mercoledì 8 maggio 2013

L'agnosticismo di Emm. Kant radice dei moderni errori.

Immanuel Kant (Königsberg, 22 aprile 1724Königsberg, 12 febbraio 1804

 
 

 

R. P. Guido Mattiussi d.C.d.G.

Da: Il Veleno Kantiano (IIa ed.), Roma 1914, cap. I, pagg. 1-25

L'agnosticismo di Emm. Kant radice dei moderni errori

 
 

Confusione d'idee pel kantismo.

Inutilmente ci affatichiamo a far conoscere i pregi dell'antica sapienza presso i nuovi maestri e le scuole profane. Perocchè fra loro si ha per indubitato che è perpetua l'evoluzione della natura e degl'ingegni; parrebbe un rinunciare alla vita il ritener le sentenze degli avi, ed è presa a sdegno una filosofia che si professi umile ancella della fede, con che la ragione sembra rinunciare a' suoi diritti e pare distrutta la sincera ricerca della verità. Vè poi nel fondo dell'anima il segreto proposito di ribellarsi a qualunque evidente principio, che porti come vicina o remota conseguenza la verità della religione e la necessità di credere. Riguardo a quei lontani avversari, il fatto di non voler neanche esaminare la Scolastica è manifesto; con dirla filosofia mistica credono di mostrare che l'hanno studiata (?) e capita (??) e a buon diritto condannata.
Ma perchè mai avviene che pur tra coloro ai quali è santa la religione cattolica, ed è posta innanzi l'eccellente, la sempre viva, la quasi dogmatica filosofia, già formata dai nostri teologi; sì fondata nel buon senso e nelle prime e più note esperienze, sì irradiata dalla luce superna della rivelazione divina, — quella filosofia che, salvo qualche locuzione mutabile secondo il tempo e i paesi, o qualche opinione suggerita dalle illusioni dei sensi nell'osservar la natura, è la perenne filosofia del genere umano, — non pochi restino dubbiosi e volgano lo sguardo altrove, cercando una luce diversa che li quieti? Che cosa tiene sospesi i loro animi? O che cosa li rende incapaci di scorgere la lucente verità?
È sopratutto il veleno kantiano. È una grande sventura che nelle scuole profane, dapertutto ove non prevale, o per stanchezza è caduto, il grossolano materialismo, siasi acclamato come sovrano maestro Emmanuele Kant, ed egli sia quasi il genio dominatore, dopo il quale altri maestri inferiori sono sorti come interpreti e difensori del suo pensiero. Dunque secondo quelle avviluppate e nebbiose concezioni s'è formata la nuova filosofia delle moderne università, anzi di coloro che in esse parevano più savi, come elevati sopra il fango della brutta materia. Poco male, se la cosa fosse rimasta lì, ma è gran danno che gli errori kantisti — prendendo aspetto di qualche onestà — non restino confinati in quelle aule, e omai allettino in qualche maniera anche le menti di alcuni cattolici. Perocchè sempre in molti di noi c'è la smania di mostrarsi condiscendenti a quella che dicesi scienza moderna, e di ridurre al minimo la diversità fra le nostre dottrine e le opinioni correnti; sperando, col cedere in qualche punto, col dissimular qualunque verità meno accetta, di rendere più breve e più facile il cammino a quelli che volessero tornare dei nostri, e volendo dar prova di mente larga (che abbraccia con disinvoltura gli errori), e di sapere e di ammirar tutto ciò che appartiene alle nuove dottrine. Ora il Kant è oggetto di universale ammirazione: d'altra parte non si vuol vedere che tutto il suo sistema è maligno e falso. Dunque dicono, uniamoci agli altri nell'ammirarlo: così avremo maggiore efficacia, per trarre gli avversari della nostra fede a riconoscerne la verità.
Pare a molti di porsi in un giusto mezzo, aderendo al kantismo, che esclude l'ingenua fiducia del medio evo; che d'altra parte non è positivo come la scuola del Comte, non è materialista come sono i nuovi epicurei (turba infinita), non è scettico come Hume, non è panteista come Spinoza, non è sensista come Locke, i quali sono tutti ripresi o confutati dal filosofo di Koenigsberg, come già i più antichi greci dallo Stagirita: anzi sembra partire da ragionevole, un dubbio, e procedere con metodo rigoroso. Sovratutto si giudica opera assai gloriosa del Kant la critica delle nostre facoltà conoscitive. Di questo appunto sembrava, e non pochi ripetono tuttavia, che ci fosse bisogno; sospettando che quel secondare troppo semplicemente l'istinto della natura avesse portato ad accettare le illusioni dei sensi e a porre fuori di noi quello che era soltanto nel nostro modo di concepire. Era illusione, dicono, non soltanto l'immaginar che gli astri fossero sì piccoli e che il sole girasse intorno alla terra; ma ancora e molto più profondamente, il credere che le qualità diverse dei corpi dovessero costituirsi in natura, come appaiono ai sensi; più ancora e peggio, che lo spazio e il tempo, onde paiono misurati tutti senza eccezione i fenomeni corporei, esistessero in verità fuori della nostra percezione e indipendentemente dalle forme innate alle nostre facoltà. Se le troviam dappertutto, è segno che ce le mettiamo noi: oh che non se ne accorsero quei semplicioni di Aristotele e di S. Tommaso? Se n'è accorto finalmente Emm. Kant, che ci avvertì dell'inganno. Questa fu critica radicale dei sensi esterni: infatti che rimane del mondo, senza spazio e tempo? Ma ancora più profondamente istituì la critica della ragione; e rispetto ad essa ci fece accorti che non abbiamo diritto di attribuire alle cose, o all'ordine realmente oggettivo, quello che sorge in noi per necessaria inclinazione della nostra mente. Solo il senso o l'esperienza esteriore, da parte nostra attinge gli oggetti che veramente esistono. Come siamo portati a figurarci ogni cosa nello spazio e nel tempo, così l'anima nostra è determinata alle nozioni ed ai principi universali dell'ente. E pure ponendo, che questa naturale determinazione sia conforme in alcun modo alla realtà di un oggetto, dovremo ancora tener per veri quei giudizi che si fermano all'analisi del soggetto; ma qualunque nota si componga, il giudizio divien sintetico, ed è da tenere come soggettiva disposizione dell'umano intelletto, senza osare di attribuirlo a un termine da noi distinto, o di trascendere l'atto medesimo della cognizione. Così c'insegna la nuova filosofia.
E aggiungono a gran lode del Kant, che egli, partito da' suoi principi e procedendo con un metodo, che par rigoroso, e molto atto a convincere gl'ingegni dei nuovi professori, è arrivato a riconoscere l'immortalità della nostra anima, la libertà del volere, l'esistenza di Dio; che di più molto nobilmente ha parlato della legge morale, del dovere al quale ogni uomo dee soggettarsi, della virtù che è il supremo bene dell'essere ragionevole. Vedete dunque che anche la filosofia più stimata nelle scuole laiche moderne, anche il ragionamento che secondo le idee più recenti s'impone agl'intelletti, benchè sfiduciati del sillogismo e ritrosi alla fede, vien finalmente a conchiudere le verità più importanti, e quelle che sempre furono designate quali prolegomeni necessari alla religione soprannaturale. Come non accettare, o almeno come non riverire o non guardar con favore una tale filosofia? Sarebbe da parte nostra una sciocca tenacia dei vetusti pregiudizi; sarebbe anche un delitto non prevalersi di un'arma così adatta ai presenti bisogni e così efficace per vincere gli avversari, non fittizi o morti, ma veri e vivi, coi quali dobbiam trattare. Se ci ostiniamo a pensare con gli Scolastici, inutilmente supereremo Parmenide e Melisso, Avicenna ed Averroe — i quali, se è possibile, dormano in pace; — e saremo impotenti contro i vivi e desti avversari, dei quali sono ora contrastate e negate la nostra filosofia e la nostra religione. Se ci adattiamo invece alle idee kantiane, saremo forti contro la moltiforme incredulità che ora devasta le scuole e le nazioni. L'anima immortale e Dio, la legge e la virtù: ecco dove Kant è arrivato, ecco le grandi verità che con lui potremo imporre a' suoi molti ammiratori e a quelli che in tutto o in parte si professano suoi seguaci.

