giovedì 31 ottobre 2013

"Caso Kowalska": ancora risposte

JLAwithbenedict
John L. Allen, Jr. con Benedetto XVI



Abbiamo ricevuto due giorni fa l'ultimo contributo di Locatelli nel dibattito sul "caso Kowalska", che riportiamo integralmente.
Giorni fa ho letto con interesse l'articolo dell'amico Masciullo, che cerca di affrontare con alcune osservazioni un mio discusso articolo su suor Faustina Kowalska.
Realmente ci sarebbero più punti ai quali rispondere ma ne citerò solo i più eclatanti.
Al contrario di quanto è stato scritto, deve essere chiaro che l'unica Fonte Autorevole a fondamento di tutto il discorso è il Santo Uffizio, non certo Don Villa che a sua volta, nei suoi articoli, riprese la divulgazione teologica del Dott. Minarelli.
Il Santo Uffizio non può essere messo in discussione.
Si tende troppo spesso a dimenticare che il compito esplicito di questa santa congregazione era quello di “mantenere e difendere l'integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine” e proprio per questo era necessario agire sempre con estrema prudenza, decisione ed autorità  e solo dopo esami approfonditi, a beneficio delle anime, veniva emessa una sentenza tesa a conservare e preservare da errori la fede cattolica. Quindi come dipingere il Santo Uffizio come organo facile agli abbagli o violento persecutore? Le omissioni nella Coroncina sono palesi ieri come oggi.
Il giudizio non fu un semplice ammonimento prudenziale come ha scritto Masciullo ma un vero e proprio ordine: "Doversi proibire la diffusione delle immagini e degli scritti che presentano la devozione della Divina Misericordia nelle forme proposte dalla medesima suora”...e notare quel nelle "forme proposte" che delinea perfettamente l'imperfezione di questa misericordia automatica.
Poi in breve: sul tema mariavita devo sottolineare che questa fu chiesa ufficiale, diffusa sul territorio, che fondava perfino villaggi, per la quale molti polacchi simpatizzavano, e quindi è del tutto normale, e non stupisce, che Suor Faustina potesse conoscerla ed esserne forse perfino influenzata.
In verità l'accostamento con i mariaviti è una mia idea mentre l'assurda affermazione che Kowalski, il capo dei mariaviti fosse parente di suor Faustina è invece solo una speculazione gratuita.
Stendendo un velo pietoso sul fatto che "la scintilla che preparerà il mondo" alla Sua venuta possa essere GPII, ritorno al punto cruciale di tutta la devozione: la coroncina e la sua definizione.
Il testo afferma, OTTIENE, tout court, parla univocamente di una salvezza automatica per qualsiasi agonizzante, senza la partecipazione della sua volontà, e ricordiamo che gli agonizzanti, spesso purtroppo, non sono nemmeno coscienti e non possono pentirsi.
Masciullo si è aggrappato alla teoria del "pentimento sottinteso", ma se per convalidare una devozione dobbiamo colmare le lacune con le opinioni, non siamo messi bene...
Anche se fosse, ma non lo è, la dottrina cattolica comunque non potrebbe mai contemplare il sottinteso, per il semplicissimo fatto che ciò che è sottinteso non è chiaro e ciò che non è chiaro da luogo a fraintendimenti che possono essere colmati dalla fantasia di ciascuno cadendo in possibili perniciosi errori, come in effetti è avvenuto. Le vere devozioni si fonderanno sempre e solo su una limpida chiarezza espositiva senza ambiguità.
Detto questo passo e...chiudo.
-- G.M.G. Locatelli
Inaspettatamente, abbiamo registrato in redazione ulteriori dubbi in merito alla devozione legata alla Divina Misericordia. Tali dubbi sono stati sollevati da fonti autorevoli e ben inserite nell'orbita Vaticana. In un articolo pubblicato nell'estate del 2002 sul National Catholic Reporter, John L. Allen Jr. scriveva di suor Faustina:
[...] Gesù le parlava delle cose più disparate (una volta assicurandole che avrebbe avuto una camera singola quando sarebbe dovuta andare all'ospedale), ma il punto focale era sempre la misericordia - il desiderio di Dio di elargirla, il bisogno dell'umanità di averlo, e i metodi con cui si poteva ottenere.
Sebbene il diario di Faustina sia l'unico testo mistico composto in polacco, sarebbe finito nel dimenticatoio se non fosse stato per Karol Wojtyla, in seguito divenuto Papa Giovanni Paolo II.
Nel 1959, il Sant'Uffizio (l'apparato vaticano della dottrina, oggi conosciuto come Congregazione per la Dottrina della Fede), lanciò un ordine di cessazione e abdicazione nei confronti del diario di Faustina e della devozione alla Divina Misericordia, una censura che sarebbe durata per almeno 20 anni, fino al 1978. Wojtyla lavorò a lungo per rovesciare il verdetto, avendo intrapreso il processo di beatificazione per Faustina nel 1965, mentre era arcivescovo di Cracovia.
Ufficialmente, la censura ventennale è ora attribuita a malintesi creatisi a causa di una fallace traduzione italiana del Diario, ma nei fatti c'erano delle gravi riserve teologiche - l'affermazione di Faustina che Gesù avesse promesso, per certi atti devozionali, una completa remissione dei peccati, che può essere offerta solo dai sacramenti, per esempio, o quello che i periti del Vaticano percepivano fosse un'attenzione eccessiva alla figura di Faustina stessa.
Giovanni Paolo II non ha mai promosso alcuna devozione con più vigore e più velocemente. La sua seconda enciclica, la Dives in Misericordia, del 1980, è stata ispirata da Faustina. L'ha beatificata nel 1993, e l'ha canonizzata nell'aprile del 2000, come prima santa del terzo millennio cristiano. Ha approvato una Messa speciale della Divina Misericordia per la domenica dopo Pasqua nel 1994, e l'ha celebrata lui stessa in Piazza San Pietro davanti a una folla di duecentomila persone nell'aprile del 2001. Nel 1994 ha assegnato la Chiesa di Santo Spirito in Sassia a Roma come quartier generale del movimento della Divina Misericordia e, proprio in questo mese [agosto 2002] ha approvato un'indulgenza speciale per chi partecipa alla domenica della Divina Misericordia.
Alcuni critici affermano che i contenuti del messaggio di divina misericordia di Faustina non sono originali, e addirittura banali. Ma il Cardinale Franciszek Macharski, il successore di Giovanni Paolo II come arcivescovo di Cracovia, ha affermato in risposta ad una domanda del NCR [National Catholic Reporter], il 18 agosto [2002], che Faustina "ci ricorda il vangelo che abbiamo dimenticato".
Macharski ha aggiunto che la disapprovazione del Vaticano non è stata mai "assolutamente negativa", ma semplicemente un "allarme" di usare cautela. Ha detto che è stato il Cardinale Alfredo Ottaviani, capo del Sant'Uffizio, a dare il semaforo verde per le inchieste per la canonizzazione negli anni '60, così che le testimonianze potessero essere raccolte mentre i testimoni erano ancora in vita. Agì così nonostante i dubbi del suo stesso ufficio.
Macharski ha aggiunto che, infine, è stato Paolo VI, e non Giovanni Paolo II, a invertire la censura sull'opera di Faustina, nel 1978.

-- John L. Allen Jr.

Fonte:

http://radiospada.org/

L’AUTODEMOLIZIONE DELLA CHIESA CATTOLICA: 9. Vulnus Missae

quirino9


La celebrazione “versus populo” è stata una inversione di marcia non solo in senso metaforico. A questo atteggiamento del celebrante è da connettere sia il prevalere dell’essenza della Messa come CENA, sia l’eclisse del Sacerdozio ministeriale. Ciò non è nemmeno tanto adombrato poiché esiste reticenza a chiamare altare ciò che in realtà nella maggior parte dei casi è una semplice tavola. D’improvviso, vanga e piccone hanno demolito gli altari, si, quegli altari spesso monumentali che erano al centro del tempio, sui quali troneggiava il tabernacolo entro cui si sapeva esservi il Signore Gesù; quegli altari fatti di pietra riccamente decorati che in una piccola teca incastrata al centro del piano, contenevano le reliquie dei martiri per i cui meriti si invocava il perdono dei nostri peccati (Aufer a nobis), e sulle quali si celebravano i riti cristiani come al tempo delle catacombe (è straordinario questo legame con i primi cristiani: noi ancora come loro!); quegli altari consacrati così solennemente dal Vescovo, per renderli idonei a celebrarvi il sacrificio. Sono stati rimossi, trasformati o sostituiti con una “tavola”. L’accesso all’altare era soltanto frontale, ma ora si doveva poter girarvi attorno proprio come nelle nostre case ci si siede tutt’intorno alla tavola per il pranzo.
“E’ bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete per potervi facilmente girarvi intorno e celebrare rivolti verso il popolo. Nell’edificio sacro sia posto in luogo tale da risultare come il centro ideale a cui spontaneamente converga l’attenzione di tutta l’assemblea”. (Concilio Vaticano II - Sacrosanctum Concilium, 91).
La rivoluzione sta proprio qui: dall’altare del sacrificio, alla tavola per la cena. Pio XII lo aveva previsto e ci aveva allertati: “...è fuori strada chi vuole restituire all’altare l’antica forma di mensa”. (Mediator Dei, parte prima,V). L’altare richiede la vittima ed il sacerdote che la offre; per la mensa e la cena basta un presidente con la funzione di guida. Che significa presiedere? La Messa non è un’assemblea degli azionisti di un’azienda in cui il presidente ha il compito di guidare il dibattito e di trarne le conclusioni. Di tutto ciò non si era mai sentito parlare. Si diceva che il sacerdote è il celebrante che offre il sacrificio a Dio. E solo a lui era consentito di fare questo, in virtù della consacrazione sacerdotale. Non si era mai sentito parlare di presidente quando la Messa era considerata Sacrificio di Cristo. Abele, Abramo, Melchisedech, ecc. quando offrivano a Dio il loro sacrificio, non erano presidenti di niente! La parola giusta è SACERDOTE CELEBRANTE. Questa storia del presidente non fa che laicizzare un ruolo che spetta solo a chi possiede il sacerdozio ministeriale. Così è sempre stato. Ma oggi si cerca di far credere che sono tutti i fedeli insieme, a concelebrare col presidente, in forza del sacerdozio comune che possiedono tutti i battezzati. Così siamo al travisamento della Messa e del sacerdozio. Ciò che fa il presidente lo può fare chiunque. Quando la consacrazione già contiene degli elementi che talvolta ne rendono dubbia  la validità, la può fare chiunque, e non importa essere sacerdote. Un personaggio non sospetto di conservatorismo, Yves Congar, lo ha capito e dice: “La nozione cattolica del sacerdote, che risale a Cristo e agli Apostoli, viene cancellata per dare spazio alla nozione luterana di ‘Presidente dell’assemblea’.
Il Concilio di Trento ha posto Cristo nel tabernacolo, al centro della chiesa, sull’altare maggiore perché sia da tutti adorato, nel posto che gli compete come Dio e come Re. L’altare doveva essere il suo trono ornato riccamente (da qui è nato lo stile barocco). Ora Cristo è stato detronizzato e relegato in cappelle talvolta difficili da individuare, in posti desolati, in tabernacoli senza il conopeo e con un lumino talvolta bianco che si può confondere con un cero votivo. Il vecchio altare se non è stato demolito è ancora là a testimoniare una grandezza passata; e se Gesù è ancora nel vecchio tabernacolo di quell’altare, si capisce quanto è d’impiccio stando il fatto che con il nuovo tavolo posto davanti ad esso, il sacerdote è costretto a voltargli le spalle. Si è tanto parlato della sconvenienza che il sacerdote volti le spalle alla gente (come succede nella celebrazione della Messa tradizionale), ma oggi nessuno parla di sconvenienza che volti le spalle a Cristo Gesù. Ma tant’è, la cena è cena, non spettacolo cinematografico; la gente deve vedere in faccia il prete, e il prete deve veder la gente; Lo ha detto anche Papa Paolo VI che il prete ora “Parla con e per il popolo”. Infatti il prete parla, parla, parla...quando non s’incanta a guardare la gente...- E Gesù è là dietro le sue spalle che tace e sopporta.
La Messa è composta essenzialmente dall’offertorio, dalla consacrazione e dalla comunione. La parte che precede l’offertorio, detta dei catecumeni, consiste  nelle letture bibliche. Ora, la nuova Messa pur mantenendo lo stesso ordito, concede più visibilità alla parte didattica scompensando vistosamente l’equilibrio originario ove l’attenzione era prevalentemente orientata alla consacrazione, che è il cuore della Messa. Questa operazione è palesemente volta a condurre la nostra Messa sul terreno protestante. Nel mentre il peso e il numero delle letture viene aumentato, tutte le altre parti della Messa subiscono decapitazioni, sostituzioni o traduzioni vaghe. Inoltre, quasi tutte le preghiere sono seguite da una “opzione” che dà la possibilità al presidente di fare una scelta a sua discrezione. Succede però che in virtù della concessione conciliare di una certa creatività, il presidente si crea personalmente la preghiera, quando addirittura non la tralascia. Si assiste molto spesso a Messe ‘personali’ e caotiche. Tutto questo favorisce l’affievolimento nei riguardi del mistero, togliendo l’attenzione all’essenza del rito cui tutto dovrebbe convergere. Quando le preghiere, ridotte all’osso vengono banalizzate, vi rimane solo la lettura dei brani biblici e la conseguente omelia. Esattamente ciò che desideravano i protestanti: cioè mettere in risalto le letture e porre il silenziatore sul ‘sacrificio’ e sulla ‘presenza reale di Cristo’, a cui loro non credono. Questa è la ‘CENA’ protestante. La Messa è ancora valida grazie alla consacrazione, ma ha perso molto della Messa cattolica che rimane quella del Concilio di Trento, quella di ieri e quella di sempre.
Il SACRIFICIO si compie sull’altare, compito che viene svolto esclusivamente da un sacerdote consacrato. Nel caso della Santa Messa, siccome l’offerta e l’offerente coincidono nella stessa Persona (Gesù Cristo), il sacerdote celebrante agisce ‘in persona Christi’ cioè si presta come ‘alter Christus’.
La CENA si consuma su una tavola imbandita, seduti tutti intorno, tutti uguali, e il presidente è deputato dal popolo a gestire e guidare la cerimonia. Così la comunità parla con se stessa, festeggia se stessa, al che Cristo sembra avere una parte secondaria. A differenza del passato dove il sacerdote e il popolo insieme erano rivolti al tabernacolo, al Santo dei Santi.
“Essi (il popolo) non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino, sono in partenza verso l’oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene incontro”; “Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell’essenziale. Non è importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma l’adorazione comune”. (Joseph Ratzinger: ‘Introduzione allo spirito della liturgia’, ed. S.Paolo-2001, cap.III,p.76-77).
La nuova teologia postconciliare tende a svuotare la Messa del suo valore intrinseco, riducendola, come ebbe a dire Pio XII, ad una semplice commemorazione a ricordo dell’ultima cena e della passione e morte di Cristo. Con questa intenzionalità viene rimossa la presenza reale del Signore nelle specie del pane e del vino.
Jean Guitton, accademico di Francia e amico di Paolo VI, scrittore cattolico che tutti conoscono, non esitò, qualche anno fa, a dichiarare apertamente: “L’intenzione di Paolo VI a riguardo della liturgia, a riguardo della cosiddetta volgarizzazione della Messa, era di riformare la liturgia cattolica così che coincidesse pressoché alla alla liturgia protestante, con la cena protestante (...)    La Messa di Paolo VI si presenta anzitutto come un banchetto, non è vero? E insiste molto sull’aspetto di partecipazione ad un banchetto e molto meno sulla nozione di sacrificio, di sacrificio rituale, in faccia a Dio, mentre il sacerdote mostra le spalle. Allora non credo di sbagliarmi dicendo che l’intenzione di Paolo VI e della nuova liturgia che porta il suo nome, è di chiedere ai fedeli una più grande partecipazione alla Messa, è di dare un posto più grande alla Scrittura ed un posto meno grande a tutto ciò che in essa vi è, alcuni dicono, di magico (v. nota a fine capitolo), altri di consacrazione transustanziale, e che è la fede cattolica. In altre parole, c’è in Paolo VI un’intenzione ecumenica di cancellare, o almeno di correggere o attenuare, ciò che vi è di troppo cattolico, in senso tradizionale, nella Messa, e di avvicinare la Messa cattolica, lo ripeto, alla cena calvinista” (Intervista a Radio Courtoisie del 19 dicembre 1993).
Vorrei qui notare che secondo don Antonio Contri, della facoltà teologica del triveneto, il ritorno alla Messa tridentina equivarrebbe a “mettere in soffitta la Scrittura, privando i fedeli della ricchezza dell’AnticoTestamento”, e commenta: ”non ne esce una Messa magica, più vicina ai misteri pagani che all’assemblea del popolo di Dio? Non siamo più vicini al misterico che al mistero Paolino?” (“Verona Fedele” 5 agosto 2007).
Con tutto ciò, mi pare che l’analisi di Guitton sia molto chiara e...tragica. La Messa cattolica sfrondata dei suoi peculiari elementi per renderla accettabile ai protestanti e accelerare l’unità ecumenica.
“La Messa è il raduno della comunità che si ritrova per ricordare l’ultima cena di Cristo con gli Apostoli. E’ pasto, è convivialità: NO! La Messa è Sacrificio, come lo è sempre stato. Cambiata la prospettiva è cambiata la messa”.                                                                                                 Non sono parole mie, ma di un sacerdote col cuore spezzato dal dolore. A Bolsena dall’Ostia è uscito Sangue! A Lanciano, dopo 1300 anni c’è ancora l’Ostia di carne vera e il Sangue vero in una teca: Carne e Sangue che Gesù ha voluto lasciarci miracolosamente affinché noi credessimo che la Messa è il Suo Sacrificio rinnovato.
Ma era necessario togliere alla Messa la sua peculiarità di sacrificio propiziatorio: lo esigeva la ragione ecumenica. Per questo hanno affiancato al ricordo della Passione e Morte e alla cena, pure la risurrezione. Non meraviglia, poiché la Messa viene chiamata anche “Il Mistero pasquale” in quanto viene inclusa con la Passione e Morte, anche la Risurrezione di Gesù Cristo, ma evidenziando che la cosa principale è celebrare il trionfo di Gesù, la Risurrezione. Perciò la Santa Messa è una festa di giubilo. Ma la Santa Messa non è né può essere una festa di giubilo perché è la “quotidiana rappresentazione e rinnovazione del sacrificio del Calvario” (Pio XII: Mediator Dei) e non della risurrezione; ciò perché “I Suoi (del Cristo) acerbi dolori costituiscono il mistero principale da cui proviene la nostra salvezza” (ivi) mentre con la Risurrezione Gesù Nostro Signore non ha meritato nulla né per sé né per noi. E’ con la Passione che Egli ha meritato la Sua Resurrezione e la nostra resurrezione spirituale e corporale, e perciò la Santa Messa, istituita per applicarci i meriti della redenzione, non può che celebrare il sacrificio  della Croce (cfr Si si no no, del 28 febbraio 2007, p. 8).
La salvezza essendo venuta per tutti già dall’incarnazione, la croce deve scomparire all’interno della dinamica del mistero pasquale, che, in modo logico e conseguente alle premesse di questa teologia corrotta, nella Messa privilegia nettamente il memoriale di lode e di ringraziamento per la risurrezione, cioè per la salvezza già passata in giudicato per tutti! Si capisce quindi perché nella nuova Messa è scomparso l’Offertorio, nel quale si precisava minutamente che il sacrificio era offerto per il perdono e l’espiazione dei nostri peccati, sostituito da una semplice presentazione di doni che diventeranno pane di vita e bevanda di salvezza.
Deve essere quindi ben saldo il concetto essenziale della Santa Messa, pur non trascurando gli altri aspetti, ma tutti in sott’ordine per cui viene chiamata anche Eucaristia, Cena del Signore, Frazione del pane,, celebrazione eucaristica, Memoriale della Passione della Morte e della Risurrezione del Signore, Santa e divina liturgia, Santi misteri, ecc. (cfr. Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica,  275).
Mons. Bugnini, artefice della nuova Messa ha dichiarato che sarebbe “una nuova creazione”. Non c’è dubbio: è così. Son partiti da zero demolendo tutto e ricostruendo dalle fondamenta. In una Messa siffatta non è raro che vi siano infiltrazioni spurie e abusivismi di ogni genere, che vanno dalla gestione da showman del prete, ai canti ritmici moderni accompagnati dalle ormai immancabili chitarre e ogni altro genere di strumento musicale, ai battimani, al tenersi per mano e a infinite altre variazioni carnevalesche a seconda della creatività e della fantasia del ‘presidente’ e dei suoi ausiliari. In molti casi la preoccupazione sembra solo quella di fare più festa possibile, credendo in questo modo di attirare la simpatia della gente, ma la gente se vuole divertirsi sa dove andare, senza recarsi in chiesa..
La liturgia è fatta di segni e simboli tramite i quali è possibile percepire il giusto significato di ciò che intende fare la Chiesa. Ogni segno ha la sua valenza e un senso preciso. Nulla è (dovrebbe essere) lasciato al caso o all’inventiva estemporanea, anche perché ciò che viene trattato è materia troppo delicata per lasciarla in balìa dell’improvvisazione. Pio XII avverte: “Non è possibile lasciare e all’arbitrio dei privati, siano pure essi membri del clero, le cose sante venerande che riguardano la vita religiosa della comunità cristiana, l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo e il culto divino, l’amore che si deve alla SS. Trinità, al Verbo incarnato, alla Sua Augusta Madre e agli altri santi, e alla salvezza degli uomini” (Mediator Dei, V).
