudizî errati e assurdi, ma falsa per chi conosce il vero e la realtà delle cose. Avremmo ottenuto un assenso inutile ed instabile, pel quale dovremmo sentir disprezzo, come per un'illusione.
Diranno per avventura i mantenitori dell'immanenza che argomenti così fallaci non piacciono nemmeno ad essi; che peraltro li vogliono conformi alle opinioni correnti nelle scuole e a que' principi che sono accettati: che giova partir da altri, non più intesi nè ammessi?
Che giova? — Se i principî non più intesi sono assolutamente veri, convien procurare di farli intendere; e chi gli abbia ben penetrati e chi abbia forza di parola per esprimere il suo pensiero, finirà col chiarirli, almeno per chi non chiuda gli occhi dispettoso alla luce; poichè infine fortis est veritas diceva il più assennato fra quei quattro giovani dei quali si parla al III di Esdra. Parimente è debole l'inganno e ha corto il passo la bugia; ond'è che se non cedono i primi assertori della medesima, dovranno cedere i successori. E giova assai che le importanti verità — or non badiamo a curiosità anche dotte — siano sodamente stabilite, sì che quanto più altri n'esamini le ragioni, tanto più debba riconoscerle invitte e sentire inutile la resistenza, e accettarle. Svanirà l'illusione, e il solido fondamento resterà; tutto questo giova. Ma riguardo alle opinioni correnti, se hanno veramente qualche probabilità, certo potremo con altrettanto probabile argomentazione connetterle alle antiche necessarie verità. E lo faremo, o almeno vi ci proveremo, e farem plauso a chi vi si accinga e vi riesca. Gran danno è che comunemente non sappiamo in qual modo ragionevole o per qual via probabile, coteste nuove opinioni appaiono davvero connesse con le verità necessarie ad ammettere, e conducono a soda dimostrazione.
La possibilità d'una dimostrazione fondata unicamente su ciò che è certo, procedente con asserzioni conformi alla realtà, e che nel dedurre la conseguenza sia irresistibile, senza alcun dubbio è da ammettere. Anzi non se ne dovrebbe nemmen disputare; perche anche questa, come le altre parti fondamentali della natura, debbonsi prendere per immediata evidenza; che se altri ne dubiti, non ha via nè modo d'accertarsi. Se infatti non sai e non vedi che ragionare con verità e con forza sia possibile, come te lo mostrerò? Ragionando, mi varrò di quello stesso mezzo, che tu dici insufficiente: non è guaribile la tua pazzia.
Ma anche qui la verità si può esporre in modo che la mente se ne formi più chiaro il concetto, e i termini sieno precisi. Adunque è certo che noi procediamo da atti più semplici e imperfetti ad atti migliori, è certo che quando un oggetto ci si presenta, incominciamo dall'apprenderne qualche nota comune, senza vederci subito tutto quello che secondo la natia facoltà possiamo arrivare a conoscerne; così pure è certo che quando ci siam formato un concetto, ci appare tosto la relazione che esso può avere di convenienza o di discrepanza con altre ragioni intelligibili; che finalmente a concepir nuove ragioni non prima intese siamo condotti da nuove esperienze interne ed esterne, ossia dalle nostre operazioni, sulle quali torna la coscienza, dai fatti sensibili o dai fenomeni del mondo. Ciò posto, avverrà senza dubbio che la mente veda chiarissima la necessaria verità di qualche assioma, suggerito dalle nozioni spettanti all'ente comune, ovvero di qualche principio manifesto nelle cose più note di natura; che poi si presenti qualche oggetto, al quale quel principio certamente debba essere applicato, o dal quale convenga rimuovere un'altra nozione messa al confronto. Dal principio evidente e dalla manifesta applicazione, per forza irresistibile di conseguenza, segue la conclusione; e questa riesce dimostrata in modo che debba assentirvi ognuno che intende, e si ha così una dimostrazione che può dirsi oggettiva.
