domenica 12 maggio 2013

La politica economica borbonica.



I critici liberisti (che hanno rovinato il mondo intero con la politica liberal-massonica) hanno bollato la politica economica dei sovrani meridionali, definendola un “fallimento autarchico”, figlia del loro... “paternalismo” e del “protezionismo” (le industrie meridionali, ad esempio, sono state chiamate “baracconi di regime”); in questo modo, però, si dimentica che il principio su cui era basata l’economia borbonica era proprio quello di uno sviluppo guidato e sostenuto dallo Stato che mirava soprattutto a salvaguardare gli interessi dei ceti popolari. I dazi sull’esportazione dei prodotti alimentari, per esempio, facevano parte di questa impostazione perché permettevano di vendere, all’interno dello stato, i generi di prima necessità ad un prezzo basso, oggi si direbbe “politico”, soddisfacendo in questo modo le esigenze alimentari della popolazione e colpendo contemporaneamente gli interessi degli agrari.
Essi divennero, per questi motivi, i più acerrimi nemici della Monarchia trasformandosi in accesi sostenitori dell’ideale politico unitario italiano, a guida piemontese, che prometteva loro una politica economica liberista, favorevole ai loro interessi; anche la borghesia, con gli stessi intenti, fece questa scelta lasciando così la Dinastia meridionale priva dell’ appoggio politico delle principali classi economiche del Paese. Queste ultime affermavano che “una politica economica che pretendeva di produrre tutto e di trovare all’interno i consumatori di tutto, non poteva che fallire ed un progresso industriale ottenuto a forza di dazi non poteva che essere rachitico”[1], solo una politica economica liberista avrebbe potuto fare da volano all’economia del Mezzogiorno aumentando, in questo modo, anche gli introiti fiscali, utili a ridurre il debito pubblico; i sostenitori della politica economica a guida statale, di rimando, affermavano che le Due Sicilie, essendo un piccolo stato, non erano e non potevano diventare l’Inghilterra o la Francia e che quindi era più logica una “economia protetta” dai dazi di importazione e di esportazione la quale mirasse solo alla soddisfazione dei consumi interni.
Anche a livello del pensiero accademico le opinioni furono a lungo discordi (il Sud vantava una scuola di primissimo ordine tanto che proprio a Napoli nacque nel 1754 la Prima cattedra universitaria al mondo di Economia Politica con Antonio Genovesi) e solo verso il 1850 prevalse la corrente che appoggiava il liberismo puro fautore della libera iniziativa privata, della caduta di ogni barriera doganale protezionistica e del divieto da parte dello Stato di intervenire come parte digerente nello sviluppo economico. I due schieramenti (agrari e borghesi da una parte, sostenitori della politica statalista dall’altro) sono stati entrambi accusati di sostenere le loro rispettive tesi per motivi puramente strumentali: i primi, trasformatisi in idealisti unitari, preoccupati in realtà solo dei loro interessi economici, i secondi, a loro volta, dediti solo a rafforzare la monarchia assoluta meridionale, che garantiva le loro cariche pubbliche, contro il movimento unitario italiano, paladino del liberismo economico.
Fedele alla sua impostazione di politica economica statalista, Ferdinando II incentivò l’opera dell’Istituto d’Incoraggiamento, che era inizialmente alle dipendenze del Ministero dell’Interno e poi, nel 1847, del neonato Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio.
Questa istituzione centrale coordinava l’attività delle varie Società economiche che erano nate già nel 1810, sotto la dominazione francese, e che furono potenziate dal Borbone estendendo il loro campo di azione dalla sola agricoltura all’industria, al commercio e all’artigianato: il loro compito era non solo quello di fornire ai funzionari statali provinciali (gli intendenti) informazioni e analisi statistiche sulle attività produttive, ma soprattutto quello di diffondere l’ “istruzione tecnica specifica” agli addetti dei vari settori economici, con lo scopo di ottimizzare il loro lavoro.
Negli altri stati italiani ed europei esistevano analoghe associazioni ma, di solito, erano private, mentre nelle Due Sicilie erano strumento del governo centrale, pur se negli anni si guadagnarono una certa autonomia.
Così, grazie alla guida di re Ferdinando II, già nel 1843 gli operai e gli artigiani raggiunsero il 5% dell’intera popolazione occupata per poi raggiungere il 7 % alla vigilia dell’unità, con punte dell’ 11% in Campania (che era la regione più industrializzata d’Italia), queste percentuali erano in linea con quelle degli altri stati preunitari; complessivamente, per quanto riguarda la parte continentale del Regno, nel 1860 vi erano quasi 5000 fabbriche .
Il ceto operaio meridionale fu il primo in Italia ad inscenare manifestazioni di protesta per reclamare aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro[2]; era il datore di lavoro, infatti, a fissare il salario e l’orario, eppure in occasione del Congresso degli Scienziati, tenutosi a Napoli nel 1845, si affermò che essendo nel Regno delle Due Sicilie “più facile e meno caro il vitto, non è il caso di apportare variazioni salariali”[3].
La bilancia commerciale del Regno delle Due Sicilie era in attivo attiva negli scambi con gli altri stati preunitari italiani, eccettuata la Toscana; con le potenze europee era in passivo, eccetto con l’Austria, ma se paragoniamo i dati del 1838 con quelli del 1855 si notano dei segni di ripresa a confermare una progressiva espansione economica[4].
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Note:

[1] Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione, Rubbettino, 1998, pag. 78
[2] Tommaso Pedio, op. cit., pagg.1-4, modif.
[3] riportato da Tommaso Pedio, op. cit. pag.92
[4] dati relativi alle province continentali del Regno, da T.Pedio, op. cit., pag. 82
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