Oggi tuttavia ogni prete si costruisce la Messa a sua misura, cosicché il fedele è disorientato e capisce solo che questa nuova Messa non è una cosa seria, e si domanda: “Ma come è stata possibile una tale metamorfosi? Come si fa a pensare che lo Spirito Santo abbia guidato la Chiesa in quella che già Paolo VI indicava come opera di autodistruzione? Queste sono le domande che ogni cattolico deve porsi urgentemente. Se chiedersi il perché delle cose è segno di intelligenza e di saggezza, a maggior ragione per un cristiano quando l’argomento tocca le verità di fede in cui crede per grazia di Dio; fede che deve difendere da ogni attacco da qualsiasi parte provenga. Il comune fedele tuttavia non ha i mezzi per questa difesa, anche perché gli attacchi sono condotti in modo subdolo, strisciante. Quasi sempre per esempio, e non solo per la Messa, ci hanno posti davanti al fatto compiuto, senza nemmeno spiegarci le ragioni del cambiamento. La Messa è stata cambiata con successivi colpi di scena, e spesso i fedeli non avevano il tempo di metabolizzare una riforma che già incalzava quella successiva. La rivoluzione liturgica, è stata uno stordimento generale, e, benché si avverta qualche debole segnale di frenata, non si vede ancora la via d’uscita, e per una semplice ragione: la nuova Messa è stata concepita con un intento ecumenico, quello cioè di avvicinare i tempi della riunificazione con i protestanti, ma poiché questa è ancora lontana, qualcuno pensa  di abbattere ciò che vi è rimasto d’inciampo. Ad esempio, in qualche ambiente cattolico serpeggia la teoria che Cristo sarebbe presente solo durante la celebrazione della Messa, sempre che a questa presieda pure il popolo, ma non lo sarebbe, posto nel tabernacolo nelle Specie conservate per l’adorazione. Tra noi e i protestanti c’è un diaframma: quello della fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.
La sacra Ostia ormai è circondata, assalita e profanata in ogni maniera. Ormai tutti i segni di attenzione e riverenza le sono stati rimossi. E’ l’eclissi della fede! Se prendiamo sotto gamba l’Eucaristia significa che non c’è più fede. Di questo fanno testo le statistiche che vedono un tracollo di presenze alla Messa festiva, ma pure l’ignoranza sui più elementari principi della nostra religione anche fra molti frequentatori della Chiesa. Purtroppo ancora, sono state introdotte, e ormai consolidate, abitudini che scivolano verso l’indifferenza nei riguardi del grande mistero e, se continua così ci troveremo fatalmente e senza avvedersene alle porte del protestantesimo.
Per accelerare il trapasso, hanno imposto, cosa inaudita, ai sacerdoti e ai vescovi di presentare le dimissioni dai loro incarichi, al compimento dei 75 anni. Ciò si configura come un controvalore dal punto di vista cristiano, e un adeguamento al mondo, quasi che il ministero del sacerdote fosse da equiparare ad una professione qualsiasi. Ciò avviene oggi, in piena crisi di vocazioni. In questo modo però si sono sbarazzati della vecchia generazione che poteva infastidire e opporre resistenza. Oggi, ormai, sono pochi i preti che hanno dimestichezza con il rito antico, e ai giovani non è data la possibilità di conoscerlo; su di esso è calato il silenzio, e sarebbe già tutto dimenticato se non fosse per l’accortezza, la preveggenza e il coraggio del vescovo francese Mons. Marcel Lefebvre e pochi altri a lui uniti, i quali hanno opposto resistenza con il preciso intento di salvare il sacerdozio e la Messa tradizionale cattolica.
Ma perché quella Messa sarebbe da salvare? Perché quella è la sola Messa veramente e totalmente cattolica, e fa parte della tradizione che, con la Bibbia attiene alla Rivelazione.
Non è un segreto che nella Commissione voluta da Paolo VI per rivedere tutto il rito della Messa e adeguarlo alle esigenze attuali, come era stato auspicato dal Concilio Vaticano II, facessero parte ben sei teologi protestanti. Non avevano funzioni decisionali, ma è facile capire che furono invitati intenzionalmente con lo scopo di dare alla Messa che si accingevano a riscrivere, un taglio che favorisse l’avvicinamento delle confessioni cristiane non cattoliche: in altre parole, un contenuto meno cattolico. Poteva essere diversamente? Tutto trae origine non dalla bizzarria di un qualche monsignore, no, bensì da un piano preciso messo in atto con lucidità. In ordine, ancora prima della Messa, c’è la nuova visione dell’ecumenismo in funzione del quale è stata modellata. In questo senso la Messa tradizionale cattolica ostacolava le nuove aperture ecumeniche che ormai il Concilio aveva spinto al largo. Non lo sappiamo, ma è evidente, che i desideri dei sei protestanti sono stati bene accolti.
Provate a dire che la Messa di Paolo VI è una Messa protestantizzante; minimo vi prendete del matto. Invece son proprio loro, i protestanti a dire che quella potrebbe essere la loro Messa: “D’ora in poi delle comunità non cattoliche potranno celebrare la Santa Cena con le stesse preghiere del ‘Novus ordo Missae’ della Chiesa Cattolica” (Courrier de Rome - n°49, Paris, 1969 - Riportato da ‘Chiesa viva’ n°254 p.9).
Ha dell’incredibile che la Messa cattolica sia stata sottoposta all’assenso di un gruppo di eretici! Pertanto, se la Messa di San Pio V è stata promulgata in modo speciale per creare una barriera contro le eresie di Lutero e dei suoi accoliti, la nuova Messa di Paolo VI abbatte queste barriere favorendo il più possibile la teologia luterana, o comunque protestante.
Nel suo intervento del 22.ottobre 1962, durante la prima sessione del Vaticano II, il cardinale Ottaviani protestò vivacemente contro le modifiche radicali che si volevano introdurre nella Santa Messa: “Cerchiamo noi, forse, di suscitare la sorpresa o piuttosto lo scandalo del popolo cristiano, introducendo modifiche in un rito venerabile, approvato durante tanti secoli e che è divenuto famigliare? Non conviene di trattare il rito della Messa quasi si trattasse di un pezzo di stoffa che si taglia per adattarlo alla moda, secondo la fantasia di ogni generazione”. (da ‘Chiesa viva n°90 p.8).
Mi sento correre un brivido nelle ossa quando leggo quella frase del suddetto card. Ottaviani, titolare del Dicastero del Sant’Uffizio, che introduce il  ‘Breve esame critico’ sulla nuova Messa, la quale rappresenterebbe nel suo insieme, come nei particolari “Un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica”.  Questa espressione è di una gravità estrema, perché afferma la nuova Messa contenere elementi spuri o dissimulare verità sostanziali. Come può essere?
Nel capitolo I (del Breve esame critico) c’è una affermazione che non può passare inosservata, ove è ripreso il giudizio sulla nuova Messa scritto su un periodico ‘destinato ai vescovi’, nel quale si dice che “Si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa. In sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto la teologia della Messa”.
Il card. Ottaviani dunque non è il solo a porre delle riserve, ma molti altri, compreso il Sinodo episcopale dell’ottobre 1967 (Nuova Messa ancora in fase sperimentale) che vide 109 vescovi su 187 opporsi o astenersi dal giudizio.
Nonostante queste resistenze il 26 novembre 1969 Paolo VI diede validità ufficiale al Novus Ordo Missae, rimuovendo, com’egli disse, quell’opaco diaframma che la Messa tradizionale “aveva disteso tra l’uomo e Dio” per poi esclamare: “Finalmente ci si prende gusto; finalmente il sacerdote parla ai fedeli e si vede che agisce con loro e per loro”.
Il card. Ottaviani non è stato ascoltato ma il suo documento resta a denunciare una svolta che ha dell’incredibile e testimonia la subalternità dell’episcopato a quel manipolo di vescovi e teologi progressisti tedeschi, belgi, francesi svizzeri e olandesi che hanno imposto le loro scelte al Concilio e dopo il Concilio.
Intanto proliferano gli abusi, la liturgia è nel caos. Qualche alto prelato si accorge della malaparata e arriva l’indulto (3 ottobre 1984) cioè la possibilità di celebrare l’antico rito previo consenso del vescovo titolare della diocesi, a sua insindacabile discrezione. A consolazione di quei pochi rimasti fedeli alla Messa Tridentina che praticamente era stata vietata ma contestualmente non decaduta. Nonostante questa concessione, la quasi totalità dei vescovi hanno reiteratamente negato a chi lo richiedeva, il permesso, eludendo persino gli appelli del Papa ad essere magnanimi verso chi era rimasto legato alla tradizione.
Col passare degli anni risulta sempre più evidente il deteriorarsi della liturgia. Interviene il Papa che parlando ai vescovi elvetici il 9 luglio 1982 deplora “Gli arbitrari esperimenti liturgici a cui i fedeli sono talora costretti ad assistere” (Jota Unum p. 602).
Se la esteriorità liturgica (musica, canto, paramenti, gesti, ecc.) è scesa a livelli di incuria  finora mai registrati  (Il Papa stesso assistette a cerimonie trasgressive, indecenti e oltraggiose) ciò che più preoccupa è la sostanza che struttura il rito.
a)     -  Il Motu Proprio “Summorum Pontificum”  Papa Benedetto XVI, con il Motu Proprio “Summorum Pontificum” in data 7 luglio 2007, concede la libertà a tutti i sacerdoti di celebrare la Santa Messa usando il messale romano di Pio V (edizione aggiornata del 1962) utilizzato sino al 1970 anno in cui venne sostituito da quello di Paolo VI oggi in uso in tutta la Chiesa. Il significato di tale atto è esplicitato in una lettera accompagnatoria indirizzata ai vescovi.
Non credo di sbagliarmi se giudico questa presa di posizione del Papa come un colpo di freno nella corsa ormai quasi cinquantennale della liturgia verso lo sfascio. Una frenata brusca che gli allegri preti cresciuti nella nuova era postconciliare, assistiti da un esercito di liturgisti specializzati, sempre in cerca di novità da sperimentare, da proporre e imporre, hanno accolto con stupore e forse con stizza e contrarietà. Mentre il clero più sobrio e riflessivo si è rallegrato constatando che finalmente qualcosa si muove per salvare ciò che di più sacro la Chiesa ha posseduto fin dai primi tempi e che dal generale naufragio postconciliare era miracolosamente scampato.
L’uscita del documento ha scatenato una valanga di apprezzamenti pro e contro, ma più contro che pro, perché, diciamo la verità, la Messa Tridentina dalla stragrande maggioranza del clero era considerata morta e sepolta e più nessuno pensava che potesse venire riesumata, tolti quei pochi esemplari di fauna paleolitica che viveva forzatamente nelle riserve confinatavi da vescovi che ostinatamente si rifiutavano di concedere ciò di cui questi meschini avevano diritto. Ma è venuta finalmente l’ora della verità.
Nessuno si illude, però, vista la fredda accoglienza, che sia facile l’attuazione della nuova norma. Se in pochi decenni erano riusciti a far dimenticare la S. Messa cattolica, ce ne vorranno almeno altrettanti per farla riemergere.
Mi astengo dai commenti del testo: l’hanno già fatto in troppi, dagli angoli più disparati e pure da persone lontane dalla Chiesa e non in grado di capire ciò che oggi propone. Vorrei solo accennare a due aspetti fondanti: uno viene dal Papa che nella lettera ai vescovi di cui sopra afferma che “Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del ‘Missale Romanum’. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura”. Così è sempre stato, ma non è detto che lo sia anche in questo caso; bisogna dimostrare che nella liturgia, dal Concilio in poi c’è stata crescita vera. O fa comodo dirlo, per giustificare una situazione di fatto? Nella Messa Tridentina nessuno ha trovato alcunché che non fosse in perfetta conformità alla dottrina cattolica. Per le ragioni già dette, hanno imposto un nuovo indirizzo portando la Chiesa veramente fuori dal solco della dottrina tradizionale. Del resto, il vero senso di un ripristino non può essere altro che, anche se mascherata, una ammissione di aver ritrovato la strada giusta.
Se certuni vedono il Papa come colui che ha riportato indietro l’orologio del Concilio, per il cardinale  Castrillon Hoyos, Prefetto della Congregazione per il clero e presidente della commissione Ecclesia Dei, “Non si tratta di un passo all’indietro, ma di una offerta generosa del Vicario di Cristo”.
Non lo si vuole ammettere, ma è stato veramente un provvidenziale passo indietro, un piccolo passo doveroso! Ma non è nemmeno una “concessione generosa del Papa”; è invece il riconoscimento di un diritto sacrosanto dei fedeli cattolici, perché è stato un tragico abuso aver accantonato la Messa tradizionale. Questo spero sia pure il pensiero del Papa.
Se infatti la Messa conciliare fosse un “progresso” non vi sarebbe motivo di affiancarle la vecchia Messa, posto che questa fosse rimasta un passo indietro. La realtà è diversa, e lo scadimento dal punto di vista teologico, pastorale e liturgico della nuova Messa è fin troppo evidente.
L’altro aspetto, viene da chi teme che “Il ritorno alla Messa in latino si potrebbe configurare come un ‘cavallo di Troia’ per proclamare il rifiuto del Vaticano II e dei Papi successivi a Pio XII”. (Mons. A. Contri in ‘Verona Fedele”,  5 agosto 2007). In questa insinuazione si avverte un processo alle intenzioni del Papa, ma comunque non si può escludere a priori che qualcosa di vero ci sia. Ma io mi chiedo: cosa c’è dietro questo timore? Il ritorno nel solco della tradizione? Significherebbe che il Concilio ha rappresentato un cambiamento di rotta e si è allontanato dalla tradizione, in barba a ciò che era il desiderio dell’ideatore del Concilio, e ciò che non vuol sentir dire Benedetto XVI che parla sempre di continuità nell’insegnamento della Chiesa.
La questione che si pone ora e che viene portata in evidenza dal Papa nella lettera ai vescovi che accompagna il Motu Proprio, è quella di un unico rito che si esprimerebbe in due modi. In sostanza l’antico e il nuovo rito della Messa avrebbero uguale dignità e uguale valore, sarebbe l’unico rito della Chiesa Cattolica Romana, in virtù del fatto che nella Chiesa non c’è soluzione di continuità, ma crescita nella tradizione.
Ora, il Papa fa questa enunciazione in modo solenne, per cui sembra che nell’uno e nell’altro modo di celebrare la Messa, tutto coincida perfettamente. Se così fosse, nulla vi sarebbe da eccepire e sarebbe del tutto logico lasciare ai preti e ai fedeli la massima libertà di scelta creando pari opportunità.
Del resto, che motivo c’era di dichiarare che il rito ufficiale rimane quello postconciliare, mentre l’antico sarebbe extra-ordinario? Se hanno lo stesso valore e la stessa dignità perché non parificarli anche nella pratica attuazione? Perché sottoporsi al vaglio dei parroci riluttanti con il rischio concreto di sentirsi respinta ogni lecita richiesta? Infatti sembra che addirittura l’80% dei vescovi si siano dichiarati contrari al Motu Proprio perché convinti che l’unica Messa consentita dovrebbe essere quella conciliare mentre sarebbe decaduta la validità dell’antico rito; per loro c’è una sola Messa: quella del Messale di Paolo VI. Se così tanti vescovi si ribellano al Papa, figuriamoci quanti preti saranno inorriditi da tanta sconsideratezza di Benedetto XVI, convinti come non mai che le due Messe siano fra loro inconciliabili, così come scrive un missionario: “ I modi di celebrare previsti dai due messali (quello di Paolo VI e quello di Pio V) sono assai diversi. Si potrebbero confrontare parola per parola, gesto per gesto. Tra l’uno e l’altro c’è stato un Concilio Ecumenico che è approdato ad una riforma liturgica soppesata e sofferta, dopo molte riflessioni e dibattiti. Parificare l’uso dei due messali corrisponde a dichiarare, nonostante le affermazioni contrarie, praticamente le riforme del Vaticano II “un optional”. (Paolo Bagattini, sulla rivista dei Padri Stimmatini di Verona “Il Missionario” – in un editoriale).

