martedì 25 giugno 2013

Riflessioni circa la disuguaglianza sociale

Uguaglianza
 
 
Il tema della disuguaglianza sociale è delicato ma fondamentale; richiede attenzione e perspicacia affinché, nel trattarne, non si generino equivoci. Esso, infatti, s’incrocia armoniosamente con quello dell’uguaglianza. Ciò che può apparire un paradosso, in verità, nella propria naturalezza (checché ne dicano i pensatori “illuminati”… o fulminati?), è generalmente compreso, anche se inconsciamente. San Tommaso ci dice ancora di più: non solo questa realtà è intrinseca nella natura umana, ma precede anche il peccato originale e, pertanto, appartiene alla perfezione delle cose. Leggiamo nella Summa [Iª q. 96 a. 3]: «SEMBRA che nello stato di innocenza gli uomini sarebbero stati tutti uguali. […] IN CONTRARIO sta scritto: “Le cose che sono da Dio, sono bene ordinate”. Ora, sembra che l’ordine debba consistere soprattutto nella disuguaglianza; infatti S. Agostino scrive: “L’ordine è una disposizione di cose uguali e diverse, che assegna il suo posto a ciascuna”. Dunque, nello stato primitivo, che doveva essere ordinatissimo, non sarebbe mancata la disuguaglianza. […] Da parte di Dio poteva sussistere una causa di disuguaglianza, non in virtú di una punizione e di un premio, ma in vista di un’elevazione più o meno sublime, affinché nel mondo umano risplendesse maggiormente la bellezza dell’ordine. Anche da parte della natura poteva risultare una disuguaglianza, […] senza alcun difetto.»
Se non fosse per certe fisime intellettualoidi figlie di “madama” Rivoluzione, presentare la questione sarebbe futile.
Tenterò di condurre un piccolo e non esaustivo “viaggio” dall’evidenza alla bontà di tale realtà.
Partiamo dal principio. Se la disuguaglianza da noi trattata è una relazione di disparità tra uomini, è da specificarsi il perché gli stessi entrino in relazione. Questo è a causa della necessità: ogni uomo, infatti, non basta a sé stesso per raggiungere il proprio fine, e, pertanto, si unisce ad altri uomini.
In verità l’uomo già nasce in un contesto societario (la famiglia), ed è naturalmente portato a relazionarsi coi propri simili. Per questo possiamo dire che la spiegazione appena data mostra un fatto che oscilla tra il ragionato/voluto ed il naturale/istintivo. Non a caso l’uomo fu da piú filosofi definito “animale intrinsecamente sociale/politico”, ossia: è dovuto alla sua stessa natura che si relazioni coi propri simili, e ciò dà origine ai vari consorzi. San Tommaso [S. Th., Iª q. 96 a. 4] dice: «[…] l’uomo è per natura un animale socievole: quindi gli uomini nello stato di innocenza avrebbero vissuto in società».
La relazione con gli altri, dunque, è esigenza e fonte di vantaggio. Affinché conservi questo suo valore, deve basarsi sulla disuguaglianza. A cosa gioverebbe rapportarsi ad una persona colle medesime qualità/capacità/conoscenze/possibilità nostre? Parimenti non sarebbe in grado di fornirci ciò che ci serve. Anche i rapporti d’affetto —o comunque basati su scambi non materiali— si fondano su ciò.
Se le relazioni non si basassero su di un bisogno-soddisfazione, non sarebbero né utili né piacevoli, poiché ogni piacere umano (e si badi bene a non confondere il piacere sano con quello viziato) è ordinato al soddisfacimento di un bisogno, all’ottenimento d’un bene.
La disuguaglianza è favorevole sia all’inferiore, sia al superiore. Al primo è favorevole perché il superiore ha ciò che l’inferiore non ha, e glielo fornisce. Al secondo è favorevole perché l’inferiore (che accetta la propria inferiorità) offre al superiore un qualche servigio, aiuto. Come si vede: da una parte l’esigenza, dall’altra il vantaggio (che il più delle volte è anche esigenza). Quanto detto non esclude certamente il dono “disinteressato”, puramente caritatevole, che anzi è necessario esista nella società, affinché il suo esempio spinga tutti al perfezionamento.
L’inferiorità offre l’occasione di santificarsi nell’obbedienza e nella sopportazione, mentre la superiorità di farlo nel buon esercizio dell’autorità e dei carismi, e nell’umiltà. Il possesso del bene, di qualsiasi specie sia, impegna chi lo possiede a combattere la superbia, poiché «tutto ciò che c’è di bene in noi è da Dio», mentre la mancanza del bene permette di considerare la piccolezza dell’uomo. A tal proposito, la Scrittura ci mostra come ciò che ci è donato da Dio ci è dato affinché noi lo mettiamo a disposizione dei nostri prossimi: «Ognuno di voi ponga al servizio degli altri il dono ricevuto» [I Pietro IV,10]. Ciò che ci è dato non proviene da noi. Cionnonostante, è dovere di chi lo riceve farlo fruttare, e dunque “investirlo”, usarlo per suscitare altro bene, «imperocché la cosa è come quando un uomo, partendo per lontan paese, chiamò i suoi servi, e mise il suo nelle loro mani: dette all’uno cinque talenti, e all’altro due, e uno ad un altro, a ognuno a proporzione della sua capacità, e immediatamente si partí. […] Dopo lungo spazio di tempo ritornò il padrone di que’ servi, e chiamolli ai conti» [Mt XXV,14-19]. Tutto ciò ci dimostra come la superiorità sia un onere e ponga di fronte ad una responsabilità, per cui tutte le posizioni gerarchiche implicano un dovere da assolvere. D’altro canto «i giusti comandano non per ambizione di dominio, ma per il dovere di prendere a cuore [il bene altrui]; questo è l’ordine prescritto dalla natura, e così Dio ha creato l’uomo» [S. Agostino, XIX de Civ. Dei].
Il mutuo vantaggio/necessità garantisce l’armonia. Se non si accetta la propria posizione gerarchica, infatti, non può accettarsi il differente stato e nasce un conflitto di forza, animalesco. Presumere l’eguaglianza genera invidia, concorrenza, sfida, mancanza di rispetto e di carità, individualismo, svuotando di senso l’esistenza della società stessa.
La disuguaglianza realizza il consorzio umano, ossia gli conferisce quel continuo dare-ricevere che lega gli uomini e getta le basi per il fiorire di realtà spirituali che superano l’esigenza stessa.
 