Può dirsi oggettiva, non perchè l'espressione sia molto propria; chè la dimostrazione, in quanto formalmente consiste nel nesso logico, ha relazione più stretta col soggetto, il quale per essa giunge a conoscere la verità; ma oggettiva sarà detta senza assurdità, in quanto procede con proposizioni realmente conformi agli oggetti dei quali si tratta, e dovrà
assentirvi ognuno che intende. Si badi bene che questa è la nota caratteristica d'un valido argomento; chi lo capisce nei termini e nel nesso, dee cedere, e potrà resistere, duro nell'ignoranza, chi non lo intende; al contrario di quegli argomenti sol relativi e ad hominem, dai quali è vinto chi ignora ed erra.
Eccoci p, es., a fronte d'un cartesiano, il quale fra puro spirito, identico con l'intelletto, e pura materia inerte, identica con l'estensione, non ammette poter intercedere alcuna realtà. Gli mostriamo che i moti dell'uomo non possono tutti spiegarsi con soli vortici d'atomi. Ne dedurremo che dunque è nell'uomo una sostanza spirituale. Vero; ma è provato male, solo pel cartesiano che sbaglia, mentre non vede la necessità di atti semplici dipendenti nell'essere dalla materia, ed è costretto o ad ammettere uno spirito anche nei bruti, o a torcersi dolorosamente per dichiarar tutto in essi con materiale meccanismo.
Ecco un seguace di Leibnitz, a cui diciamo: Se Dio non è, nemmeno è possibile; ora è possibile, poichè nel concetto di Dio nessuno può trovar ripugnanza: dunque Dio è. Verissimo ch'Egli è; ma dimostrato male, e solo per chi non sa distinguere tra il non veder ripugnanza e il vedere che non c'è, anche quando trattasi di compor note, la positiva realtà delle quali sfugge al nostro intelletto, come certo accade riguardo ai concetti di necessità e d'infinità nell'ente, ove per conseguenza potrebbe nascondersi contraddizione a noi non palese. Altrimenti col medesimo processo dovremmo dire dimostrato qualunque mistero, e in primo luogo la Trinità: chi può convincerla d'assurdità? dunque è possibile; dunque è vero; poichè, nelle cose necessarie, sopratutto in Dio stesso, ciò che non è, è impossibile, e ciò che è possibile necessariamente è.
Ecco infine un kantista a metà, col quale ragioniamo così: Ci sentiamo stretti dal dovere; ma il dovere è da Dio (E. Kant peraltro diceva di no, volendo che il dovere si fondasse solo nella dignità della nostra persona); dunque Dio è. Buono per sollevare la mente ben disposta al pensiero di Dio, come principio dell'ordine morale, e prova valevole se si riduce alla quarta tra le vie di S. Tommaso, dicendo che ogni finita perfezione deriva da una prima infinita. Ma presa nel senso volgare prova inefficace, poichè chi altronde non conoscesse Iddio, negherebbe di sentire il dovere con quella forza che viene appunto dal sapere che Iddio comanda, e l'ammetterebbe soltanto come una convenienza, una perfezione desiderabile, una bellezza morale, un riguardo sociale, nel modo che di fatto pensano gli atei. E un panteista direbbe che cotesto sentimento del dovere è una parte dell'intima forza evolutiva, dalla quale ogni natura è portata o spinta a miglior perfezione: converrebbe provargli per altra via l'esistenza di Dio. E gli argomenti qui accennati valgono per chi non li capisce.
Al contrario, valgono per chi capisce la verità delle cose gli argomenti antichi dell'Aquinate. Chi intende che cosa importi acquistare una nuova attualità e come nessun soggetto possa essere di questo adequata cagione a se stesso, poichè ripugna che abbia e non abbia allo stesso tempo la medesima perfezione, senza dubbio anche intende la necessità di ammettere che ogni cosa mossa da altra è mossa. E non è possibile fermarsi, senza concedere che v'è un primo Motore non più mosso ed immobile; nè il processo all'infinito sottrarrebbe la mente alla necessità della conclusione. E chi capisce che quel primo Motore è immobile, perchè già si trova al termine d'ogni perfezione ed esclude ogni potenzialità, vede pure che veramente per quella via si è giunti a Dio. E riderebbe di chi dicesse che no, e che quel primo motore è forse uno stantuffo, forse la cascata del Niagara: per carità! son forse immobili quello stantuffo o quell'acque? Dunque quell'argomento vale per se, ed è oggettivo, ossia procede affermando la verità delle cose, e convince chi lo intende; lascia non persuaso chi non ha mente per capirlo: manco male!