   “Come ha annotato nel suo diario il card. Antonelli, un membro molto importante del CONSILIUM che intraprese la revisione della liturgia dopo il Concilio, alcuni cambiamenti liturgici sono stati introdotti senza tanta riflessione, a casaccio, e fatti diventare successivamente una pratica accettata. Per esempio, la Comunione sulla mano non è stata studiata prima correttamente e non si è riflettuto prima che la Santa Sede l’accettasse. Essa è stata introdotta a casaccio in alcuni paesi del nord Europa e solo più tardi è diventata una pratica accettata, poi diffusasi in molti altri posti. Si tratta di una cosa che avrebbe dovuto essere evitata. Il Concilio Vaticano II non ha mai sostenuto un simile metodo per la riforma liturgica.”. Parole di mons. Ranjit (Segretario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti) in una intervista rilasciata ad Antony Valle, vaticanista del periodico ‘INSIDE THE VATICAN’.

Riflettiamo:

1) Lo Stimmatino di cui sopra, afferma che la riforma liturgica postconciliare è stata soppesata e sofferta dopo molte riflessioni e dibattiti? Il monsignore della Congregazione per il culto divino dice invece che si è agito con leggerezza, senza riflessione, a casaccio. Dove sta dunque la verità? Non è sfuggito a nessuno che i riformisti hanno avuto una gran fretta di “riformare”!

2) Sembra che tra un messale e l’altro vi sia un abisso (il Concilio). La Messa dunque non è più quella di prima, ci tengono a dire i progressisti. Ed è vero, nonostante gli sforzi del Papa per dimostrare il contrario.

3) Se è veramente così, i riformisti postconciliari non sono stati alle direttive del Concilio, che non chiedeva di rompere con la tradizione ma di appoggiare le riforme su di essa.

4) La riforma della Messa scaturita dal Vaticano II è un optional? Ebbene, si; è così!

   “Non si comprende perché il messale di Pio V, che avrebbe sfigurato una non meglio specificata, nel tempo e nella struttura, visione della celebrazione eucaristica, sia stato rappresentativo fino al 1970 - data precisa - mentre non possa più essere rappresentativo della Chiesa odierna, anzi sia da essa ed in essa inaccettabile. Se vale ancora, e per noi vale, il principio lex orandi - lex credendi, dovremmo trarne che nel 1970 la Chiesa è cambiata, non è più quella di prima. Anche la Santa Messa, allora, sarebbe cambiata nella sua essenza. Dovremmo, quindi, ammettere che nel 1970 c’è stata una frattura: la nascita di quella Chiesa conciliare di cui il Cardinal Benelli scriveva a mons. Lefebvre, non in continuazione ma in opposizione alla Chiesa di sempre”. ( Dante Pastorelli, su “Una voce” gennaio-aprile.2007).

   Dunque: c’è stata una rottura con la tradizione? Per il passato non si era mai verificato, ma con il Concilio Vaticano II sembra che ciò sia avvenuto; lo sostengono per ragioni diverse sia i conciliaristi sia i tradizionalisti, gli uni perché non ne vogliono sapere di tradizione e vedono il futuro della Chiesa solo nel nuovo e nel moderno, gli altri perché vedono che effettivamente per molti versi, specie nella liturgia, la Chiesa è già cambiata, la frattura esiste ed è agevolmente constatabile.

   Il summenzionato Dante Pastorelli nel suo ragionare non molla: “Qualcuno crede che col Vaticano II sia nata una nuova Chiesa, noi no: sfrondati di molte parole che li rendono in qualche punto ambigui, i documenti del Vaticano II possono e devono essere interpretati alla luce della tradizione per collocarsi nel solco della verità bimillenaria. Insomma (...) noi crediamo e professiamo che la Chiesa Cattolica continua ad essere quella fondata da Cristo e che la s.Messa continua ad essere il Sacrificio di Gesù, Sacrificio di lode, soddisfazione, propiziazione, che in modo incruento, sacramentale, si rinnova, si ripresenta, si ripete sull’altare”.

   La gran parte dei cattolici, oggi, posto che abbiano sentito parlare della cosiddetta ‘Messa in latino’ nemmeno ha l’idea di cosa si tratta e molti penseranno che si tratti di un vecchio rottame da non prendere in considerazione; saranno rimasti sorpresi di fronte all’iniziativa del Papa che ha voluto il Motu Proprio riportando a galla l’antica Messa. Molti, soprattutto preti, vedono questa Messa come un corpo estraneo, e il documento papale un provvedimento inopportuno che viene a gravare sul già troppo lavoro dei parroci, ai quali è affidato il compito di accordare il consenso di celebrare in ottemperanza a quanto stabilito dal Motu Proprio. Io so, quanto molti parroci siano repulsivi verso le richieste di gruppi e movimenti; diranno: ‘Ora ci si mette anche il Papa con questa novità che ci fa temere altre pretese, perciò altri fastidi e altre divisioni’. Molti preti che hanno sempre ostacolato questa Messa, vedranno il Motu Proprio come una imposizione e se acconsentiranno lo faranno per obbedienza, non per convinzione, perciò senza entusiasmo e in loro stessi aumenterà la ripugnanza a celebrare ‘in latino’ la Messa Tridentina; e mentre si commuovono fino alle lacrime nell’assistere alle fastose e interminabili liturgie degli ortodossi, rimangono freddi e impassibili di fronte alla liturgia cattolica.