Non serve proseguire oltre colla speculazione, perché è noto che la negazione della disuguaglianza è tesa solo a disconoscere l’autorità. Lasciamo parlare la deliziosa penna del Thibon: «Ogni reciprocità d’influenza implica una solida differenza di natura e di posizione. Proprio nelle società fortemente diversificate e gerarchizzate […] si stabiliscono, fra i membri di tali gerarchie, gli scambi piú fecondi e duraturi […]. In simili formazioni politiche ciascuno, in virtú proprio della stabilità, della “fatalità” della sua posizione, è interamente disponibile per lavorare al bene della generalità. Le classi in alto hanno le mani libere per dare, e quelle in basso per ricevere e gli scambi sono tanto più profondi quanto più è difficile a scavalcare il fossato che separa i diversi strati sociali.
La mistica democratica ha rovinato tutto ciò. Come potrebbero sussistere veri scambi all’interno della gerarchia, quando la stessa esistenza di tale gerarchia è messa in dubbio? In tal caso l’inferiore, disgustato del suo ambiente, della sua posizione, di sé stesso, da questo soffio d’aria di palude suscitato in lui dall’insegnamento dell’uguaglianza, non ha piú nulla da ricevere dal superiore, e non mira che a uguagliarsi a lui e a espellerlo. Il superiore, a sua volta, anziché governare avendo di mira il bene di tutti, tendesoltanto a difendere la sua posizione minacciata. Da una parte l’invidia, dall’altra il timore […]. Lo scambio sociale è puro e fecondo solo in un mondo in cui il dirigente si sente sicuro in alto perché il subordinato si sente al suo posto in basso. Ma oggi possiamo ancora parlare di scambi? Oggi, in alto si tratta di difendere, in basso di conquistare. […]
Non è un paradosso affermare che le barriere sociali favoriscono assai spesso la comunione umana».
San Tommaso [S. Th., I ª q. 96 a. 4] scrive ancora: « […] non può esserci vita sociale in una moltitudine senza il comando di uno, il quale abbia di mira il bene comune; poiché di suo una pluralità di persone ha di mira una pluralità di scopi, mentre un individuo mira ad uno scopo unico. Perciò il Filosofo insegna, che in ogni pluralità di cose dirette a un fine, se ne trova sempre una che ha la funzione direttiva e principale». L’autorità, dunque, è un elemento fondamentale della società, senza il quale quest’ultima cessa d’esistere, poiché, senza essa, la società non sarebbe piú un corpo composto di piú e diverse parti interdipendenti, bensí un insensato gruppo di pari che non avrebbero ragione alcuna di legarsi l’un l’altro, né potrebbero trarre vantaggio dallo stare insieme.
 
