lunedì 10 giugno 2013

Gloria e pericoli del Vaticano

Fabre-Luce

Pubblichiamo un capitolo dall’opera “Journal de l’Europe, 1946-1947″ di Alfred Fabre-Luce, giornalista e scrittore francese del secolo scorso (+ 1983). Il volume raccoglie la cronaca dettagliata e l’interpretazione degli scenari geopolitici e sociali dell’immediato secondo dopoguerra, tracciati sapientemente dalla penna del grande scrittore anticonformista d’oltralpe. Questo brano del 1947, intitolato “Gloria e pericoli del Vaticano”, al pari del libro da cui è tratto, è totalmente inedito in Italia, in esclusiva per voi su Radio Spada, tradotto in Italiano da Franciscus Pentagrammuli.
 
In questa sobria Europa del dopoguerra, in cui l’abito grigio viene scambiato per virtuoso, il Vaticano dà ancora una strana impressione di fasto e di splendore. Mano a mano che sale gli scaloni, attraversa i corridoi, passa di salone in salone, il visitatore crede di camminare da un secolo all’altro. Come dal fondo del Medioevo, gli alabardieri fanno risuonare la loro arma al suo passaggio: guerrieri devoti, che volentieri piegano il ginocchio fino a terra. Egli vede i caschi di opliti greci e i berretti di pelo da granatieri napoleonici. Nella sala Clementina, le Guardie Svizzere testimoniano, con le loro divise a larghe bande colorate, come appena nate dal pennello di Michelangelo, la gioia di vivere e il sensuale ardore del Rinascimento. Quindi una Corte ottocentesca, dove i funzionari dagli abiti gallonati, i colletti ricamati a lauro, il petto costellato di decorazioni pacifiche, sembrano non avere altra occupazione che attendere, decorare i saloni dai tendaggi di damasco, aggiungere le loro proprie dorature a quelle dei mobili. Può darsi che si tengano pronti per qualche disordine imprevisto, che verrebbe a prodursi nel Palazzo…
Ma non si tratta di una scena d’operetta. Questo approcciarsi ha il valore di un’iniziazione che “disattualizza” l’intruso. È arrivato tutto ripieno delle preoccupazioni del giorno, delle passioni del suo paese. Si proponeva forse d’incontrarsi con il Pontefice o i suoi assistenti. Questo passaggio nelle Stanze del Tempo lo sottrae al suo ritmo trepidante. Lo Stato di cui egli è cittadino gli ordinava di considerare come un valore assoluto in ogni luogo una moda ideologica. Sotto queste volte e dentro questi saloni, egli comprende che ogni politica particolare non è che una forma relativa e passeggera. La Chiesa vi si adatta; essa gioca qui un gioco, lì un altro. Essa annoda e scioglie i fili di un’azione infinitamente diversificata, con il virtuosismo che le dona una lunga ed ininterrotta tradizione diplomatica. La sua attitudine può sembrar contraddittoria, la sua sottigliezza può esser interpretata quale machiavellismo. In realtà, essa s’ispira ad una profonda conoscenza della complessità del mondo, ad un intimo senso della durata, ed alla certezza che solo i fini trascendenti meritano una fedeltà inalterabile…
C’è, in questo minuscolo Stato, una ferrovia ed una radio e, persino, nei giorni di affluenza, un bar nella sagrestia di San Pietro. Semplici dettagli, che non bastano ad imprimere nel tempo i momenti trascorsi qui. Ci si vive come in un sogno, dove le figure di più epoche si incontrano maestosamente. Le spade escono dal fodero, si incrociano, scintillano, vengono scambiati i saluti: è il cambio della Guardia. Una cappa violetta, gonfiata d’aria grazie allo slancio dell’incedere, fa passare un’onda di rispetto nell’aria morta dei vasti saloni. Vedendola fluttuare, si pensa alle grandi cerimonie di San Pietro, alle vesti dei Cardinali che percorrono le scale della basilica, alla veste papale, che occupa tutta la vasta Sedia, a tutti quegli ampi indumenti ecclesiastici nei quali il corpo mortale sparisce… Lungo questi saloni d’attesa, che si situano molto in alto sopra il cortile, non ci sono muri, ma solo una teoria di vetrate smerigliate od ovattate di volatili cortine bianche. Viene accolta tutta la luce, ma rifiutato tutto il paesaggio. Si é già come in pieno cielo, nella luce della Grazia.