Per queste e per altre ragioni, il kantismo da qualche tempo trae a se l'attenzione di non pochi scrittori cattolici: anzi è accolto con favore e con ammirazione. La quale per molti è giunta a tale da porre Emm. Kant ad una medesima altezza di autorità con Platone e Aristotele, con sant'Agostino e san Tommaso. Davvero è troppo, e molto al di là dalla giusta misura. Sappiamo che ci vuole ingegno per concepire errori nuovi e originali, e per dar loro qualche apparenza di verità, e per comporre un vasto sistema, ove le contraddizioni sieno dissimulate (l'errore senza contradirsi non fa lunga strada) e le parti paiano sostenersi a vicenda, come una ben contesta travatura, e per diventare a molti oggetto di ricerca e di studio, e per influire infine, come fece il kantismo, su molte parti dello scibile umano. Ci guarderemo adunque dal negare che il Kant fosse dotato di un potente intelletto, e che sarebbe stato capace di far cose forse ammirabili, se avesse seguito la retta via. Ma di qui al porlo fra i sommi, onde siasi onorata l'umanità, ci corre un gran tratto. Temiamo che la stima dell'autore apra una gran porta all'ammirazione per l'opera di lui, la quale deve essere detestata, e disponga l'anima ad accogliere almeno in parte i suoi insegnamenti; poichè ci sembra impossibile ammirare una dottrina, di cui appieno sia sentita la totale assurdità. Ora noi pretendiamo che nell'opera del filosofo di Koenigsberg dal principio alla fine ogni cosa è impossibile e il disegno n'è contradittorio, che tutto è rovina, e che qualunque asserzione si ammetta di quello che egli da sè novamente disse, ne rimane tronco alla radice l'ordine conoscitivo, ed è veleno, del quale basta una goccia per dar la morte alla scienza e all'intelletto. Procureremo di dimostrarlo.