La varietà dei carismi, delle attitudini, delle capacità, costituisce veramente una ricchezza inestimabile. Se è vero (com’è) che, in seno alla società, devono esercitarsi diverse e subordinate funzioni, è altrettanto vero che tale realtà sarebbe tremendamente ingiusta, se a dei pari dovessero essere destinate funzioni d’ineguale valore.
È sbagliato ritenere che la disuguaglianza possa causare odio, poiché essa è un mezzo mediante il quale tutti sono favoriti al raggiungere il medesimo fine. La disuguaglianza “prossima”, quindi, è funzionale all’uguaglianza “in ultimo”. Infatti, la società è ordinata ai fini prossimi, che servono come aiuto al raggiungimento del fine ultimo, che è lo stesso per tutti gli uomini. Distruggere —di fatto— la società significa unicamente ostacolare l’uomo nel raggiungimento della beatitudine.
Come abbiamo visto, questo rapporto di subordinazione è essenziale, perché né potrebbero gli uomini essere perfetti —e, quindi, non necessitare d’alcunché—, né, essendo pari nella propria imperfezione, potrebbero aiutarsi.
Leggiamo [S. Th., Iª q. 47 a. 2]: «SEMBRA che la disuguaglianza delle cose non venga da Dio. Infatti è proprio dell’ottimo produrre cose ottime. Ma tra cose buone al sommo l’una non è maggiore dell’altra. Perciò appartiene a Dio che è ottimo, fare tutte le cose uguali. […] IN CONTRARIO sta scritto: “Perché un giorno sopravanza l’altro, e la luce a sua volta supera la luce, e un anno l’altro anno, e il sole il sole stesso? Dalla sapienza del Signore furono distinti”. […] SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Appartiene all’ottima causa produrre ottimo l’intero suo effetto: non già fare ottima per sé stessa ogni parte, ma ottima relativamente al tutto». Ritengo di poter applicare quanto letto anche alla società, che certamente appartiene alle cose fatte da Dio. In essa i suoi membri, ossia gli uomini, sono diseguali per quanto riguarda l’attuale, e ciò è funzionale.
A proposito di quest’ultima osservazione, possiamo citare Papa Leone XIII [Quod Apostolici muneris]: «I socialisti non cessano di proclamare che tutti gli uomini sono eguali fra loro per natura… al contrario, secondo le dottrine del Vangelo, l’uguaglianza degli uomini consiste nel fatto che tutti, dotati della stessa natura, sono chiamati alla stessa eminente dignità di figli di Dio e che avendo tutti lo stesso fine, ognuno sarà giudicato dalla stessa legge e riceverà il compenso o il castigo che meriterà. Tuttavia la disuguaglianza dei diritti tra gli uomini proviene dallo stesso Autore della natura, “dal quale ogni paternità prende il nome, in Cielo come in terra” [Ef III,15]».
 
Inevitabilmente, quanto abbiamo detto deve ricollegarsi al discorso della dignità umana. Come abbiamo distinto una disuguaglianza “prossima” da un’uguaglianza “in ultimo”, così pure distinguiamo nell’uomo due dignità: una ontologica, dovuta alla sua stessa natura ed uguale per tutti gli esseri umani, ed una derivante dagli accidenti, dalle contingenze, dipendente dai meriti e dai demeriti. Tenendo presente ciò, evitando l’errore personalista/egualitarista, si può serenamente affermare che le disuguaglianze temporali sono naturali e lecite (provengono dallo stesso Autore della natura) e non infrangono né offendono per nulla l’uguaglianza per cui «intendete adunque, che quegli che sono nella Fede son figliuoli di Abramo. […]Conciossiaché tutti voi, che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non vi ha né giudeo, né greco, né servo, né libero, non v’ha maschio, né femmina. Imperocché tutti voi siete uno solo in Cristo Gesú» [Gal. III,28].
Il discorso delle dignità, però, conduce ad argomenti che non riguardano direttamente il tema da noi trattato in questo scritto, pertanto lascio tali approfondimenti al desiderio del lettore ed ad eventuali futuri scritti.
 