Dieci minuti di attesa nella Sala del Trono, dove il Papa si fa presentare le lettere credenziali degli Ambasciatori. Cinque minuti ancora in una sala più intima, dove egli accoglie talvolta i Ministri o i Sovrani. Poco a poco, come in un sistema di chiuse, l’anima si eleva al livello della vicina benedizione. Infine, il visitatore viene introdotto in una Biblioteca, dove trova, accanto alla porta, il Santo Padre seduto alla sua scrivania. In questo angolo viene a convergere il più ricco sistema d’informazioni del mondo. (Che può mai sapere, dell’opinione del paese in cui è accreditato, un ambasciatore od un console, rispetto a quanto sa un vescovo, informato da tutti i curati della sua diocesi?). Non vi si vede pertanto alcun foglio di carta.
Il candore della veste papale risponde a tale purezza. Un dipinto di Tiziano, attualmente esposto alla Galleria Borghese, mostra Papa Paolo II, raggomitolato freddolosamente nella poltrona in cui riceve un nobile straniero. Questo vecchio canuto, già inclinato verso la tomba, è ricoperto di una veste di neonato che simboleggia l’eterna giovinezza della purezza e della Grazia. In lui, è questo il contrasto che ci commuove. Pio XII, invece, fa una sola cosa con il suo abito. Figlio di un funzionario del Vaticano, antico Segretario di Stato (questo caso è il primo dopo il XVI secolo), egli esercita le proprie alte funzioni con sprezzo principesco. Il bianco è il colore che conviene a quest’essere teso verso una molteplice perfezione: perfezione del pensiero, dell’azione, del comportamento, del linguaggio (dei molti linguaggi che egli parla), dell’eleganza fisica e della dignità dei gesti. Se gli capita, la notte, di prendere il suo violino o di farsi offrire un concerto, è per gustare un’eco di questa compiutezza musicale cui egli si sforza continuamente di attendere. Questa tensione lo sfianca e talvolta lo salva. Giovane, lo si giudicò, per un momento, troppo fragile per intraprendere la carriera ecclesiastica. Oggi, malgrado una continua iperattività, egli non mostra alcun segno di debolezza. È uno di quegli uomini che sarebbero forse già morti se non si fossero dediti ad una causa che li supera. Si crede di assistere ad una esistenza puramente spirituale. L’uomo che vi parla non esiste che per donarvi la salvezza.
A Palazzo Venezia, Mussolini aveva stabilito il suo tavolo di lavoro in fondo ad una vasta galleria, dove delle colonnate erano dipinte a trompe-l’oeil. Durante un lungo minuto, egli osservava l’appressarsi del visitatore sulle lastre di marmo figurato, spiandolo a proprio piacere, e lo coglieva infine paralizzato dalla timidezza, come un insetto colpito da una freccia nel proprio centro nervoso. Il Santo Padre, al contrario, fa subito alzare il visitatore inginocchiato per baciare il suo zaffiro; egli si sforza di rassicurarlo, di metterlo a proprio agio, gli richiede meno rispetto, che amore. In vita mia, ho accostato molti uomini di Stato. Ciò che mi ha più colpito, è la loro leggerezza. Senza dubbio è necessario, per condurre i popoli, di poterli inviare alla morte con un tratto di penna, senza esitazione né rimorsi. L’uomo che ha sacrificato molti dei propri compatrioti per conservare un’attitudine di vantaggio, se ne vanta e riceve gli applausi delle proprie vittime. Pio XII, in un recente discorso, si faceva onore di non aver mai, durante la guerra, pronunciato di quelle parole dal bel suono, ma poco opportune, che aggravano inutilmente le sofferenze degli sconfitti. Questo Pastore non percorre la propria strada, ma quella degli altri uomini. Egli ascolta attentamente le loro voci, egli soffre con loro. Nello splendore del suo Palazzo, egli abita, col pensiero, ogni catapecchia.