Similmente, chi vede l'impossibilità di porre contingenti tutte le cose che esistono, e conchiude che le molte contingenze a noi manifeste debbono essere precedute da un primo Necessario, ben vede che questo Necessario deve importare purissima attualità e un essere non ricevuto in un'essenza distinta. Con ciò capisce di aver dimostrato Iddio, e non potrà a meno di ridere a udir l'eccezione proposta, che forse quel primo atto, esistente per necessità di natura e perciò determinatissimo, non è altro dalla materia, potenza pura, e somma indeterminazione. Troppa confusione di concetti ci vuole a errare da un estremo all'altro più che infinitamente lontano!
Similmente ancora, quando l'ordine dell'universo ci avrà condotti a sentir con evidenza la necessità d'un sovrano Ordinatore, ci crederemo in diritto di compatire Emmanuele Kant, il quale con gravità viene a dirci che con ciò non si arriva a Dio: basta a tanto per avventura una minor causa che disponga le cose mondiali. Non capisce che l'ordine di che si tratta è ben altro dal mettere i vari globi celesti a opportuna distanza, e i corpi terreni in buona disposizione; importa assai più coordinar le intime proprietà delle specie diverse, sì che si trovino nella debita proporzione per vivere e muoversi in comunanza; nè questo potè far altri che l'Autore dell'essere e d'ogni natura. Così è che gli argomenti di S. Tommaso sono efficaci per chi li penetra, e meditando più vede che son veri, e sente vane le opposte difficoltà. Abbiam recato l'esempio nella prima e nella massima questione che possa trattarsi; altrettanto potremmo fare riguardo alle altre che importano, ma speriamo che il detto basti a chiarire il nostro pensiero.
Vogliamo dunque argomenti che, quanto più finamente sono analizzati o meglio intesi nelle loro premesse e nel nesso logico della conseguenza, tanto più convincano e sforzino il sincero intelletto all'assenso. A torto altri pensò che le prove valgano, quasi diremmo, solo in senso utilitario, in quanto riescon di fatto a persuadere l'uno e l'altro, e che non sia da cercare di più, perchè esiste la ragione individuale di ciascuno, non esiste la ragione comune di tutti. Nel caso di voler trarre un'anima a Dio, potrò valermi a buon fine anche di un pregiudizio di lei; l'avvertirò peraltro che la verità si appoggia a migliori fondamenti, e lo farò anche per timore che s'avveda dell'inganno, e rifiuti insieme la felice conclusione alla quale era giunta. Ma per tutti e sempre è pericoloso il dare importanza a storte opinioni, dalle quali il vero si può dedurre solo per caso, e che di lor natura son labili.
Che poi non esista la ragione astratta e comune, è detto male a proposito; è ignoranza della dottrina che riguarda gli universali. Verissimo che l'umanità, e con essa l'umana ragione, si moltiplica nelle singole persone; rimane peraltro una nella sua natura formale. E questa formale unità importa che in tutti gli uomini si realizza una facoltà intellettiva, la quale essenzialmente ha lo stesso grado di perfezione, e conviene nella prima formazione dei concetti e dei principi, e in ugual modo è perfettibile e discorsiva. Si aggiungerà nei singoli una differente perfezione accidentale; ma prescindendo da strane infermità, v'è una prima determinazione a tutti comune, che basta alle più spontanee e naturali operazioni. Che se in alcuno questi atti vengano ad essere impediti, convien dire che quell'individuo resta difettoso e quasi mostruoso, come è in difetto chi non vede o non ode. La qual privazione dell'uso intero della ragione può provenire da mancanza o da malattia degli organi sensitivi, gli atti dei quali sono in noi connessi con quelli delle più nobili facoltà, vogliam dire delle spirituali per sè non legate ad organo; e può provenire da pervertimento dell'intelletto che aderisce a giudizi mal preformati, i quali impediscono che la verità e qualsiasi argomento esercitino sulla mente la loro virtù persuasiva. In qualunque modo uno consenta a quell'errore fondamentale del kantismo, che alle idee dell'ordine numenico o soprasensibile non risponda in tutto, o non risponda con certezza, l'obiettiva realtà, egli si rende incapace di qualsiasi vera scienza, massimamente in ciò che importa all'uomo di sapere riguardo a Dio, alla vita eterna, ai motivi di accettare la divina rivelazione.