Intanto osserviamo come dalla filosofia quel veleno si è diffuso a guastare il giudizio nell'altre scienze, se pure v'è scienza umana, che in tutto distinguasi dalla filosofia. Da qualche tempo va serpeggiando l'idea che l'apologetica, ossia quello studio che dee preparare l'anima a ricever la fede, — sciogliendo le difficoltà che alla religione oppongono gl'increduli, stabilendo le verità prolegomene all'accettazione della divina parola, persuadendo l'uomo che v'è ragione di credere, anzi v'è obbligo di accettar come soprannaturale e rivelata la dottrina cattolica, — debba tutto rinnovarsi e stabilire su altri fondamenti da quelli che gli antichi ponevano. Gli antichi, si dice, hanno creduto di provar davvero, oh poveretti! che Dio è, che Gesù Cristo è Dio, che la Chiesa è divina. Fu illusione portata dal metodo sillogistico e dalla fiducia posta nel ragionamento o in una vera proporzione di somiglianza tra l'ordine obbiettivo e l'ideale. Kant ci ha fatti accorti dell'inganno, e le menti non sono più disposte ad accettar come veri quei vani giochi d'ingegno, i quali come il grande filosofo disse bene, tutti appoggiati alla punta d'un capello, non poterono mai esercitare veruna influenza sulla comune persuasione degli uomini. Così tra molti si va ragionando, in Francia, anche tra persone illustri per dottrina, in Italia tra giovani vogliosi di mostrar che non ignorano le nuove sentenze e i metodi più recenti. Dunque, si attenda bene, da san Giustino che s'immaginava di mostrare efficacemente la corrispondenza tra i libri profetici dei giudei e la vita di Gesù Nazareno (Apol. I, n. 29 e segg.) fino a quasi tutto il secolo XIX, i dottori della Chiesa fecero opera vana, — o soltanto utile per muovere chi s'illudeva insieme con essi, — nè conchiusero efficacemente e assolutamente nessuna verità, nè son riusciti a portare un valido argomento per convincere un severo ragionatore o che Dio esiste, o che Gesù Cristo è Dio, e che è necessario esser cattolici per salvarsi. Ora con la teoria dell'immanenza ricominceremo l'opera più felicemente. Per conchiuder che cosa? Che assolutamente è vera la nostra religione? Oh sarebbe pretensione eccessiva! Rimanendo in noi, che si può sapere di ciò che è fuori di noi? Basterà avere con che indurre gli uomini del nostro secolo a ricevere la fede cristiana, come la più conforme al modo umano ora accettato di pensare e di sentire. Per coloro che questo tempo chiameranno antico, converrà ugualmente tornar da capo, e chi vivrà ci penserà.
Forse la teologia resta incolume dall'infezione di cotesto veleno? In nessuna maniera. Come n'ha patito la previa dimostrazione delle verità che ad essa conducono, così essa medesima resta contaminata. Viene a soffrire di quella mutabilità, che necessariamente accompagna un sistema, il quale attribuisce importanza eccessiva alla cultura del tempo, alla disposizione del soggetto, all'inclinazione dell'anima, o nativa, o volontariamente indotta. Queste cose son mutevoli, a seconda di molte circostanze, poste negli uomini e nelle cose. Ne viene che la stessa dottrina, o rivelata o connessa con la rivelazione, segue le variazioni delle umane vicende. Non sono forse molti a' dì nostri che sorgono a dire, gran parte dell'antica teologia — anche in ciò che da tutti comunemente si teneva, anche nelle asserzioni riputate certissime — essere stato un adattamento della fede al sistema peripatetico, e doversi abbandonare come opinione antiquata, per conformarsi ai nuovi pe[nsi]eri? Se così non fosse, come mai, sembra a loro, il Concilio di Vienna nel 1311 avrebbe potuto definire che l'anima umana è vera, per sè ed essenziale forma del corpo? Evidentemente è questa una impressione della filosofia scolastica. La Scolastica più non corre tra noi. Dunque quella definizione è da prendere in altro modo che i Padri del Concilio allora non intendessero. Similmente i Dottori del Tridentino pensavano con le idee, parlavano con il linguaggio della Scuola antica, ond'è che per grazia santificante e per virtù infuse e per mozione della volontà, per materia e forma dei sacramenti, per le specie eucaristiche e per tutto, avevano altri concetti da quelli che or ci formiamo. Chi pretenderà che la predestinazione, di cui disputava il Molina nel secolo XVI, fosse la medesima di cui trattava l'Aquinate nel secolo XIII, o sant'Agostino nel V, e che prima nominava l'Apostolo? Così essi, ed è sembrato a qualcuno che questi argomenti, intorno ai quali si sono affaticati i teologi dei secoli cristiani, e sublimi Dottori e Santi gloriosi, non sieno altro che detriti o incrostazioni del dogma, e molto meglio sarebbe, se affatto se ne liberasse la dottrina cattolica.