Il visitatore ammesso al favore di una “udienza speciale” non raccoglie pertanto – non deve raccogliere – che i propositi affettuosi di un Padre al proprio figlio, e il richiamo alle verità generali che la Chiesa difende attraverso i secoli. Ma non gli è impedito di prolungare nella mente il colloquio, di seguire il Santo Padre fino a quelle ore della sera, quando, terminate le udienze, egli può abbandonarsi ad una meditazione che è a metà strada fra la riflessione e la preghiera. Allora, la piazza di San Pietro è immersa nella notte. Solo i grandi getti d’acqua zampillanti brillano sotto la luna e ricadono con un rumore armonioso ed intenso (che, durante la giornata, lo splendore del sole e il movimento dei pellegrini impediscono di sentire). Il Vaticano non è più che una grande massa d’ombra, dove i passi risuonano nei lunghi corridoi di pietra, dove i saloni deserti sono riempiti del vasto silenzio. Si vede brillare, tutta sola, fino ad un’ora della notte molto avanzata, la finestra illuminata del Papa. Egli è come la sentinella che veglia su questa città piena di milioni di viventi, e di decine di milioni di morti che ancora parlano attraverso i loro monumenti.
Immagino il Santo Padre, la fronte nelle mani, riposarsi infine dall’obbligata dignità delle ore di rappresentanza… Se ripassa i propri ricordi, certo è, più che per rivivere le ore di pericolo o di gloria – i rivoluzionari rossi, nel 1919, il revolver in pugno, nel suo palazzo di Monaco, la liberazione delle colombe sul Rio de la Plata, alla sua partenza da Buenos-Aires nel 1934 – per evocare le delusioni di un messaggero della Pace, impotente ad arrestare due grandi guerre, e che vede appressarsene una terza. Nel 1917, Nunzio a Monaco, Monsignor Pacelli ebbe a preparare l’infruttuosa iniziativa di pace di Benedetto XV. L’anno seguente, la guerra si concluse per l’esaurimento di uno dei due avversari. Ma subito dopo la cattiva pace del 1919 la divisione fra i Cristiani ricomparve, annunciando altri giorni oscuri per la Chiesa. Pertanto, all’inizio del 1935, al tempo della Conferenza di Stresa, quando un fronte comune franco-anglo-italiano si delineò per difendere l’Austria cattolica e tener testa alla Germania nazista, il Vaticano si sentì << nella corrente >>. Ma pochi mesi dopo, il conflitto dell’Italia con i Franco-Inglesi e la comparsa a Parigi e Madrid dei Fronti Popolari posero il Vaticano in una situazione precaria. Esso non poteva più che auspicare delle impossibili conciliazioni.