Mentalità moderna.

Così male disposti, vogliono i moderni riprendere ogni cosa da capo. — Incominciano dall'esaltare i trionfi dello studio posto nei soli fenomeni. Col metodo di guardar soltanto i fatti, senza fidarsi delle ragioni metafisiche e dei principî a priori, mostrano alteri totalmente rinnovata, o piuttosto in tutto costituita, la scienza fisica. Non volendo ora tener conto di qualche riserva che avremmo a fare, in questo primo punto possiamo accordarci: è impossibile non riconoscere l'immensa copia di positive conoscenze, accumulate da tre secoli, provando e riprovando con cura squisita i fenomeni naturali. — Poi esaltano i risultati della critica storica; il quale studio risponde in qualche modo al kantismo, in quanto tutto ancor s'appoggia ad un certo modo di manifesta esperienza, con accettar soltanto le testimonianze che restano indubitate e chiare, nei documenti lasciatici dalle antiche età e giunti fino a noi, non supponendo che alcun fatto siasi avverato fuor delle leggi comuni, e rigettando le dubbie prove delle popolari tradizioni. Ond'è che non accettano i nuovi maestri nelle origini del cristianesimo alcun avvenimento o alcun uso non provato storicamente, e vanno orgogliosi di avere sbandito dall'opinione comune innumerevoli leggende; di aver poi ricostruito molta parte di storia sui monumenti antichissimi di Grecia, d'Egitto, d'Assiria. Qui noi avremmo da proporre più d'una osservazione. Accenniam di volo che la critica è lontana dall'avere escluso le umane passioni, per le quali l'intelletto s'inclina ad accettare quel che piace e rigettare il contrario; che spesso le congetture si scambiano con argomenti apodittici; che molto si concede alla fama di qualche dotto, molto al naturalismo e alla paura di quello che è straordinario; con che, specialmente in ciò che tocca la religione e la storia della Chiesa, è aperta la via ad ogni errore. Del resto ognuno ammetterà che l'epoca nostra, anche in questa parte del riconoscere la vera storia e sceverar le leggende dai fatti, molto si avvantaggia sull'età di mezzo.
Ma per la vanità concepita nel correggere l'antica semplicità quanto all'accettazione dei racconti talora formati dalla fantasia popolare, per l'orgoglio cresciuto nel credere d'aver trovato nuovi principî con cui reggersi nelle conclusioni scientifiche, si sono i moderni accinti all'opera di rinnovare ogni cosa: nuova filosofia, nuova teologia, nuova esegesi biblica, onde forse verrà nuova maniera di culto, di ordinamento ecclesiastico, di formole proposte alla fede.
Quanto all'esegesi biblica, una parola sola: Va bene che la moderna erudizione concorra a dichiarar più ampiamente e più esattamente il senso letterale della Scrittura; non va bene che con ciò si pensi d'avere la più importante conoscenza del sacro testo, nè si curi l'infallibile ispirazione, nè si ricordi che i Santi e la Chiesa hanno una miglior luce da Dio per intendere ed esporre la sua parola; non va bene che quasi si trastulli l'ingegno con ipotesi e congetture in materia sì santa, nè che la natura si arroghi la principal parte in ciò che essenzialmente è soprannaturale e divino.
Quanto alla filosofia, che cosa si può sperare, posta quella novità, che già a lungo mostrammo non esser altro che distruzione? Non sono forse concordi i nuovi dotti a ridere della metafisica, salvo a stabilire essi medesimi come assiomi indiscutibili alcuni effati conformi ai loro capricci? Non disprezzano forse l'intelletto? Infatti come stimarlo, se non fa altro che sognare, senza neppur attingere alla realtà gli elementi de' suoi sogni? Che pregio dargli, se non sa discernere il vero dalle proprie impressioni, nè mai è certo di nulla, nè pure affermando quei principî che sono il fondamento di tutti i suoi giudizi? E se altri non vuol venire fin qui, mentre la logica del sistema vi condurrebbe, cresce l'incoerenza e con essa il disordine dell'intelletto.