   Ora sono stati ripristinati i diritti della Messa Cattolica, tuttavia non sono cancellate le ombre sulla Messa conciliare. Perciò è da augurarsi che la prima riacquisti il suo posto di preminenza assoluta nella liturgia, come lo è sempre stato.

   Comunque diamo atto al Papa di aver affrontato con coraggio la questione, ma obiettivamente siamo ancora lontani dalla possibilità di attuazione concreta e libera; altri nodi vanno risolti: dal ritorno alla teologia classica e allo studio del latino obbligatorio per tutti, nei seminari, e quindi alla preparazione dei presbiteri a celebrare anche con il messale di s.Pio V, alla concessione non condizionata e alla sottomissione dei vescovi al Papa, ecc.

   Mons. Contri, già citato, sostiene che le preghiere eucaristiche del canone del nuovo messale, dicono “di più - e non qualcosa di diverso - del canone romano”; e chiede ai conservatori: “Quali elementi non accettabili trovate nelle modifiche apportate dal collegio dei vescovi col Papa nella Lex orandi? (Verona Fedele 5.agosto.2007). A tal proposito propongo di seguito uno specchio da cui il monsignore potrà facilmente desumere quanto la Messa postconciliare di Paolo VI sia lontana dalla Messa tradizionale di s.Pio V. Unito a queste testimonianze, in appendice, propongo il famoso “Breve esame critico”, dei cardinali Ottaviani e Bacci. “Il nuovo rito  secondo il meditato giudizio del dotto studioso (Michael Davies), non è uno sviluppo dell’antico nel senso descritto dal cardinale Newman, ma un tentativo per adattare la Messa Cattolica secondo un concertato programma che si propone di formulare una liturgia ecumenica che sia accettabile ai cattolici e ai protestanti”.

    A questo scopo sono state offerte molte opzioni; il vernacolo ha soppiantato il bimillenario latino; la mensa ha sostituito l’altare (si ricorda che Ridley vescovo di Rochester e i riformatori inglesi infierirono contro gli altari, distruggendoli, per cancellare ogni traccia di sacrificio); l’accento è stato posto sulla commemorazione dell’ultima cena anzichè sulla rinnovazione incruenta del sacrificio della croce; e molte altre preghiere che nel rito tradizionale mettevano in rilievo il carattere sacrificale della Messa e la presenza reale, sono state soppresse. Se non vi fosse stato lo scopo di adattare, in qualche modo, il rito della S.Messa nel senso d’un equivoco ecumenismo, perché hanno invitato sei liturgisti protestanti a partecipare come osservatori nel ‘Consilium ad exsequendam constitutionem de sacra liturgia’?

   Michael Davies non contesta la validità del Novus Ordo Missae, ma dimostra, in maniera inconfutabile, che è ambiguo, soprattutto perché la natura sacrificale della Messa e la dottrina della presenza reale sono state così attenuate e ridotte al minimo da riuscire accettabile ad alcuni protestanti, ed è usato di fatto, da certi vescovi e ministri anglicani, senza che si ritengano obbligati a ripudiare le loro eretiche persuasioni religiose.

   Infatti, “mentre i protestanti di tutte le sette e sfumature respingono il rito tradizionale o tridentino, perché chiaramente esprime e afferma i dogmi dell’incruenta rinnovazione del Sacrificio del Calvario e della Presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, non pochi pastori e teologi protestanti accolgono e usano il Novus Ordo Missae, perché queste dottrine fondamentali, attraverso le molte opzioni e l’omissione di alcune preghiere, sono state minimizzate”. (Da uno scritto di don Giuseppe Mizzi, su ‘Chiesa viva’ n°123 del 1982).

Max Thurian, della Comunità calvinista di Taizè, ha dichiarato che egli poteva, ora, celebrare la nuova Messa cattolica, mentre, prima, gli era impossibile di celebrarla. (da : “ la nuova Chiesa di Paolo VI” p.292 di Luigi Villa).
 “La riforma liturgica ha fatto un passo notevole in avanti: essa s’è avvicinata alle forme liturgiche della Chiesa Luterana”.  (L’Osservatore Romano del 13 ottobre 1969. L. Villa: c.s. pag.293).
Il Papa dice, nella lettera che accompagna il Motu Proprio, che “non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Messale Romano: nella storia della liturgia c’è crescita e progresso,  ma nessuna rottura”. Allora :
1)    Se nel nuovo Ordo Missae c’è crescita e progresso rispetto a quello antico, perché promuovere quest’ultimo alla stessa dignità di quello nuovo? Il buon senso direbbe che se il vecchio è superato, si usa il nuovo e si lascia il vecchio proibendone l’uso. Parificarlo è un’operazione contraddittoria.
2)    Se è vero, come è vero, che il Novus Ordo ha protestantizzato la Messa Cattolica, l’unica cosa da fare era quella di ritornare sui propri passi, cioè non parificare i due riti, ma ritornare all’unico rito interamente e perfettamente cattolico, cioè quello di San Pio V.
3)    Non c’è ragione che da un Concilio orientato all’unità dei Cristiani siano scaturiti due riti che hanno suscitato divisione nella Chiesa.

Fonte:

http://radiospada.org/

Jean-Baptiste Guiraud, Elogio della Inquisizione.

 
Articolo apparso sul n. 239 di Cristianità





Jean-Baptiste Guiraud.