Ma con tali idee siamo sempre al principio, nè resta modo di progredir nella scienza. Sarà cortese opinione che avremo di noi stessi il credere d'esser più vicini al vero, che non fossero gli antichi; ma che fondamento ne abbiamo? Muteremo ancora col tempo e con le impressioni recate dai nuovi avvenimenti: perchè muteremo in meglio? Ma senza dubbio è questa una grande sventura, che mai non sieno stabiliti gl'immobili principii. Se il senso delle espressioni cambia, se altri ed altri sono gl'intendimenti, che abbiamo d'immutabile? Gl'insegnamenti dei Padri e le laboriose ricerche dei Dottori che si sono succeduti nei secoli, non valsero dunque a fermar nella Chiesa una certa dottrina: era un modo di rappresentarsi le cose soprannaturali secondo il bisogno dei tempi e la preparazione delle menti, non era un'affermazione sicura di alcuna realtà. Quindi il vago e l'indeterminato in tutto ciò che si dice e si pensa; quindi l'aver ragione o torto, solo relativamente a chi ascolta, non assolutamente prendendo la norma dalla oggettiva realtà; quindi l'andare innanzi, non aggiungendo nuove cognizioni alle antiche, sibbene correggendo queste come erronee, per dar posto ad altre, che oggi son buone, domani saranno antiquate. Saremo banderuole che si voltano ad ogni vento, che or vien quinci ed or vien quindi, e muta nome perche muta lato. Saremo come quegli stolti, i quali andavan nè sapevan dove. Saremo come quelli che sempre imparano e mai non sanno la verità: semper discentes et nunquam ad scientiam veritatis pervenientes (II Tim. III, 7).
Quando il Bossuet credeva d'argomentare così efficacemente contro il protestantesimo, dicendo: tu changes; donc tu es l'erreur; quando per la magnifica sua opera Les variations riceveva tanti plausi dai cattolici di tutta l'Europa; non sospettava che nel clero cattolico d'Europa e della sua Francia sarebbe sorto più tardi chi avesse trovato eccezioni da opporre alla forza dell'inespugnabile entimema. Non sapeva che gli avrebbero rimproverato di non aver saputo distinguere tra il cambiare che è sviluppo e quello ch'è alterazione. Oh chi penserà che il gran Vescovo di Meaux a cui nulla mancò nell'erudizione degli antichi Padri, abbia al tutto dimenticato l'aureo scritto di san Vincenzo Lerinese, il quale riguardava come nemico dell'umanità chi negasse ogni nuovo acquisto di verità, ogni maggiore esattezza di termini, ogni nuova maniera di concepir cose antiche e di dirle, non nova sed nove? Grande ingiuria faremmo al Bossuet, e senza nessun appiglio per giudicar così, e contrariamente al merito conosciuto. Ma nemmeno c'era bisogno che, usando d'una  frase chiarissima, l'autore si fermasse ad allontanarne i sensi che il medesimo contesto escludeva, sì dalla sua mente, sì dall'intendimento di chiunque l'udisse. A nessuno viene il pensiero che sia un cambiare l'ampiamento e la maggior certezza delle prime cognizioni. Non cambia un novizio geometra che dice esser la somma degli angoli in un triangolo uguale a due retti, e poscia impara esser quello un caso particolare della relazione che unisce la somma degli angoli al numero dei lati in qualunque poligono. Cambia invece colui che da prima crede quel teorema assolutamente vero; poi viene nell'opinione che le geometrie non euclidiane abbiano ragione di dubitarne. Questo e non altro è il cambiamento perpetuo che il Bossuet mise in mostra nelle dottrine protestanti; questo si presenta al pensiero di ognuno che sente dire: tu changes; donc tu es l'erreur. Questo è il cambiamento impossibile e nei dogmi di fede e in tutta la dottrina cattolica. Che gli avversari increduli, bestemmiando quello che ignorano, vengano a rimproverarci d'aver cambiato pel magnifico svolgimento che si fece nei secoli delle verità religiose prima implicite poi esplicite, prima enunciate con qualche voce che poteva essere oscura, poi con chiarezza; prima, in qualche punto secondario incerte, poi certissime, non è meraviglia: e se coloro volessero udirci, forse avrebbero mente da capir la risposta. Ma è dolorosa meraviglia a vedere che il kantismo induca in alcuni dei nostri il sospetto che un tutt'altro cambiamento dal sì al no tra noi come cattolici e nella nostra fede possa mai avverarsi.