Che cosa faranno quelli che vogliono rinunciare a tutto ciò che i maggiori nostri pensarono, e vi rinunciano pel solo motivo di non doversi vergognar come vecchi in faccia alla balda gioventù, o per non sentirsi dire che le loro idee sono inconcepibili cristallizzazioni della psiche umana? Che cosa sostituiranno alla mal derisa e niente compresa filosofia scolastica? Se nella dottrina dell'immanenza c'è qualche idea non assurda, e nell'esaltar che fanno l'influsso dell'azione sui pensieri c'è gran parte di verità, tutto fu conosciuto e detto dagli antichi, con più esattezza, e assegnandone la cagione assai meglio, che i nuovi filosofi non sappian fare: il resto che aggiungono, si riduce all'assurdo idealismo kantiano, ad agnosticismo e a scetticismo.
Ma diciamo apertamente che non credevamo possibile a scrittori cattolici, eruditi per altro e risoluti di rimaner fedeli alla Chiesa, esprimere riguardo a tutta la dottrina scolastica, ossia riguardo a quella che si formò nella Scuola cristiana per opera di eccellenti dottori e di parecchi Santi, tali giudizi da consentire con Lutero e coi più rabbiosi nemici della verità cattolica. Pio VI condannava il disprezzo della Scolastica nei giansenisti del secolo XVIII; Pio IX condannava tra gli errori moderni quello che diceva inopportuno ai bisogni del nostro tempo e al progresso delle scienze il metodo degli antichi Scolastici nello svolgere la teologia; Leone XIII diceva, or non sono ancora trent'anni, essere stata temeraria cosa l'allontanarsi nella filosofia, che è preparazione alla teologia, dagl'insegnamenti di quei Maestri, e particolarmente dell'Angelico Dottore; il Santo Padre Pio X, nel Breve, troppo poco curato, che rivolse alla Accademia Romana di S. Tommaso, [S. Pio X Breve In praecipuis laudibus, 23 gennaio 1904, ASS 36 pag. 467-470 N.d.R.] diceva di voler parlare a tutti i filosofi cristiani e di inculcar novamente la direzione già data dal suo Predecessore. Or ecco che nulla curando la voce dei Papi, sì costante in un pensiero, osano i novelli scrittori rigettare un volume o deprezzare un autore, sol perchè mantiene la tradizione dell'antica Scuola. Nell'enciclica Aeterni Patris era ricordato come un grido di ribellione disperata quello di Lutero contro la Scolastica e contro l'Aquinate: ecco qualcheduno non temer di scrivere che la riforma ebbe diritto di denunciare come mostruoso l'ibrido connubio ammesso nel medio evo del dogma cattolico con la filosofia, e che non ebbe torto Lutero d'interdire alla ragione di violare in quel modo i principî ineffabili del cristianesimo. È un parlare cotesto, al quale un uditorio entusiasta di giovani inesperti applaudirà fragorosamente; ma chi rifletta con sano giudizio non potrà a meno di sentire l'immensa ingiustizia verso l'antica Scuola e l'insensata approvazione del giudizio eretico contro quello della Chiesa.