I pregiudizi sulla storia della Chiesa sono numerosi e tenaci, radicati non solo nei ceti intellettuali più sensibili alle influenze della cultura laicista ma anche in molti cattolici, affetti da un ingiustificato complesso d’inferiorità a causa di una scarsa conoscenza della loro storia.
Esempio classico del radicamento di tali pregiudizi è l’esistenza, ancora oggi, di una "leggenda nera" sull’Inquisizione, costruita dall’Europa protestante nel Cinquecento, alimentata dai libelli degli illuministi nel Settecento e ripresa dalla letteratura popolare ottocentesca di ispirazione massonica. Eppure l’Inquisizione, grazie alla prescrizione, sempre rispettata, di mettere per iscritto le fasi della procedura, le deposizioni e le testimonianze, è una delle poche istituzioni del passato su cui è disponibile una quantità di dati tale da rendere impossibile ogni travisamento storico. Infatti, gli studiosi che negli ultimi anni hanno cominciato a esplorare l’imponente documentazione archivistica si sono trovati, con stupore, al cospetto di tribunali dotati di regole eque e di procedure non arbitrarie, di corti giudiziarie pronte a sconsigliare l’uso della tortura o a scoraggiare denunce infondate e delazioni, di organismi molto più miti e indulgenti dei tribunali civili del tempo. Inoltre, sebbene certa propaganda insista sul carattere ideologico e totalitario dell’Inquisizione, è sempre più evidente l’abisso esistente fra i metodi propri di questa istituzione e i sistemi di controllo delle persone e di manipolazione delle coscienze messi in atto negli Stati moderni.
Tuttavia, se l’immagine dell’Inquisizione sta mutando, e in senso favorevole, presso gli specialisti, i risultati della rinnovata ricerca storica sono poco conosciuti al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Pertanto è quanto mai opportuna l’iniziativa della casa editrice Leonardo, che ha dato alle stampe il volume Elogio della Inquisizione — traduzione della voce Inquisition, scritta da Jean-Baptiste Guiraud per il Dictionnaire apologétique de la foi catholique, edito fra il 1911 e il 1913 —, allo scopo di mettere a disposizione di un vasto pubblico un testo noto finora soltanto ai frequentatori di biblioteche specializzate.
L’opera, curata da Rino Cammilleri, reca un Invito alla lettura (pp. 5-12) di Vittorio Messori, che traccia anzitutto un profilo biografico dell’autore, "cattolico a visiera alzata, che pagò di persona per le sue convinzioni, eppure lontano — da quello storico vero che era — da ogni doppia verità, da ogni forzatura di apologeta fazioso" (p. 12).
Jean-Baptiste Guiraud nasce nel 1866 nell’Aude, dipartimento della Francia meridionale che ha come capoluogo Carcassonne, frequenta l’École Normale Supérieure di Parigi e l’École Française di Roma e intraprende la carriera universitaria, diventando titolare della cattedra di Storia Medioevale presso l’Università di Besançon. Storico appassionato della Chiesa, e in particolare del Medioevo, nonché militante di combattivi organismi del laicato cattolico, si schiera sia con gli scritti, volti a ristabilire la verità storica gravemente travisata dalla cultura laicista dominante, sia con una serie di iniziative tese a difendere la scuola libera, contro la politica anticattolica della Terza Repubblica francese. "Questa sua lotta gli costò la carriera universitaria, già messa in pericolo dal taglio giudicato "intollerabilmente cattolico" delle opere, pur rigorosamente scientifiche, pubblicate nel frattempo sui temi di storia religiosa medioevale di cui era specialista. [...] Come non mancò di notare lo stesso Guiraud, dalla cultura che della "leggenda nera" sull’Inquisizione cattolica aveva fatto un suo cavallo di battaglia, giungeva un provvedimento di censura delle idee e di repressione di atteggiamenti non in linea con i dogmi ufficiali" (p. 6). Costretto a lasciare l’insegnamento, è redattore capo del quotidiano cattolico La Croix fino al 1939, quando riprende gli studi storici, peraltro mai abbandonati del tutto. Fra le sue opere principali vanno ricordate L’Inquisition médiévale (ultima edizione, Tallandier, Parigi 1978), pubblicato in Italia nel 1933 (L’Inquisizione medievale, Corbaccio, Milano), e Histoire de l’Inquisition au Moyen Âge (2 voll., Picard, Parigi 1935), incompiuta alla data della morte, avvenuta nel 1953.
Vittorio Messori spiega, quindi, che la scelta di tradurre e di pubblicare in Italia la voce Inquisition del Dictionnaire apologétique de la foi catholique — una "miniera che, malgrado il tempo trascorso e il cambiamento di clima nella Chiesa, sembra ben lungi dall’essere esaurita" (p. 8) — non è finalizzata al "recupero archeologico" (p. 11) di un testo ormai datato, ma vuole rappresentare un punto di partenza e offrire un’intelaiatura generale ancora valida per un primo approccio allo studio dell’Inquisizione.
Nei primi due capitoli — L’Inquisizione: una risposta cattolica (pp. 15-26) e Istituzione dell’Inquisizione (pp. 27-36) — Jean-Baptiste Guiraud descrive la nascita dell’Inquisizione, alla fine del secolo XII, dimostrando come essa rappresentasse la risposta della Chiesa agli eccessi di movimenti ereticali che non si limitavano a propugnare deviazioni di contenuto esclusivamente teologico — contrastati fino ad allora sul piano dottrinale e solo con mezzi spirituali — ma insidiavano mortalmente la società civile. La ferma riprovazione dei civili contro le vessazioni degli eretici costrinse le autorità ecclesiastiche a intervenire, anzitutto per controllare e frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario discernimento, dai tribunali laici, che si illudevano di risolvere il problema inviando con disinvoltura gli eretici al rogo.
Nel terzo e nel quarto capitolo — Dottrine degli eretici (pp. 37-58) e La Chiesa e gli eretici medioevali (pp. 59-65) — l’autore si sofferma sui contenuti delle dottrine eterodosse più diffuse alla fine del Medioevo, dedicando attenzione particolare al catarismo, che "[...] non era, come le eresie precedenti, un’interpretazione eterodossa di questo o quel dogma cristiano. Era un sistema religioso completo [...]. Non c’è dunque da stupirsi che abbia cozzato frontalmente contro l’ordine sociale del Medioevo fondato sul cristianesimo. Di più: la sua concezione profondamente pessimistica della vita lo poneva contro qualunque ordine sociale" (p. 39).
Il pericolo era rappresentato soprattutto dalla condanna del mondo materiale, che implicava il divieto assoluto di procreare e, come culmine della perfezione, il suicidio rituale, e dal rifiuto di prestare giuramento, che comportava il dissolvimento del legame feudale, uno dei capisaldi della società medioevale. A questo proposito Jean-Baptiste Guiraud cita una nota affermazione dello scrittore protestante Henry Charles Lea, pur poco benevolo nei confronti dell’Inquisizione, secondo il quale in quei tempi "la causa dell’ortodossia non era altro che quella della civiltà e del progresso" (Storia dell’Inquisizione. Fondazione e procedura, trad. it. del primo volume, Bocca, Torino 1910, p. 118). L’autorità temporale e quella spirituale, dopo aver agito a lungo separatamente — la prima con i suoi tribunali, l’impiccagione e il rogo, la seconda con la scomunica e le censure ecclesiastiche — finirono per unire i loro sforzi in un’azione comune contro l’eresia. L’Inquisizione medioevale, dunque, è definita dall’autore come "un sistema di misure repressive, le une di ordine spirituale, le altre di ordine temporale, emanate simultaneamente dall’autorità ecclesiastica e dal potere civile per la difesa dell’ortodossia religiosa e dell’ordine sociale, ugualmente minacciati dalle dottrine teologiche e sociali dell’eresia" (p. 64). Le tappe attraverso cui prende corpo il nuovo organismo — la costituzione Ad abolendam di Papa Lucio III, nel 1184, che obbligava tutti i vescovi a visitare due volte l’anno le loro diocesi alla ricerca degli eretici, l’istituzione della cosiddetta Inquisizione "legatina" da parte di Papa Innocenzo III, che inviò i monaci dell’Ordine Cistercense a predicare nei paesi più colpiti e a disputare pubblicamente con gli eretici, la costituzione Excommunicamus di Papa Gregorio IX, nel 1231, con cui erano nominati i primi inquisitori permanenti, scelti in preferenza fra i domenicani e i frati minori — sono descritte nei capitoli quinto e sesto, Organizzazione dell’Inquisizione (pp. 67-78) e L’Inquisizione monastica (pp. 79-90).
Negli ultimi quattro capitoli — Procedura dell’Inquisizione (pp. 91-102), Tortura? (pp. 103-114), La leggenda nera (pp. 115-124) e Gli argomenti dei detrattori (pp. 125-133) — Jean-Baptiste Guiraud fà giustizia dei più noti luoghi comuni che hanno contribuito alla costruzione della "leggenda nera" sull’Inquisizione. Il lettore apprenderà, fra l’altro, che l’Inquisizione era tutt’altro che un tribunale di sadici, che seguiva una procedura molto rigorosa, che era competente a giudicare solo i battezzati e che dunque gli ebrei e i musulmani non ricadevano sotto la sua giurisdizione. L’Inquisizione del secolo XIV inventa la giuria, consilium che consente all’imputato di essere giudicato da un collegio numeroso, e altri istituti in favore del condannato, come la semi-libertà, la licenza per buona condotta e gli sconti di pena. Inoltre, è falsa l’immagine dell’inquisitore feroce e ignorante: gli inquisitori erano, in genere, persone dotte, oneste e di costumi irreprensibili, non inclini a decidere in poche ore e arbitrariamente sulla sorte dell’imputato, volti invece ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare in seno alla Chiesa. "Ricondurre all’ortodossia un eretico era per loro una grande gioia e, anziché abbandonarlo al braccio secolare e a una morte che uccideva anche ogni speranza di conversione, preferivano molto di più far ricorso a quelle penitenze canoniche e sanzioni temporali che gli avrebbero dato la possibilità di emendarsi" (pp.110- 111). Falsa è anche l’affermazione secondo cui si faceva un uso generalizzato e indiscriminato della tortura, cui gli inquisitori del secolo XIV, a differenza dei giudici civili, ricorrevano raramente e nel rispetto di regole molto severe. L’immagine popolare secondo cui i tribunali inquisitoriali erano teatro di raffinatissime scene di crudeltà, di modi ingegnosi di infliggere l’agonia e di un’insistenza criminale nell’estorcere le confessioni, è l’esito della propaganda degli scrittori a sensazione, che hanno sfruttato la credulità di molti.
Falsa, infine, è l’immagine dell’Inquisizione come tribunale sanguinario. Lo spoglio statistico delle sentenze, da cui si ricava la bassa percentuale delle condanne, soprattutto di quelle alla pena capitale, ha ormai dimostrato che questa tesi è infondata, confermando quanto sostenuto da Jean-Baptiste Guiraud nell’Epilogo (pp. 135-151). L’Inquisizione perseguiva lo scopo di correggere e di riavvicinare alla fede l’eretico: "Ciò spiega perché essa imponeva penitenze di ordine spirituale che potessero inclinare il condannato alla pietà, perché attenuava le pene più gravi quando trovava in lui indizi di ravvedimento morale e perché abbandonava al braccio secolare, cioè alla morte, i recidivi che, essendo tornati ai loro errori, facevano perdere ogni fiducia nella loro conversione e nella loro sincerità" (p. 143).
Il volume si chiude con una Bibliografia (pp. 153-164) delle fonti utilizzate o segnalate dall’autore e con preziose Integrazioni bibliografiche (pp. 165-189), redatte da Marco Invernizzi e da Oscar Sanguinetti, che offrono una rassegna ragionata delle correnti storiografiche sul tema e suggeriscono "[...] alcune "piste" di indagine, da utilizzare nel caso si vogliano approfondire i diversi aspetti di un fenomeno plurisecolare e dalle molteplici peculiarità a seconda dei luoghi e dei contesti storici nel quale si è esplicato" (p. 165).
I due ricercatori distinguono accuratamente l’istituzione sorta nel secolo XIII, la cosiddetta Inquisizione medioevale, dall’Inquisizione spagnola, creata da Papa Sisto IV, nel 1478, su sollecitazione di Isabella di Castiglia e di Ferdinando d’Aragona, e dalla Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione, istituita da Papa Paolo III, nel 1542, e, sulla scia dello storico inglese Henry Arthur Francis Kamen, notano come "[...] l’Inquisizione fosse espressione del passaggio da una società contraddistinta dalla convivenza fra le diverse comunità religiose a un’altra sempre più contrassegnata da conflitti, e come essa fosse la risposta della Chiesa e della cristianità alla minaccia rappresentata dall’eresia (Catari e Albigesi) e, successivamente, in Spagna, dalle false conversioni di giudei e musulmani" (pp. 167-168).
Attenzione particolare è dedicata proprio alla storiografia sull’Inquisizione spagnola, che ha prodotto negli ultimi decenni rilevanti contributi, sostanziati da approfondite ricerche d’archivio, che hanno consentito di superare i pregiudizi di carattere ideologico. È oramai evidente che il ruolo svolto dai tribunali inquisitoriali fu decisivo per assicurare la pace sociale e religiosa in Spagna e che non può essere sottovalutata la portata di tale impresa, che costituì una nazione spiritualmente compatta di fronte alla Francia lacerata dalle guerre di religione, all’Inghilterra sulla strada dell’eresia e al sultano difensore del mondo islamico.
Analoghe considerazioni valgono per l’Inquisizione "romana", che rappresentò nella penisola italiana un bastione invalicabile contro ogni deviazione dottrinale e che ha difeso il patrimonio spirituale del popolo italiano, contribuendo alla vittoria della Contro-Riforma sull’Umanesimo, sul Rinascimento e sulla Rivoluzione protestante.
Francesco Pappalardo

La "leggenda nera" su Galileo

 
Vittorio Messori,
da Pensare la storia, Ed. Paoline 1992, pp. 383-397
178. Galileo Galilei



Galileo Galilei.

Stando a un'inchiesta dei Consiglio d'Europa tra gli studenti di scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato sottoposto a tortura. Coloro - non molti, in verità - che sono in grado di dire qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come frase "sicuramente storica", un suo "Eppur si muove!", fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura della sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con gli anatemi teologici.
Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter datare esattamente almeno quest'ultimo falso: la "frase storica" fu inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.
Il 22 giugno del 1633, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza, il Galileo "vero" (non quello del mito) sembra mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali - tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto - per la mitezza della pena. Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici - tra i quali c'erano uomini di scienza non inferiore alla sua - assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito con una approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere.
Di più: nei quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua certezza che la Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento. Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo "scuotimento" delle acque provocato dal moto terrestre. Tesi risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un'altra che Galileo giudicava "da imbecilli": era, invece, quella giusta. L'alzarsi e l'abbassarsi dell'acqua dei mari, cioè, è dovuta all'attrazione della Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal Pisano.
Altri argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del Sole e sul moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe portare. Né c'è da stupirsi: il Sant'Uffizio non si opponeva affatto all'evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione, bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco.
In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il "novatore" Copernico, condannato invece da Lutero.
Del resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree, ma già era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618, erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati appunto alla sua "scommessa" copernicana, si era ostinato a dire che si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli astronomi gesuiti della Specola romana che invece - e giustamente - sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali. Si sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche questo è in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.
Niente frasi "titaniche" (il troppo celebre "Eppur si muove!") comunque, se non nelle menzogne degli illuministi e poi dei marxisti - vedasi Bertolt Brecht - che crearono a tavolino un "caso" che faceva (e fa ancora) molto comodo per una propaganda volta a dimostrare l'incompatibilità tra scienza e fede.
Torture? carceri dell'Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui, gli studenti europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Anzi, convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al Pincio. Da lì, il "condannato" si trasferì come ospite nel palazzo dell'arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo "Il gioiello".
Non perdette né la stima né l'amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro - Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze che è il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d'Europa passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali. Questa "pena", in realtà, era anch'essa scaduta dopo tre anni, ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che, ben lungi dall'ergersi come difensore della ragione contro l'oscurantismo clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla fine della vita: "In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa".
Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell'indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era l'8 gennaio 1642, nove anni dopo la "condanna" e dopo 78 di vita. Una delle due figlie suore raccolse la sua ultima parola. Fu: "Gesù!".
1 suoi guai, del resto, più che da parte "clericale" gli erano sempre venuti dai "laici": dai suoi colleghi universitari, cioè, che per invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La difesa gli venne dalla Chiesa, l'offesa dall'Università.
In occasione della recente visita del papa a Pisa, un illustre scienziato, su un cosiddetto "grande" quotidiano, ha deplorato che Giovanni Paolo II "non abbia fatto ulteriore, doverosa ammenda dell'inumano trattamento usato dalla Chiesa contro Galileo". Se, per gli studenti del sondaggio da cui siamo partiti, si deve parlare di ignoranza, per studiosi di questa levatura il sospetto è la malafede. Quella stessa malafede, del resto, che continua dai tempi di Voltaire e che tanti complessi di colpa ha creato in cattolici disinformati. Eppure, non solo le cose non andarono per niente come vuole la secolare propaganda; ma proprio oggi ci sono nuovi motivi per riflettere sulle non ignobili ragioni della Chiesa. Il "caso" è troppo importante, per non parlarne ancora.