Durante la seconda guerra mondiale, l’azione di Pio XII non è stata sempre compresa. Ci si dimenticava che, prendendo troppo nettamente un partito fra i contendenti, il Santo Padre avrebbe prodotto uno scisma presso una parte dei cattolici, ed esposto gli altri ad una deportazione di massa. Mentre che, dall’una parte e dall’altra, si riducevano i destini spirituali a mere alternative militari, il Papa manteneva coscienza della diversità dei pericoli che minacciavano la Chiesa e dell’impotenza dei metodi di violenza a risolvere i problemi fondamentali. Forse, oltre a ciò, questo grande diplomatico ecclesiastico aveva, su certi punti, una visione più corretta che i diplomatici laici. Quando, nell’ottobre 1939, all’indomani della caduta di Varsavia – prima dell’invasione dell’Occidente, prima dello scoppiare della guerra russo-tedesca – Hitler sembrò esitare nel proseguire la guerra, il Papa espresse discretamente la sua speranza nella restaurazione della Pace. Alcuni gridarono allo scandalo. Sacrificò egli, dunque, la Polonia, nazione cattolica? No, egli prese al contrario il solo mezzo di salvarne l’essenziale. Da quel momento in poi, essa non ha fatto che passare da un giogo all’altro…
La guerra generale, scoppiata infatti il 10 maggio 1940 per lo scandalo (subito vigorosamente denunciato) dell’invasione del Belgio e dell’Olanda neutrali, dovette ripugnare al Papa, non solamente quale Cristiano, ma anche quale difensore delle nazioni cattoliche, che sarebbero fatalmente uscite diminuite dalla guerra. Oggi, in certi paesi rimasti fuori del conflitto, la devozione è divenuta più ardente. La Repubblica Argentina si appresta a render obbligatoria l’istruzione religiosa. In Spagna si costruiscono con fervore conventi e seminari per rispondere all’afflusso di vocazioni, e il Generale Franco, esprimendo uno slancio popolare, ha scritto al Sommo Pontefice per supplicarlo di proclamare come verità di fede l’Assunzione della Vergine Santissima. Ciò è buono, forse anche troppo – ma non è tuttavia sufficiente per compensare le devastazioni provocate altrove.
Nella nuova Assemblea delle Nazioni, è verso la Russia atea, verso l’America e l’Inghilterra protestanti, che tutti gli sguardi si rivolgono. La Guerra del 1914 aveva fatto sparire l’Austria-Ungheria cattolica. La guerra del 1939 ha bloccato dall’altro lato della cortina di ferro questa Polonia dove persino i minatori pregavano prima di scendere nelle miniere. In Occidente, i progressi del socialismo e dell’economia pianificata, rovinando poco a poco il risparmio, riducono al contempo le risorse della Chiesa, questa nobile mendicante. Si è vista nascere una forma di anticlericalismo più pericolosa che le precedenti, perché essa si accompagna ad una fede positiva. Nella stessa città di Roma, le edicole presentano volgari caricature in cui si vedono preti paffuti ingrassati della miseria del popolo e dei titoli di prima pagina che accusano Monsignor Spellman d’essere il rappresentante delle banche americane. Alcuni comunisti, vestiti con sottane, danzano balli americani per la strada, per derisione. (Il governo reagisce vietando le Memorie di Casanova – ma gli si replica denunciando una nuova Inquisizione.) Infine, l’Anticristo è a Trieste – ad un’ora di aereo rapido… Sì, tutto ciò è vero, ma la Chiesa trova sempre, nella sua disgrazia, dei mezzi di nuovo sviluppo.
Sono, in effetti, i paesi protestanti che hanno riportato le vittorie finali della guerra. Ma in questi paesi, la Fede cattolica guadagna di anno in anno nuove anime, grazie al proprio superiore dinamismo e per la sola legge del numero. (Escludendo il divorzio, la Chiesa romana mantiene, ovunque essa eserciti la propria influenza, una maggiore fecondità). Inoltre, protestanti e cattolici, se restano separati da leggere differenze di dottrine e da immense differenze di temperamento, sono tuttavia egualmente minacciati dal materialismo. La “unità nella persecuzione” assicura fra loro, per tutti i fini pratici, un grado di cooperazione finora sconosciuto. L’invio di un ambasciatore personale del Presidente degli Stati Uniti presso la Santa Sede ha marcato l’inizio di questo avvicinamento. La scelta da parte del Papa di nunzi americani per i posti di Belgrado e di Bucarest attesta il perseguire tale avvicinamento. D’altro lato, l’Ortodossia, risuscitata da Stalin per fini politici, cade al livello di religione nazionale e perde la propria forza attrattiva. La Chiesa cattolica resta dunque, incontestabilmente, la prima forza spirituale vivente.