Dopo aver così rinunciato alla Scolastica, alla metafisica, ai più chiari principi della ragione, mostrano i nuovi maestri di volersi accingere a rifar da capo la teologia, e l'esposizione dogmatica della fede, anche considerata nelle formole sancite dalla suprema autorità della Chiesa, dai Papi e dai Concilii. Già dicemmo abbastanza che gravissimo errore sia quello di voler toccare alle canoniche definizioni. Ci dicono di non capirle più? Oh studino per capirle! E si aggiustino essi il capo o l'intelletto, che certo dev'essere molto guasto, se è diventato estraneo a quelle esattissime espressioni, che la Chiesa determinò; non pretendano che muti la Chiesa il suo dire, per adattarsi alla confusione delle nuove idee, con manifesto regresso e con danno universale. Appunto vogliono il regresso. Fra gli studi moderni quello è principale di risalire i secoli, non semplicemente per sapere come i dogmi fossero creduti ed espressi nei primi tempi e come poi si sieno svolte le migliori dichiarazioni; sibbene per ritener come vero e certo quello soltanto che esplicitamente da principio fu detto, ripudiando il resto che poi sopravvenne. Così presso a poco dissero i riformisti luterani che al IV secolo la Chiesa si eclissò e per essi tornava alla luce del mondo. Quasi lo stesso osano dire i nuovi eruditi; dimenticando che il comune insegnamento della teologia cattolica forma il sentimento della Chiesa stessa, e in ciò che determina per certo e dogmatico o connesso di necessità con le verità di fede, non è soggetto ad errore.
Ma quale stranezza è cotesta di vantare la perpetua evoluzione del dogma, conforme al costante progredire del genere umano, e poi di volere liberarsi da tutto ciò che in tanti secoli s'è fatto, e di rigettar con la critica tutto ciò che si è aggiunto alle idee e alle parole dei primi tempi, chiamandolo superfetazione, cristallizzazione dannosa, spoglia caduca della fede cristiana? Ma se la legge è il progresso, dall'anno di grazia 500 all'anno 1500, come e perchè non si è progredito? E che vantaggio vi sarà nel tornare indietro, alle prime incertezze, alle espressioni ancora men decisive, che convenne rendere più precise, per troncar gli errori e ribatter gli avversari ?E per qual destino sperano i novatori, diventati amanti della rozza antichità, di rifare il lavoro più felicemente che nel medio evo non siasi fatto? Vorrebbero soggettar così la dottrina cattolica e la stessa Chiesa alle fluttuazioni delle opinioni correnti, e questo col pretesto di liberarla da ciò che è umano e caduco. Perchè non intendere al contrario che quanto fu accettato e definito non è caduco e non è puramente umano, poichè lo Spirito di verità dispose che fosse espressione di fede divina?
Or con le menti incerte e confuse, che pur vogliono riprendere fin dal principio ogni cosa, a qual termine possiamo sperar di riuscire? A sollevar discussioni e dubbi, a portar tenebre e confusioni, anche dove era tutto certo e chiaro; nel resto poi peggio ancora. Sì, per chi attende alla nuova scuola, e nella turba degli amanti di novità, siam riusciti a questo. Vedete infatti che qualunque nuovo errore sia proferito, cominciano i giovani con un plauso entusiasta, e solo quando s'accorgono che un'autorità superiore alla quale non vogliono ribellarsi — parliamo dei novatori che tuttavia si dicono cattolici — minaccia di condannarli, si ritirano in se stessi, come raccoglie le corna la lumaccia [= lumaca, N.d.R.], e coprono col silenzio la vergogna d'essersi ingannati.
Il Loisy diceva stranezze blasfeme contro le perfezioni dell'Umanità SS.ma del Signore; ma credea di schermirsi con quella stolta difesa, di voler giudicare secondo la scienza, rispettando l'opposta affermazione della fede. E gli amici a dire che, poveretto! nessuno avea più diritto di contraddirgli, nè egli poteva essere condannato. Come sia penetrato in un cervello umano il fantasma che si possa dire sì e no alla stessa cosa per diverse ragioni, delle quali nessuna sia falsa, noi, fatti all'antica, non lo possiam concepire.