179. Galileo Galilei /2Il Galilei - alla pari, del resto, di un altro cattolico fervente come Cristoforo Colombo - convisse apertamente more uxorio con una donna che non volle sposare, ma dalla quale ebbe un figlio maschio e due femmine. Lasciata Padova per ritornare in Toscana, dove gli era stata promessa maggior possibilità di far carriera, abbandonò in modo spiccio (da qualcuno, anzi, sospettato di brutalità) la fedele compagna, la veneziana Marina Gamba, togliendole anche tutti i figli. "Provvisoriamente, mise le figliuole in casa del cognato, ma doveva pensare a una oro sistemazione definitiva: cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio. Galileo pensò allora di monacarle. Senonché le leggi ecclesiastiche non permettevano che fanciulle così giovani facessero i voti, e allora Galileo si raccomandò ad alti prelati per poterle fare entrare egualmente in convento: così, nel 1613, le due fanciulle - una di 13 e l'altra di 12 anni - entravano nel monastero di San Matteo d'Arcetri e dopo poco vestirono l'abito. Virginia, che prese il nome di suor Maria Celeste, riuscì a portare cristianamente la sua croce, visse con profonda pietà e in attiva carità verso le sue consorelle. Livia, divenuta suor Arcangela, soccombette invece al peso della violenza subita e visse nevrastenica e malaticcia" (Sofia Vanni Rovighi).
Sul piano personale, dunque, sarebbe stato vulnerabile.
"Sarebbe", diciamo, perché, grazie a Dio, quella Chiesa che pure lo convocò davanti al Sant'Uffizio, quella Chiesa accusata di un moralismo spietato, si guardò bene dal cadere nella facile meschineria di mescolare il piano privato, le scelte personali del grande scienziato, con il piano delle sue idee, le sole che fossero in discussione. "Nessun ecclesiastico gli rinfaccerà mai la sua situazione familiare. Ben diversa sarebbe stata la sua sorte nella Ginevra di Calvino, dove i "concubini" come lui venivano decapitati" (Rino Canimilleri).
E' un'osservazione che apre uno spiraglio su una situazione poco conosciuta. Ha scritto Georges Bené, uno dei maggiori conoscitori di questa vicenda: "Da due secoli, Galileo e il suo caso interessano, più che come fine, come mezzo polemico contro la Chiesa cattolica e contro il suo "oscurantismo" che avrebbe bloccato la ricerca scientifica". Lo stesso Joseph Lortz, cattolico rigoroso e certo ancora lontano da quello spirito di autoflagellazione di tanta attuale storiografia clericale, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della Chiesa, cita, condividendola, l'affermazione di un altro studioso, il Dessauer: "Il nuovo mondo sorge essenzialmente al di fuori della Chiesa cattolica perché questa, con Galileo, ha cacciato gli scienziati".
Questo non risponde affatto alla verità. Il temporaneo divieto (che giunge peraltro, lo vedremo meglio, dopo una lunga simpatia) di insegnare pubblicamente la teoria eliocentrica copernicana, è un fatto del tutto isolato: né prima né dopo la Chiesa scenderà mai (ripetiamo: mai) in campo per intralciare in qualche modo la ricerca scientifica, portata avanti tra l'altro quasi sempre da membri di ordini religiosi. Lo stesso Galileo è convocato solo per non avere rispettato i patti: l'approvazione ecclesiastica per il libro "incriminato", i Dialoghi sopra i massimi sistemi, gli era stata concessa purché trasformasse in ipotesi (come del resto esigevano le stesse ancora incerte conoscenze scientifiche del tempo) la teoria copernicana che egli invece dava ormai come sicura. Il che non era ancora. Promise di adeguarsi: non solo non lo fece, dando alle stampe il manoscritto così com'era, ma addirittura mise in bocca allo sciocco dei Dialoghi, dal nome esemplare di Simplicio, i consigli di moderazione datigli dal papa che pur gli era amico e lo ammirava.
Galileo, quando è convocato per scolparsi, si sta occupando di molti altri progetti di ricerca, non solo di quello sul movimento della Terra o del Sole. Era giunto quasi ai settant'anni avendo avuto onori e aiuti da parte di tutti gli ambienti religiosi, a parte un platonico ammonimento del 1616, ma non diretto a lui personalmente; subito dopo la condanna potrà riprendere in pieno le ricerche, attorniato da giovani discepoli che formeranno una scuola. E potrà condensare il meglio della sua vita di studio negli anni che gli restano, in quei Discorsi sopra due nuove scienze che è il vertice del suo pensiero scientifico.
Dei resto, proprio nell'astronomia e proprio a partire da quegli anni la Specola Vaticana - ancor oggi in attività, fondata e sempre diretta da gesuiti - consolida la sua fama di istituto scientifico tra i più prestigiosi e rigorosi nel mondo. Tanto che, quando gli italiani giungono a Roma, nel 1870, si affrettano a fare un'eccezione al loro programma di cacciare i religiosi, quelli della Compagnia di Gesù innanzitutto.
Il governo dell'Italia anticlericale e massonica fa votare così dal Parlamento una legge speciale per mantenere come direttore a vita dell'Osservatorio già papale il padre Angelo Secchi, uno dei maggiori studiosi del secolo, tra i fondatori dell'astrofisica, uomo la cui fama è talmente universale che petizioni giungono da tutto il mondo civile per ammonire i responsabili della "nuova Italia" che non intralcino un lavoro giudicato prezioso per tutti.
Se la scienza sembra emigrare, a partire dal Seicento, prima nel Nord Europa e poi oltre Atlantico - fuori, cioè, dall'orbita di regioni cattoliche - le cause sono legate al diverso corso assunto dalla scienza stessa. Innanzitutto, i nuovi, costosi strumenti (dei quali proprio Galileo è tra i pionieri) esigono fondi e laboratori che solo i Paesi economicamente sulla cresta dell'onda possono permettersi, non certo l'Italia occupata dagli stranieri o la Spagna in declino, rovinata dal suo stesso trionfo.
La scienza moderna, poi, a differenza di quella antica, si lega direttamente alla tecnologia, cioè alla sua utilizzazione diretta e concreta. Gli antichi coltivavano gli studi scientifici per se stessi, per gusto della conoscenza gratuita, pura. 1 greci, ad esempio, conoscevano le possibilità del vapore di trasformarsi in energia ma, se non adattarono a macchina da lavoro quella conoscenza, è perché non avrebbero considerato degno di un uomo libero, di un "filosofo" come era anche lo scienziato, darsi a simili attività "utilitarie". (Un atteggiamento che contrassegna del resto tutte le società tradizionali: i cinesi, che da tempi antichissimi fabbricavano la polvere nera, non la trasformarono mai in polvere da sparo per cannoni e fucili, come fecero poi gli europei del Rinascimento, ma l'impiegarono solo per fini estetici, per fare festa con i fuochi artificiali. E gli antichi egizi riservavano le loro straordinarie tecniche edilizie solo a templi e tombe, non per edifici "profani").
E' chiaro che, da quando la scienza si mette al servizio della tecnologia, essa può svilupparsi soprattutto tra popoli, come quelli nordici, che conoscono una primissima rivoluzione industriale; che hanno - come gli olandesi o gli inglesi - grandi flotte da costruire e da utilizzare; che abbisognano di equipaggiamento moderno per gli eserciti, di infrastrutture territoriali, e così via. Mentre, cioè, prima, la scienza era legata solo all'intelligenza, alla cultura, alla filosofia, all'arte stessa, a partire dall'epoca moderna è legata al commercio, all'industria, alla guerra. Al denaro, insomma.
Che questa - e non la pretesa "persecuzione cattolica" di cui, l'abbiamo visto, parlano anche storici cattolici - sia la causa della relativa inferiorità scientifica dei popoli restati legati a Roma, lo dimostra anche l'intolleranza protestante di cui quasi mai si parla e che è invece massiccia e precoce. Copernico, da cui tutto inizia (e nel cui nome Galileo sarebbe stato "perseguitato") è un cattolicissimo polacco. Anzi, è addirittura un canonico che installa il suo rudimentale osservatorio su un torrione della cattedrale di Frauenburg. L'opera fondamentale che pubblica nel 1543 - La rotazione dei corpi celesti - è dedicata al papa Paolo III, anch'egli, tra l'altro, appassionato astronomo. L'imprimatur è concesso da un cardinale proveniente da quei domenicani nel cui monastero romano Galileo ascolterà la condanna.
Il libro del canonico polacco ha però una singolarità: la prefazione è di un protestante che prende le distanze da Copernico, precisando che si tratta solo di ipotesi, preoccupato com'è di possibili conseguenze per la Scrittura. Il primo allarme non è dunque di parte cattolica: anzi, sino al dramma finale di Galileo, si succedono ben undici papi che non solo non disapprovano la teoria "eliocentrica" copernicana, ma spesso l'incoraggiano. Lo scienziato pisano stesso è trionfalmente accolto a Roma e fatto membro dell'Accademia pontificia anche dopo le sue prime opere favorevoli al sistema eliocentrico.
Ecco, invece, la reazione testuale di Lutero alle prime notizie sulle tesi di Copernico: "La gente presta orecchio a un astrologo improvvisato che cerca in tutti i modi di dimostrare che è la Terra a girare e non il Cielo. Chi vuol far sfoggio di intelligenza deve inventare qualcosa e spacciarlo come giusto. Questo Copernico, nella sua follia, vuol buttare all'aria tutti i princìpi dell'astronomia". E Melantone, il maggior collaboratore teologico di fra Martino, uomo in genere piuttosto equilibrato, qui si mostra inflessibile: "Simili fantasie da noi non saranno tollerate".
Non si trattava di minacce a vuoto: il protestante Keplero, fautore del sistema copernicano, per sfuggire ai suoi correligionari che lo giudicano blasfemo perché parteggia per una teoria creduta contraria alla Bibbia, deve scappare dalla Germania e rifugiarsi a Praga, dopo essere stato espulso dal collegio teologico di Tubinga. Ed è significativo quanto ignorato (come, del resto, sono ignorate troppe cose in questa vicenda) che giunga al "copernicano" e riformato Keplero un invito per insegnare proprio nei territori pontifici, nella prestigiosissima università di Bologna.
Sempre Lutero ripeté più volte: "Si porrebbe fuori del cristianesimo chi affermasse che la Terra ha più di seimila anni". Questo "letteralismo", questo "fondamentalismo" che tratta la Bibbia come una sorta di Corano (non soggetta, dunque a interpretazione) contrassegna tutta la storia del protestantesimo ed è del resto ancora in pieno vigore, difeso com'è dall'ala in grande espansione - negli Usa e altrove - di Chiese e nuove religioni che si rifanno alla Riforma.
A proposito di università (e di "oscurantismo"): ci sarà pure una ragione se, all'inizio del Seicento, proprio quando Galileo è sulla quarantina, nel pieno del vigore della ricerca, di università - questa tipica creazione del Medio Evo cattolico - ce ne sono 108 in Europa, alcune altre nelle Americhe spagnole e portoghesi e nessuna nei territori non cristiani. E ci sarà pure una ragione se le opere matematiche e geometriche degli antichi (prima fra tutte quelle di Euclide) che costituirono la base fondamentale per lo sviluppo della scienza moderna, giunsero a noi soltanto perché ricopiate dai monaci benedettini e, appena inventata la tipografia, stampate sempre a cura di religiosi. Qualcuno ha addirittura rilevato che, proprio in quell'inizio del Seicento, è un Grande Inquisitore di Spagna che fonda a Salamanca la facoltà di scienze naturali dove si insegna con favore la teoria copernicana...
Storia complessa, come si vede. Ben più complessa di come abitualmente ce la raccontino. Bisognerà parlarne ancora.