La sua politica è sempre stata quella di stabilire, ovunque possibile, il contatto con i governi temporali e di concludere con essi degli accordi a garanzia dell’esercizio del culto e dell’insegnamento religioso. Questa politica della presenza non è stata smentita in Spagna, fra il 1936 ed il 1939. I Rossi prendevano prigionieri ed assassinavano i preti cattolici; il Nunzio rimase comunque a Madrid sino alla fine della guerra civile. Il Vaticano agirebbe volentieri alla stessa maniera in Europa Orientale. Ma bisogna essere in due per potersi intendere. Dopo la fine della guerra, non si sono ricevute a Roma, da tutti i paesi dell’Est, che cattive notizie. I governi di Varsavia, di Bucarest, di Belgrado e di Budapest non hanno più rappresentanti a Roma. La Polonia ufficiale ha brutalmente denunciato il Concordato che la legava al Vaticano e non c’è stato modo, finora, di negoziarne un altro. Nell’attesa, i religiosi sono esclusi dall’insegnamento, il movimento di azione cattolica è vietato, una censura impietosa proibisce persino la traduzione delle Encicliche. In Ungheria e in Jugoslavia i preti sono stati arrestati in massa. L’Arcivescovo di Zagabria, Monsignor Stepinac, è stato condannato a sedici anni di lavori forzati. Ma nulla eguaglia il trattamento inflitto agli Uniati in Russia. Nel 1945, un terzo del clero galiziano è stato incarcerato; da allora una parte di questi disgraziati è stata fucilata, un’altra deportata in Asia. In tutto il mondo russo, il cattolicesimo sembra esser considerata come il nemico numero uno.
Il Vaticano non ha fatto nulla per aggravare il conflitto, esso non raccomanderà mai dei mezzi estremi per mettervi fine. Il Papa ha recentemente ricordato che, malgrado tutte i consigli che gliene sono stati fatti, egli non ha accordato l’approvazione alla guerra intrapresa dalla Germania contro la Russia. In caso di un nuovo conflitto, il Vaticano non senza inquietudine vedrebbe impiegare, anche contro i propri nemici, i mezzi impietosi della tecnica moderna. Alla fine del conflitto, la libertà di culto sarebbe verosimilmente ristabilita in Russia. Ma quale amarezza non lascerebbe nel cuore dei cristiani d’Oriente una vittoria ottenuta attraverso la distruzione di intere popolazioni. La strana alleanza del cattolicesimo con la bomba atomica potrebbe far nascere una forma imprevista di paganesimo… Il tempo delle crociate è passato. La Chiesa non pretende più di conquistare alcunché con la spada. L’Impero cattolico che Mussolini le offrì in Abissinia, la conversione forzata che Hitler pretese d’imporre ai Croati erano un dono pericoloso… Questa riserva non saprebbe tuttavia impedire a certi accadimenti di produrre la loro azione.
La Chiesa ha dichiarato il comunismo “intrinsecamente perverso”. Essa non saprebbe accettare senza riserve i regimi d’economia pianificata instaurati dopo la guerra, perché essi servono talvolta a spogliarla. (In questo senso, le nazionalizzazioni del XX secolo sono parenti delle secolarizzazioni del XIX). C’è quindi una dottrina politica della Chiesa, che afferma l’origine divina del potere, la necessità delle gerarchie, l’intoccabilità della proprietà privata, che è dunque incompatibile con le forme “avanzate” del socialismo.