Viene un laico professore a domandare che cosa sia un dogma; e risponde non potere esser altro che una norma pratica, onde siam diretti ad agire come se quell'asserzione di fede avesse realtà: a riverir Gesù Cristo come se fosse Iddio, a trattare il Sacramento come se il Signore vi si trovasse presente, a fuggire il peccato come se ci portasse a un eterno dolore: e ne dava per ragione che noi avvezzi a disputare anche intorno agli assiomi non possiamo accettare quelle oscurissime affermazioni; che per noi usati a giudizio indipendente non può essere motivo bastante l'autorità d'alcuno; che le stesse ragioni di credere, che Dio è, che parla, che fa miracoli, sono misteriose al pari di quelle verità che si dovrebbero credere, e così versiamo intellettualmente in un circolo vizioso. Noi, fermi ai principî, avremmo senz'altro esecrato un errore distruttivo di tutta la religione divina, la quale non in dotte favole si fonda ma nella realissima verità; e avremmo risposto che il disputar degli assiomi, non per precisarne il senso, ma per accertarne la verità, è una follia; che, senza pretendere d'aver dei misteri concetto proprio, basta una remota analogia; che il rifiutare l'autorità divina non è perfezione d'intelletto, sì delirio di mente insana; che le prove di dover credere sono accessibili alla ben disposta ragione, e se una filosofia non è capace d'intenderle con ciò stesso è condannata. Invece, ecco molti cattolici affannarsi e dubitare, se veramente alla questione Qu'est-ce qu'un dogme? s'ha da rispondere col Le Roy, e cercar se la sua risposta non è migliore dell'antica tradizionale, e concedergli almeno qualche parte di ragione. Questo prova la mancanza dei principî e l'oscurità delle idee, in che gl'intelletti modernamente son venuti.
E molti ripetono che la nuova scienza ha ormai usate le menti a non considerar altro che i fenomeni, e però a non più distinguere la sostanza delle apparenze: che cosa è ferro, se non un complesso di tale struttura molecolare e conduttività di calore e solubilità? che è pianta, se non la serie di tali svolgimenti ed attività? e così del resto. Dunque che può mai voler dire quel mutarsi del pane, e non delle specie, nel corpo di Gesù Cristo? che può significare quella barbara voce di transustanziazione? Cerchisi una dichiarazione del mistero che possa proporsi ai vivi del nostro secolo, e si lasci quell'inutile barbarie, insieme con l'alchimia, ai morti del medio evo. Così essi, e credono di parlar sensatamente. Parlano pazzamente, e non sanno che l'immobile verità della fede deve bastare a dirigerli nel formarsi i concetti, se altronde non sono giunti ad acquistarli; che la nozione di sostanza distinta dalle apparenze, se già non l'hanno per altra via (e sono da compatire), viene necessariamente a determinarsi nella considerazione dell'Eucaristia, come il concetto di persona dovette essere studiato e compito, per dichiarare con esattezza i misteri della Trinità e dell'Incarnazione. E quella nozione di sostanza distinta dagli accidenti è pur necessaria in altri argomenti teologici: Che cosa intenderete per virtù infuse, per grazia santificante, per elevazione soprannaturale, se non sapete che alla semplice essenza dell'anima possono sopravvenire quelle realissime perfezioni? E guasterete tutto questo per acconciarvi all'incapacità di quei grossolani, che sanno immaginar come i pazzi, intendere spiritualmente non sanno? Del resto anche ad ogni filosofo, al quale ancora studiando non sia svanito il cervello, parrà un delirio quello di Locke, che appunto facea consistere nelle sole parvenze tutta la realtà sostanziale. Con che la mia stessa umana sostanza, o la mia persona, indistinta dagli atti che si succedono, andrebbe in fumo.
Con tali nebbie nella mente, col veleno kantiano in tutti i pensieri, con la fiducia irragionevolmente posta nella filosofia dell'azione, che non sa bene onde venga e a qual termine vada, proprio come quegli antichi, Parmenide e Melisso e Brisso e molti, i quali andavan, nè sapevan dove, voglion costoro rinunciare a tutta l'opera della cristiana sapienza, opera stabilita con tanta luce di principi chiarissimi e di logica rigorosa, condotta sempre col guardo in alto e con sì puro amore del vero, continuata da molti Santi, benedetta dai Papi, bestemmiata dagli eretici, per rifar tutto a nuovo, giovenilmente confidando in più lieti auspici e in forze migliori e in un termine più glorioso. Così appunto Emmanuele Kant distrusse l'antica e promise la sua nuova metafisica, che dovea riuscire un sogno di tutta la vita.