Come sia indebolita l'apologetica.

E poichè la comune tendenza degli animi ora ci porta al naturalismo, procurando di allontanare e diminuire quanto è possibile tutto ciò che supera le forze del mondo e la ragione dell'uomo, ecco lo studio di parecchi nuovi apologeti cristiani rivolto a umanizzare i dogmi, a considerare nella Sacra Scrittura quasi esclusivamente l'opera umana dello scrittore, ad ammollire quanto si può, e talora più che non si possa, il senso dei testi ispirati, specialmente se toccano dei castighi eterni, a far più rari o a togliere del tutto i miracoli, insomma a cessar dapertutto lo stupore del sovrumano. Gli antichi, e tra essi i Dottori e i Santi, e tutti nella Chiesa hanno pensato altrimenti? Dicono che li portava a questo l'indole semplice e religiosa unita all'ignoranza delle naturali cagioni; la poca critica e la filosofia d'Aristotele li tenevano securi nelle loro illusioni. Or si pretende che l'ingegno sia più svegliato e più accorto; si spiegano ora naturalmente tante cose che facevano ai vecchi inarcar le ciglia e gridare al miracolo; ora le leggende sono passate e sfumate. Dunque la teologia deve acconciarsi ai nuovi tempi, e anche in questa parte di veder sì facilmente il soprannaturale, accettare la più viva luce recata dai moderni studi. Diranno che l'inspirazione dei sacri scrittori consiste soltanto nell'aver Dio voluto che scrivessero quello che scrissero; scrissero naturalissimamente, secondo quel che sapevano e trovavano. Perchè dovremo credere che ci volesse proprio un miracolo per guarire quei paralitici, ove peraltro il Vangelo sembra accennare a miracolo vero? Era la comune opinione, che a' di nostri non più corre. È proprio da credere che fossero ossessioni diaboliche tutte quelle che il Vangelo nomina in quel modo? Sembrava di vedere il diavolo nelle stranezze d'un epilettico, e Gesù s'adattava nel parlare alla maniera comune, e il Vangelo ritenne lo stesso stile: ma in realtà non erano altro che convulsioni nervose, che pel ribrezzo faceano pensare al demonio. Perchè pareva fuor di natura tutto ciò che veniva da una cagione ignorata. Ora noi da una parte conosciamo assai meglio il poter naturale, dall'altra riflettiamo di più e sappiamo che molte forze corporee ci rimangono secrete: per ambedue i casi, il magnetismo e l'ipnotismo e occulte irradiazioni spiegano la levitazione e la comunicazione dei pensieri e lo spiritismo e ogni cosa.
Così essi, e con tale adattamento delle verità speculative dovranno pure adattarsi e naturalizzarsi le pratiche. Le une e le altre voleva render più umane quello che fu chiamato americanismo, e trasse le simpatie di molti, e molti ancora non sanno perchè la S. Sede siasi affrettata a riprovarlo. Pretendeva appunto che alcuni antichi insegnamenti devono modificarsi secondo le nuove idee; che alcuni usi della Chiesa sono da temperarsi secondo i nuovi bisogni, specialmente in ciò che tocca i voti religiosi, meno conformi all'amore d'indipendenza ora svolto negli animi; che alcune virtù dell'antica ascetica, devozione, modestia, mortificazione, non sono d'avere in così gran pregio, come una volta si avevano, perchè i tempi richiedono maggiore attività e libertà d'azione e scioltezza di spirito, a cui troppa pazienza e umiltà e dipendenza tolgono le forze; che sopratutto la personale iniziativa d'ognuno è da preferire agli eccessivi legami una volta imposti e lo Spirito Santo dirige immediatamente ciascun'anima buona, sì nella tendenza all'interna perfezione, sì nelle opere esteriori, senza che vi sia bisogno di consiglio e guida de' superiori. Tutto questo vuol dire che un po' di protestantesimo, senza gerarchia, senza pastoie di voti, senza fervori ascetici, con libero esame e con libera azione d'ognuno, deve temperare i rigori dei vecchi Santi e dar l'andatura più disinvolta alla Chiesa cattolica. Perchè no? Le idee d'un tempo convenivano alla religione ancor fanciulla e inesperta nel mondo; altro modo conviene dopo l'esperienza dei secoli agli animi più maturi. La civiltà progredita importa che tutti vivano con più agiatezza: dunque le penitenze d'altri tempi non sono più da consigliare a nessuno, nè tanta frugalità o rigidezza. L'immanenza kantiana, per cui la verità, piuttosto che trascendere con uscir dell'uomo e regolarsi secondo l'oggetto, è misurata dall'uomo stesso e ne va seguendo le varie disposizioni, spiega ogni cosa. E noteremo di volo, che fra i medesimi ammiratori del kantismo e dell'americanismo, s'è insinuata l'idea — e l'hanno espressa, copertamente sì, per un po' di rossore, ma più del bisogno per farsi capire — che forse presto sarà cosa vieta, come non più conforme all'indole dei tempi, il celibato del clero.
Similmente, poichè il socialismo occupa tanto le menti, che anche parecchi de' suoi contradditori ne prendono qualche tintura; perchè non s'avrà da ammettere che convenga cedere in alcuna parte, e, a mo' d'esempio riconoscere che la proprietà dei beni stabili non è un diritto naturale dell'uomo, ma concesso dalla società, la quale potrà in pari modo ritoglierlo? Perchè non ammettere che un'uguale distribuzione di beni renderà più quieto e felice il vivere cittadino, e saranno tolte due piaghe, la miseria e l'odio degli uni, il lusso e la superbia degli altri? Perchè non dire che la limosina è ingiuriosa, ma che il pane necessario all'onesto mantenimento a tutti è dovuto, e però si dee dare, non a titolo di carità, sì di giustizia ? — È vero che di limosina hanno sempre parlato i Dottori della Chiesa, e l'hanno tanto esaltata come feconda di benedizione le sacre Scritture; ma fu un parlare conveniente a quei tempi e alle condizioni del mondo di allora, adesso tutto cambiate. È vero che si fa gran plauso all'enciclica Rerum novarum, ove è assegnata l'intrinseca e immutabile ragione del diritto di proprietà; ma si suole attendere in quel sapientissimo documento solo ad un periodo che piace, trascurando il resto; poi anche negli anni posteriori alla pubblicazione di quell'enciclica gli studi sociali poterono progredire, e nuova luce s'accrebbe.