Secondo fatto: la Santa Sede è a Roma. All’indomani della guerra, essa ha fatto un grande sforzo di decentralizzazione. A Cardinali italiani sono stati sostituiti, nel 1946, dei Cardinali americani, e un Cardinale cinese. Esistono ormai, in seno al Sacro Collegio, potenti gruppi irlandesi e spagnoli. All’indomani del Concistoro, non vi era più una maggioranza italiana. Ma la Provvidenza, facendo morire alcuni cardinali stranieri, ha poi ristabilito la tradizione. Da allora, il Papato tiene all’Europa attraverso legami diversamente potenti. Obbligato ad abbandonare un’Italia russificata, il Papa dovrebbe cercare in America una nuova Avignone. Ma perderebbe al contempo i tesori del Vaticano ed il capitale di 750.000.000 di lire che gli è stato attribuito dai Patti Lateranensi. A questa perdita materiale, egli troverebbe forse agevolmente una compensazione nella generosità dei cattolici del Nuovo Mondo, che gli reca già l’essenziale delle sue risorse annue. Ma egli sarebbe posto in un altro ambiente, in cui il Cattolicesimo non ha la stessa profondità di pensiero e di cultura né lo stesso slancio mistico, dove esso è trasformato in una semplice società di beneficenza, in concorrenza all’impresa protestante. Più azzardato ancora sarebbe trasferirsi in Asia od in Africa. Si è visto recentemente in Indocina il clero indigeno rapidamente conquistato dal nazionalismo più violento, e fatto quindi ausiliario del comunismo ateo. È questo dunque oggi il paradosso della Chiesa cattolica, d’essere al contempo eterna e minacciata, contraria al razzismo ma legata storicamente a determinati gruppi etnici. Il predominio dei Gialli e degli Slavi le sarebbe fatale. Un indebolimento durevole dell’Europa basterebbe a farla vacillare.
Terzo fatto: La Chiesa non può impedirsi di simboleggiare, anche malgrado se stessa, la resistenza al totalitarismo. Questa situazione è particolarmente gravida di conseguenze in Polonia. Il Governo di Varsavia avrebbe potuto associare la Chiesa alle proprie responsabilità. Ha preferito ignorarla. Da allora, l’immensa maggioranza anti-russa della popolazione si stringe strettamente attorno ai suoi preti. Ci si affolla nelle chiese, dato che questa è oggi la sola manifestazione d’indipendenza autorizzata. Ma elevare i propri pensieri al di sopra delle presenti miserie appare già come un atto ostile al regime che pretende di assorbire tutto in sé. Dinnanzi a questo conformismo sovietico, i cattolici, poiché rimangono fedeli alla propria Fede, assumono la figura di rivoluzionari.
Nel 1937, Pio XI condannò, a pochi giorni di distanza, nelle sue encicliche gemelle, nazismo e comunismo. Oggi, l’uno dei due pericoli è sparito. Il più prevenuto degli spiriti non saprebbe trovare nel mondo anglosassone un’eresia paragonabile all’ateismo comunista. Le prossime condanne non potranno esser mosse che contro uno dei contendenti in un eventuale conflitto. Questo è il punto fondamentale.
Il conflitto morale già in corso non può avere che due soluzioni. O il mondo russo si aprirà di nuovo alle influenze esterne. In questo caso, la religione romana vi riprenderà la propria diffusione. Se dobbiamo avere una pace durevole ed un governo mondiale, noi lo riconosceremmo da questo segno: che i Cattolici ritroveranno la loro libertà d’azione nelle contrade orientali. Se invece la Russia si isola ancora di più, la Chiesa cattolica diverrà, prima di ogni dichiarazione di guerra, la prima vittima dell’inevitabile battaglia. Ma questo potrà forse esser il segno di una trionfale resurrezione. Indebolita nella prosperità, essa aveva bisogno di ritrovare dei nemici. Essa è, esse deve essere in una lotta perpetua contro le potenze del Male. I martiri le portano dei fedeli. E’ così fin dalle sue origini.