Ci siamo fermati a considerare l’evidenza di questa realtà, e abbiamo osservato come essa sia buona e funzionale. Possiamo, a questo punto, ipotizzarne il senso più profondo, pur rimanendo consci del fatto che non sta a noi giudicare dell’opera di Dio.
Anzitutto San Tommaso ci suggerisce: «…non in virtù di una punizione e di un premio, ma in vista di un’elevazione piú o meno sublime, affinché nel mondo umano risplendesse maggiormente la bellezza dell’ordine». Quindi, Dio ha voluto conferire alla propria creazione anzitutto la bellezza. Lessi, a tal proposito (purtroppo non ricordo né dove né di chi fosse), una riflessione. L’autore si chiedeva perché nel mondo esistessero popolazioni più o meno toccate dal Vangelo, e si rispondeva dicendo che in tal maniera le persone piú colpite dal Vangelo potevano “spiccare” in mezzo a quelle meno toccate, manifestare la propria santità come un bel fiore si fa notare in mezzo a tanti fiorellini. D’altronde, se tutti fossimo uguali, quale particolarità, quale unicità, quale bellezza potrebbe avere ciascuno di noi? Pensiamo a Maria, la Tota Pulchra… avremmo noi una Madre da contemplare e amare, se noi non fossimo così insignificanti e lei così Bella, così Santa?
Da una parte la bellezza dell’opera di Dio, dall’altra la nostra volontà. La possibilità di essere diversi è dovuta anche a ciò che noi liberamente scegliamo di fare e di essere… dice, infatti, il Dottore Angelico [S. Th., Iª q. 96 a. 3]: «Ci sarebbe stata una diversità anche nelle anime, sia per la santità, che per la scienza. L’uomo infatti è mosso ad operare non da una qualche necessità, ma dal libero arbitrio; e da ciò deriva la possibilità di applicare l’animo di più o di meno nel fare, nel volere o nel conoscere. Perciò alcuni avrebbero progredito più di altri nella santità e nella scienza». Anche la nostra Tutta Bella è diventata Chi è per la propria volontà d’assecondare il disegno di Dio.
La disuguaglianza è, quindi, manifestazione dell’amore di Dio per la propria creatura, che ha fatto bella e libera. Sicuramente non ci è dato di ribellarci, né giudicare la convenienza di ciò che Egli fa, poiché esistiamo solamente in virtù del Suo Amore e ciò che per noi vuole Dio deve bastarci, in quanto «da Lui, e per Lui e a Lui sono tutte le cose» [Rom. XI,36], e la misura in cui Egli vuole farci partecipi della Propria Beatitudine, dobbiamo accettarla come dono di incommensurabile valore.
Un’altra spiegazione può essere il fatto che le cose temporali siano anche simbolo di quelle spirituali. Per questo motivo, le disuguaglianze servono a mostrarci come Dio sia l’Autorità cui bisogna obbedire, come la Sua Sapienza superi infinitamente la nostra ed Egli sia Perfezione illimitata, come bisogna affidarsi a Lui in ogni nostra necessità. Tanti Santi hanno vissuto i rapporti umani in quest’ottica, poiché come troviamo Cristo nel povero e nel bisognoso da soccorrere, così lo troviamo nel superiore, cui bisogna sottomettersi o di cui bisogna umilmente riconoscerne le migliori qualità. Non pare sbagliato, infatti, supporre che l’esistenza stessa della società debba attribuirsi anche a questo fine, ossia a fornire simboli temporali del nostro rapporto con Dio.
Non serve lasciarsi ammaliare dalle astrattezze, è piuttosto utile apprezzare la realtà e tentare il più possibile di viverla cristianamente, poiché è un’opportunità unica, squisita e gratuita.
 
Marina
 
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