Insomma Emm. Kant ha distrutto la pretensione che la natura delle cose ci sia manifesta in sè stessa e sia più costante che la positiva esperienza non provi: di verità necessarie ed eterne, che solo la mente, trascendendo l'esperienza, può formulare, non possiamo esser certi. Particolarmente egli ha tolto ogni legge superiore all'uomo, e posta per unica ragione la dignità della persona, per unica norma ciò che fatto o non fatto da tutti tornerebbe a bene o a male dell'umanità. Così finalmente ogni morale necessità dipende dagli uomini, e può con essi mutare. Che se altri voglia sorgere a considerazioni divine, c'insegna il Kant non essere la religione altro che un sentimento; un istinto che porta più o meno alte le nature più ingenue e più immaginose; puro misticismo che risulta da un certo bisogno infinito o indeterminato.
E lo ammirano e in parte lo seguono.
Chi disse mai che il Kant, facendo la critica della ragione, ne svelò la debolezza, rese così più parvente la necessità della fede? Che il Kant col suo sistema abbia mostrato soggetta ad errore la povera umana ragione, facendone egli stesso un pessimo uso, l'ammettiamo; onde segue, come già avverte l'Angelico nei primi capitoli della sua opera Contra gentes, esservi gran bisogno che Dio ci aiuti, insegnandoci anche la verità che assolutamente l'uomo dovrebbe trovar da sè. Ma guai se il Kant avesse potuto efficacemente conchiudere che nell'umana natura la ragione è così sproporzionata ad attingere ogni verità oggettiva, come porta il sistema da lui proposto. Come il coltello anatomico distrugge l'organismo che analizza; così la critica kantiana della ragione ne fu omicida e distruggitrice. Conchiuse infatti ch'essa va sognando raccolta e stretta in se stessa, senza mai esser certa di ciò che esiste fuori dell'uomo. È per lui dunque una illusione il comune giudizio che il mondo esiste, come noi lo vediamo. E credette qualche anima troppo buona, se non era segretamente maligna, che quindi venisse grande onore alla fede, la quale par rimanere unica norma di indubitata verità. Signori, sclamò dal pulpito un oratore, Kant istituì la critica della ragione; l'ha riconosciuta impotente; e così ha mostrato la necessità della fede.
A che molti plaudirono. Pessimamente. Infatti, con quale facoltà pote Emm. Kant giudicar la ragione? Con la ragione stessa. Ma se è impotente, che vale il suo giudizio? Poi, come sarà possibile la fede? Questa suppone l'intelletto capace del vero, come la grazia suppone la natura buona e aspirante a felicità. Inoltre, qual maniera resterebbe possibile d'arrivare alla fede, constatando il fatto della rivelazione, e l'obbligo di accettarla, se l'esistenza stessa di Dio non è certa all'intelletto speculativo, se ignoriamo la proporzione tra la cagione e gli effetti, se non è vera virtù quella che abbia verun principio fuori dello stesso dovere, che la sola dignità personale c'impone? Via da noi cotesta chimera di filosofia, che con la promessa di liberarci dalle istintive illusioni, ci toglie ogni facoltà d'accertare il vero; via cotesto fantasma di critica rigorosa, ond'è soffocata la ragione e resa impossibile la fede.
E s'induce inevitabilmente universale scetticismo. Il Kant non volle esser detto nè scettico nè idealista: ma come non chiamar fuoco un gaz incandescente? Di fatto, se non sappiamo qual corrispondenza esista tra il nostro dire e l'oggetto a cui ci sembra di riferirci, convien disperare di saper nulla. Se dopo un necessario convincimento, sospettiamo che questo sia portato dall'animo, non dall'evidenza obbiettiva, è vano ogni sforzo di ragionare. Qui la filosofia kantiana si perde in un abisso. Ed essa nella sua vasta complicazione, nell'incertezza del pensiero, sì perchè l'autore cambiò dall'una all'altra edizione della sua opera principale, sì perchè nella lingua e nell'esposizione e nell'ordine egli è lontano assai dalla chiarezza desiderata, darà luogo a dispute infinite su quello che di fatto il maestro ebbe in mente o volle dire.
Ma importa a noi grandemente di osservare, e preghiamo il lettore di ricordare, che del personale pensiero di Emm. Kant qui non ci curiamo, nè facciamo in modo alcuno un'opera critica. Agli ammiratori di quel filosofo o sofista noi lasciamo la cura, e l'altra ancora, se v'è luogo, di sostenere ch'egli non ha insegnato gli errori da noi o da altri a lui attribuiti. A noi dispiace di veder serpeggiare e largamente diffondersi le ree conseguenze del kantismo; combattiamo le idee che per comune opinione portano quel nome: lo portano a diritto o a torto, non ce ne cale. Lasciando ogni storica discussione, vogliamo opporci agli effetti dannosi, onde molti fra i cattolici si risentono; e sono: grande mancanza di principi assoluti, totale sfiducia nella forza della ragione, vaghezza eccessiva di novità, e sperar meglio da ogni nuova opinione, e mettere nuovamente in dubbio ogni più certa dottrina e dopo qualunque evidentissimo argomento, tornar sempre alla desolata riflessione: Noi pensiamo così; ma chi sa mai come sia la cosa in se stessa?