Poco tempo fa, il turista che visitasse le Catacombe credeva di evocare un’epoca per sempre superata. Egli si sarebbe piegato un momento davanti la tomba di Santa Cecilia poi, stanco per sedici chilometri di galleria, tremante in mezzo alle tombe ancora piene d’ossa, timoroso di soffocare o di perdersi nel dedalo, vedendo già la sua fragile torcia estinguersi nelle sue mani, egli sarebbe ritornato all’aria aperta con un respiro di sollievo. Oggi, queste profondità gli parrebbero familiari. << Ecco dunque, egli pensa, degli eccellenti rifugi antiaerei >>. Egli stesso ha vissuto sotto la terra e alle volte, come questi primi cristiani, assieme ai suoi morti seppelliti. (La differenza, è che noi non abbiamo più abbastanza fede per tracciare sui muri delle nostre caverne le immagini di una gioia celeste).
Le rovine ci colpiscono di meno e non ci sembrano più poetiche. Sappiamo come produrle in un secondo. Nel secolo scorso, quell’Inglese che (racconta Stendhal) aveva fatto issare una poltrona sulla più alta galleria del Colosseo vi saliva solo per godere del chiaro di luna. Ma noi non viviamo più, come lui, in un intervallo della Storia. I massacri non sono più tanto lontani perché possiamo sognarne. Se la moda della tortura si è rinnovata, essa finisce sempre per esprimersi nel terrore di un volto d’uomo. Le vittime della Gestapo e della GPU ci permettono d’immaginare i Cristiani gettati alle belve, e crediamo di respirare nei Circhi l’odore mischiato degli uomini e delle fiere. La Chiesa ha sempre saputo che tali errori sarebbero tornati. Essa ha innalzato una croce di legno fra le rovine del Colosseo. Essa non ha mai cessato di celebrare la Messa nelle Catacombe. Essa ha costruito il più bello dei suoi edifici nel luogo dove San Pietro fu crocifisso, la testa in giù. Là dove un povero pescatore soffrì la propria agonia, un principe vestito di bianco, d’oro e di porpora regna oggi sotto un baldacchino di bronzo, e delle piume di struzzo si congiungono sopra la sua testa. Questo é il diritto ed il rovescio di una identica realtà.
Questa “resistenza” eterna, la Chiesa l’ha praticata, in questi ultimi anni, contro Hitler, ma con una sorta di disagio. Contribuendo ad abbattere un nemico del cristianesimo, essa preparava il trionfo di un altro, ancor più temibile, e lo sapeva. Oggi, in caso di un conflitto, i cattolici non sarebbero più lacerati fra due campi. Coloro che si trovassero fisicamente nel mondo russo non vi sarebbero che dei nemici interni, unanimi nell’auspicare la sconfitta dei capi militari che si imporrebbe loro. La Chiesa ritrova dunque per la prima volta dopo dei secoli questa unità che la oppose un tempo al Turco od al Moro, a questo nemico che non ci si prendeva punto di definire con un nome di nazione o di razza, che veniva semplicemente chiamato: l’Infedele.
L’anno scorso, dopo sei anni di una guerra crudele, i Cardinali di tutti i paesi si riunivano a Roma. Quando essi si scambiavano il bacio della pace, sembrava che la riconciliazione del mondo cristiano fosse compiuta. Nella Basilica, i fedeli applaudivano a turno i loro compatrioti, come se stessero applaudendo i loro campioni in una manifestazione sportiva. Ma si trovarono unanimi nell’acclamare Monsignor Von Galen, il Tedesco che, nella sua diocesi di Monaco, aveva tenuto testa ai nazisti, a rischio della propria vita. Alla fine della cerimonia, i Cardinali, dopo aver baciato il piede e l’anello del Papa, si sedettero sui gradini dell’altare. Quando si proietta la scena nei cinema, vi sono degli spiriti forti che ridono di questi vecchi uomini vestiti con troppo lusso, che si siedono a fatica. È perché essi ignorano il significato del rito. La porpora cardinalizia – il Papa lo ha ricordato – evoca il sangue che questi alti dignitari devono tenersi pronti a spargere, se bisogna, per la difesa della loro fede.
 
 
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