Chi mai osò scrivere che la metafisica nostra è tuttavia dolorante dai fieri colpi del pensiero kantiano? Poteron quei colpi far paura alle teste di vetro; poterono, come spari a polvere, offuscar gli occhi deboli, ossia turbare e pervertire le menti fiacche. Ma la metafisica d'Aristotele e di S. Tommaso immobile nelle menti sane, sta in cima alla sua rupe, aspettando che lo strepito e il fumo di quegli spari, come avvenne già tante altre volte, sieno dileguati.
«Speriamo che a tutti sia manifesta per gli articoli precedenti la totale immanenza posta dal kantismo nell'ordine intellettuale. L'immanenza consiste, come i moderni la intendono, nel trarre dal solo soggetto, o tutta, o in maggior parte che non sia lecito, la ragione di ciò che dal soggetto procede, o che al soggetto può aggiugnersi. Ebbene, era piena immanenza, riguardo all'intelletto, il dire che non dalla realtà delle cose, non dalla costituzione dell'ente e delle essenze diverse, ma tutte vengono esclusivamente dalla natura dell'anima, e le forme da noi attribuite agli oggetti, e le nozioni astratte, sotto le quali ci pare di raccogliere i dati esperimentali, e le verità supreme che ci sembra di dover affermare come principî manifesti e necessarî. Con ciò l'immanenza è totale rispetto a quella che una volta chiamavasi cognizione, e che omai dovrebbe prendere altro nome, se pur non diciamo che questa voce medesima ha perduto tutto l'antico significato.» Il veleno Kantiano, pag. 358.
Concilio Vaticano, Costituzione dogmatica Dei Filius, Canoni, IV, 3: «Se alcuno dirà possibile ad accadere, che ai dommi proposti dalla Chiesa si possa u
«Ex his enim sunt, qui penetrant domos, & captivas ducunt mulierculas oneratas peccatis, quae ducuntur variis desideriis. — Sempre discentes, & nunquam ad scientiam veritatis pervenientes.
Imperocchè di questi sono coloro, i quali s'intrudono per le case, e schiave si menano delle donnicciuole cariche di peccati, mosse da varie passioni: — Le quali sempre imparando, non arrivano mai alla scienza della verità.»
Mons. A. Martini commenta: «Vers. 6. 7, S'intrudono per le case , e schiave si menano ec. Gli eretici imitano il loro padre il demonio, il quale la prima sua tentazione rivolse contro la donna come più debole, e facile ad esser sedotta, e come istrumento idoneo alla perversione dell'uomo. Così con una lunga induzione dimostra s. Girolamo, che tutte l'eresie sono state o fondate, o sostenute, e dilatate per mezzo, di donne simili a quelle descritte quì dall'Apostolo, di coscienza corrotta, dominate da varie passioni, e particolarmente da una rea curiosità, per cui non contente della dottrina della Chiesa, amano le novità adattate alle strane loro fantasie, e trovando ne' nuovi maestri tutta la facilità a soddisfarle, studiano sempre, senza che arrivar possano giammai alla scienza della verità.» Nuovo Testamento ecc. tradotto e annotato da Mons. A. Martini, tomo V, Firenze 1791 pag. 171.


na volta, secondo il progresso della scienza, attribuire un senso diverso da quello che intese ed intende la Chiesa; sia anatema.»

NOTE:

[1] Studi Religiosi, maggio-giugno 1905 p. 219.

[2] Dunque non aveva torto, anzi verissimamente scriveva il Bossuet, opponendo alle indefinite variazioni dell'idra eretica, l'eternamente immutabile verità delle definizioni dogmatiche nella Chiesa cattolica. E se il Newman a questo avesse contraddetto, si sarebbe ingannato. Ma davvero non vi contraddisse, osservando che la verità del cattolicismo è inesauribile per le nostre menti: osservazione del resto notissima e antichissima. Male s'immaginò di vederci contrarietà chi scrisse l'articolo Il dogma nella storia in Rivista delle scienze teologiche, nov. 1905. [E. Buonaiuti, «Il dogma nella storia», in Rivista storico-critica delle scienze teologiche I (1905) 726. Ernesto Buonaiuti, uno degli eresiarchi del modernismo, fu scomunicato il 25 gennaio 1925 N.d.R.]