Eccellenza della Scolastica.

Sono appunto le opposte qualità di principî immobili, di ragionamento sicuro, di asserzioni determinate per sempre — e questo non impedisce che altre ed altre verità debbansi aggiungere, quasi come ai primi teoremi geometrici tengono dietro i secondi, che dànno vita perpetua alla Scolastica, ed alla scienza dell'Angelico in particolare, e la fanno degna di appartenere alla Chiesa, come vera figlia del suo insegnamento immutabile, e ben dotata di quella certezza, con la quale a noi conviene procedere. Sapremo certamente distinguere, secondo il comune consenso dei teologi, quella che è necessaria dottrina, e quella che rimane libera opinione; ma penseremo con riverenza, che per mezzo della Scuola s'è raccolta e ordinatamente disposta la scienza stessa della Chiesa, che delle espressioni correnti fra i teologi la Chiesa si valse nelle sue definizioni, e alcune ne consacrò con legge inviolabile. Tali concetti, espressi con tali voci, debbono ritenersi in tutti i secoli ugualmente, e rimarranno le parole e rimarrà il loro senso, come fu inteso nel definire. Che l'evidente ragione e l'autorità del Concilio Vaticano e del Vicario di Cristo ci avvisano concordemente di abbominare la stranezza del Günther, per cui la significazione dei termini da prima usati nei dogmi deve adattarsi alla varia intelligenza che i nuovi studi indurranno. In verità questo sarebbe circumferri omni vento doctrinae; sarebbe un soggettare la divina parola alla debolezza e agl'inganni dell'umano intelletto.
Poi, credendo che un raggio della luce di Dio sia segno impresso nell'anima nostra, accetteremo per vero quello che la ragione efficacemente dimostra, come connesso con la fede divina o coi principi evidenti. Quindi avremo un corpo di scienza teologica e filosofica non soggetto al mutar delle sentenze nelle scuole profane, ove non è fede e non è certezza di verità metafisica. E a questo ci conforterà il vedere che la suprema autorità della Chiesa, ripetutamente anche a' dì nostri commendò e inculcò lo studio antico, non curando il disprezzo degli avversari e le timidità d'alcune anime fiacche.  
Certi diciamo i sommi capi della dottrina scolastica. Col grande Aquinate teniamo per assolutamente vero che la mutabilità delle cose finite dimostra la necessità d'un primo immobile, motore dell'universo; che la diminuita ma varia perfezione delle cose suppone un primo illimitato e per se costituito nell'assoluta pienezza dell'essere: che l'ordine della natura manifesta un intelletto distinto dal mondo corporeo, infallibile ordinatore d'ogni cosa. Con lui siamo certi che l'essenza corporea non è semplice, ma consta di un doppio principio, potenziale e attuale; e che la composizione di potenza e d'atto è ragione della mutabilità manifesta nella creatura, di tutte le passioni alle quali vanno soggette le sostanze materiali. Teniamo certamente con lui che l'anima è atto sostanziale dell'organismo vivente, e che una perfetta unità di sostanza avverasi pur nell'uomo, ove il principio di vita è spirituale. È vero ed è certo che noi dobbiamo trarre dai sensi e dai fantasmi le specie intelligibili, nè quaggiù possiamo esercitar l'intelletto senza il concorso della fantasia; che alla ragione tien dietro come proprietà necessaria la libertà; che l'anima nostra naturalmente è incorruttibile e però immortale per l'intrinseca indipendenza nell'operare e nell'essere della materia. Secondo queste indubitate asserzioni, sorge un edificio intellettuale, che nè le mutate ipotesi, nè le nuove esperienze varranno mai ad abbattere.
Non importa che molti neghino d'averne evidenza. Troppo poco sapremmo se dovessimo limitarci a quello che tutti ammettono. Nè il comune consenso vien meno per solo difetto di luce nella verità oggettiva, sì per molte cagioni che rendono indisposti i soggetti. Tali sono le prevenzioni contrarie e la mancanza d'attenzione e la scarsezza d'ingegno, e l'affetto che l'intelletto lega, e l'uso di seguire gli altri fra i quali si vive, e il non volere essere trascinati a conseguenze temute, e la particolare inclinazione a studi più materialmente determinati nei fatti storici o nei fenomeni sensibili, apprendendo quasi avvolto di nebbia tutto ciò che si presenta come ragione astratta. Eppure senza queste ragioni, le quali certo debbono applicarsi a ciò che l'esperienza ci mette innanzi e assicura, non v'è filosofia nè scienza verace. Non pretenderemo adunque di aver consenzienti alle ben provate asserzioni tutti coloro ai quali proponiamo i nostri argomenti; chè il doverli aspettar tutti renderebbe lunghissimo il viaggio, anzi ci fermerebbe al punto di partenza, o certo dopo i primi passi. Che se la stima crescente o del positivismo o dell'idealismo kantiano inclina gli animi a disprezzare la logica e il fermo sì dell'antica sapienza cristiana — tenue scintilla di quel Verbo che è infinito; non est in illo EST et NON, sed EST in illo fuit (II Cor. I, 19); — non faremo opera buona, assecondando l'ingiusto giudicio e adattandoci alla men felice tendenza, sì piuttosto con lo sforzarci di richiamar le menti all'immortale verità.
Ma l'agnosticismo, radice avvelenata degli errori nei quali sono caduti molti pure, che prima eran cattolici — dopo no, che con lo scetticismo non si compone la fede, — ha poi figliato altri mostri simili a sè, se pur non vuolsi dire che erano lui stesso, vestito in maniera alquanto diversa, e presentatosi con altro nome. E nel nuovo aspetto e con il nome rinnovato, potè anche dissimulare la sua bruttezza, coprire la sua empietà, sì da illudere molti i quali pur volevano, con quel veleno nel sangue, persistere nel professarsi cattolici. Venne prima dal criticismo kantiano, pel quale i pensieri sono forme soggettive, l'immanentismo, variamente inteso da molti; i quali vogliono trovar nel soggetto umano la ragione o adeguata o quasi di tutto ciò che l'uomo pensa, e di tutto ciò che in esso si avvera, e di tutte le sue aspirazioni. Chi non sente come svanisca così il soprannaturale? Ed è manifesta la connessione di questo con il soggettivismo kantiano, e più accuratamente l'esporremo a suo luogo.
Poi, come parve ad Emm. Kant di potere e di dover mostrare nell'ordine morale un nuovo e miglior fondamento delle verità superiori in che par convenire il genere umano; così è sembrato a molti fra i recenti scrittori che sia da respingere come quasi inutile, o certo sia da deprimere in basso, l'intelletto, sempre incerto di quello che pensa o che crede di vedere; ma sia da porre in alto, quale principale facoltà e qual sola dominatrice della vita umana, anche della vita del pensiero e di ogni dottrina, la volontà. Chi bene agisce e ben vuole, conseguentemente pensa bene, e volentieri sorge a sentimenti sublimi, e accetta Iddio e la religione e ogni legge di onestà. Chi male sente e mal vive, non troverà mai argomenti efficaci: certo quelli del medio evo sono superati e inutili da lungo tempo. Ma nè altri migliori sa suggerire il solo intelletto. Ne va libera e non ne ha bisogno la volontà; onde acquista indipendenza da ogni norma esteriore e rimane sola norma a se stesso l'uomo superbo. Ma senza prova e senza freddi ragionamenti, il cuor puro e l'anima umile vede e sente Iddio.
Oh bene! oh bello! hanno gridato alcune anime semplici. Se pur non erano maligne, e non tendevano con questo a distruggere ogni necessità obiettiva di ammettere Iddio, ogni positiva dimostrazione della verità della rivelazione, ogni obbligazione di credere. Questo di fatto si viene ad asserire con quella perfida sembianza di umile pietà; a far l'uomo indipendente, e a dargli diritto di pensare e di agire come gli sembra, togliendosi ogni norma obiettiva, con la quale debba regolare il suo giudizio. Di nuovo, la rivelazione e ogni fede diventa un sogno soggettivo, secondo l'indole e la cultura di ciascuno, anzi come piace alla sua più o meno retta volontà. Ma perchè dicemmo retta? Se non riceve dall'intelletto la norma, essa è legge a se stessa, e siamo in una indipendenza, che non è più sovranità ma follia, e perciò nè pure a Dio la possiamo attribuire. — Oh! dicono i moderni ammiratori di Kant, noi questo non vogliamo! — Lo sappiamo bene, chi mai vuol essere assurdo? Il male è che si può essere, senza volerlo.
Di queste cose sommariamente accennate renderemo nei seguenti capitoli più accurata ragione.



... è gran danno che gli errori kantisti — prendendo aspetto di qualche onestà — non restino confinati in quelle aule, e omai allettino in qualche maniera anche le menti di alcuni cattolici. Perocchè sempre in molti di noi c'è la smania di mostrarsi condiscendenti a quella che dicesi scienza moderna, e di ridurre al minimo la diversità fra le nostre dottrine e le opinioni correnti; sperando, col cedere in qualche punto, col dissimular qualunque verità meno accetta, di rendere più breve e più facile il cammino a quelli che volessero tornare dei nostri, e volendo dar prova di mente larga (che abbraccia con disinvoltura gli errori), e di sapere e di ammirar tutto ciò che appartiene alle nuove dottrine.
Basterà avere con che indurre gli uomini del nostro secolo a ricevere la fede cristiana, come la più conforme al modo umano ora accettato di pensare e di sentire.
 
Kant... ha tolto ogni legge superiore all'uomo, e posta per unica ragione la dignità della persona, per unica norma ciò che fatto o non fatto da tutti tornerebbe a bene o a male dell'umanità.
Cfr. Eph. 4, 14:
«(...) ut jam non simus parvuli fluctuantes, et circumferamur omni vento doctrinae in nequitia hominum, in astutia ad circumventionem erroris.»
«Onde non siamo più fanciulli vacillanti, e portati qua e là da ogni vento di dottrina pei raggiri degli uomini, per le astuzie onde seduce l'errore.»  (Traduz. di Mons. A. Martini, Il Nuovo Testamento, Torino 1851.)
In nota Mons. Antonio Martini così spiega il versetto: «14. Onde non siamo più fanciulli ecc. Viene a spiegare più chiaramente, quale sia la robustezza, e la virile perfetta età dell'uomo cristiano, portando la comparazione di coloro, i quali non sono ancor giunti a quello stato. Tutto questo si fa, dice egli, affinchè noi non siamo più come piccoli pargoletti, che mal posano su' loro piedi, e ad ogni piccolo inciampo vacillano, e stanno per cadere: perchè non siamo più sommossi, e trasportati or in una, ora in altra parte dalle diverse dottrine contrarie alla fede, or dei Pagani filosofanti, or dei Giudei, or degli Eretici, i quali co' raggiri, e con le astuzie, delle quali si serve l'errore per insinuarsi negli animi semplici, ci allontanino dalla retta via della fede.»
[CONTINUA]