180. Galileo Galilei /3
Qualcuno ha fatto notare un paradosso: è infatti più volte successo che la Chiesa sia stata giudicata attardata, non al passo con i tempi. Ma il prosieguo della storia ha finito col dimostrare che, se sembrava anacronistica, è perché aveva avuto ragione troppo presto.
E' successo, ad esempio, con la diffidenza per il mito entusiastico della "modernità", e del conseguente "progresso", per tutto il XIX secolo e per buona parte del XX. Adesso, uno storico come Émile Poulat può dire: "Pio IX e gli altri papi "reazionari" erano in ritardo sul loro tempo ma sono divenuti dei profeti per il nostro. Avevano forse torto per il loro oggi e il loro domani: ma avevano visto giusto per il loro dopodomani, che è poi questo nostro tempo postmoderno che scopre l'altro volto, quello oscuro, della modernità e del progresso".
E' successo, per fare un altro esempio, con Pio XI e Pio XII, le cui condanne del comunismo ateo erano sino a ieri sprezzate come "conservatrici", "superate", mentre ora quelle cose le dicono gli stessi comunisti pentiti (quando hanno sufficiente onestà per riconoscerlo) e rivelano che quegli "attardati" di papi avevano una vista che nessun altro ebbe così acuta. Sta succedendo, per fare un altro esempio, con Paolo VI, il cui documento che appare e apparirà sempre più profetico è anche quello che fu considerato il più "reazionario": l'Humanae Vitae.
Oggi siamo forse in grado di scorgere che il paradosso si è verificato anche per quel "caso Galileo" che ci ha tenuti impegnati per i due frammenti precedenti.
Certo, ci si sbagliò nel mescolare Bibbia e nascente scienza sperimentale. Ma facile è giudicare con il senno di poi: come si è visto, i protestanti furono qui assai meno lucidi; anzi, assai più intolleranti dei cattolici. E certo che in terra luterana o calvinista Galileo sarebbe finito non in villa, ospite di gerarchi ecclesiastici, ma sul patibolo.
Dai tempi dell'antichità classica sino ad allora, in tutto l'Occidente, la filosofia comprendeva tutto lo scibile umano, scienze naturali comprese: oggi ci è agevole distinguere, ma a quei tempi non era affatto così; la distinzione cominciava a farsi strada tra lacerazioni ed errori.
D'altro canto, Galileo suscitava qualche sospetto perché aveva già mostrato di sbagliare (sulle comete, ad esempio) e proprio su quel suo prediletto piano sperimentale; non aveva prove a favore di Copernico, la sola che portava era del tutto erronea. Un santo e un dotto della levatura di Roberto Bellarmino si diceva pronto - e con lui un'altra figura di altissima statura come il cardinale Baronio - a dare alla Scrittura (la cui lettera sembrava più in sintonia col tradizionale sistema tolemaico) un senso metaforico, almeno nelle espressioni che apparivano messe in crisi dalle nuove ipotesi astronomiche; ma soltanto se i copernicani fossero stati in grado di dare prove scientifiche irrefutabili. E quelle prove non vennero se non un secolo dopo.
Uno studioso come Georges Bené pensa addirittura che il ritiro deciso dal Sant'Uffizio del libro di Galileo fosse non solo legittimo ma doveroso, e proprio sul piano scientifico: "Un po' come il rifiuto di un articolo inesatto e senza prove da parte della direzione di una moderna rivista scientifica". D'altro canto, lo stesso Galileo mostrò come, malgrado alcuni giusti princìpi da lui intuiti, il rapporto scienza-fede non fosse chiaro neppure per lui. Non era sua, ma del cardinal Baronio (e questo riconferma l'apertura degli ambienti ecclesiastici) la formula celebre: "L'intento dello Spirito Santo, nell'ispirare la Bibbia, era insegnarci come si va al Cielo, non come va il cielo".
Ma tra le cose che abitualmente si tacciono è la sua contraddizione, l'essersi anch'egli impelagato nel "concordismo biblico": davanti al celebre versetto di Giosuè che ferma il Sole non ipotizzava per niente un linguaggio metaforico, restava anch'egli sul vecchio piano della lettura letterale, sostenendo che Copernico poteva dare a quella "fermata" una migliore spiegazione che Tolomeo. Mettendosi sullo stesso piano dei suoi giudici, Galileo conferma quanto fosse ancora incerta la distinzione tra il piano teologico e filosofico e quello della scienza sperimentale.
Ma è forse altrove che la Chiesa apparve per secoli arretrata, perché era talmente in anticipo sui tempi che soltanto ora cominciamo a intuirlo. In effetti - al di là degli errori in cui possono essere caduti quei dieci giudici, tutti prestigiosi scienziati e teologi, nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, e forse al di là di quanto essi stessi coscientemente avvertivano - giudicando una certa baldanza (se non arroganza) di Galileo, stabilirono una volta per sempre che la scienza non era né poteva divenire una nuova religione; che non si lavorava per il bene dell'uomo e neppure per la Verità, creando nuovi dogmi basati sulla "Ragione- al posto di quelli basati sulla Rivelazione. "La condanna temporanea (donec corrigatur, fino a quando non sia corretta, diceva la formula) della dottrina eliocentrica, che dai suoi paladini era presentata come verità assoluta, salvaguardava il principio fondamentale che le teorie scientifiche esprimono verità ipotetiche, vere ex suppositione, per ipotesi e non in modo assoluto". Così uno storico d'oggi. Dopo oltre tre secoli di quella infatuazione scientifica, di quel terrorismo razionalista che ben conosciamo, c'è voluto un pensatore come Karl Popper per ricordarci che inquisitori e Galileo erano, malgrado le apparenze, sullo stesso piano. Entrambi, infatti, accettavano per fede dei presupposti fondamentali sulla cui base costruivano i loro sistemi. Gli inquisitori accettavano come autorità indiscutibili (anche sul piano delle scienze naturali) la Bibbia e la Tradizione nel loro senso più letterale. Ma anche Galileo e, dopo di lui, tutta la serie infinita degli scientisti, dei razionalisti, degli illuministi, dei positivisti - accettava in modo indiscusso, come nuova Rivelazione, l'autorità del ragionare umano e dell'esperienza dei nostri sensi.
Ma chi ha detto (e la domanda è di un laico agnostico come Popper) - se non un'altra specie di fideismo - che ragione ed esperienza, che testa e sensi ci comunichino il "vero"? Come provare che non si tratta di illusioni, così come molti considerano illusioni le convinzioni su cui si basa la fede religiosa? Soltanto adesso, dopo tanta venerazione e soggezione, diveniamo consapevoli che anche le cosiddette "verità scientifiche" non sono affatto "verità" indiscutibili a priori, ma sempre e solo ipotesi provvisorie, anche se ben fondate (e la storia in effetti è lì a mostrare come ragione ed esperienza non abbiano preservato gli scienziati da infinite, clamorose cantonate, malgrado la conclamata "oggettività e infallibilità della Scienza").
Questi non sono arzigogoli apologetici, sono dati ben fondati sui documenti: sino a quando Copernico e tutti i copernicani (numerosi, lo abbiamo visto, anche tra i cardinali, magari tra i papi stessi) restarono sul piano delle ipotesi, nessuno ebbe da ridire, il Sant'Uffizio si guardò bene dal bloccare una libera discussione sui dati sperimentali che via via venivano messi in campo.
L'irrigidimento avviene soltanto quando dall'ipotesi si vuol passare al dogma, quando si sospetta che il nuovo metodo sperimentale in realtà tenda a diventare religione, quello "scientismo" in cui in effetti degenererà. "In fondo, la Chiesa non gli chiedeva altro che questo: tempo, tempo per maturare, per riflettere quando, per bocca dei suoi teologi più illuminati, come il santo cardinale Bellarmino, domandava al Galilei di difendere la dottrina copernicana ma solo come ipotesi e quando, nel 1616, metteva all'Indice il De revolutionibus di Copernico solo donec corrigatur, e cioè finché non si fosse data forma ipotetica ai passi che affermavano il moto della Terra in forma assoluta. Questo consigliava Bellarmino: raccogliete i materiali per la vostra scienza sperimentale senza preoccuparvi, voi, se e come possa organizzarsi nel corpus aristotelico. Siate scienziati, non vogliate fare i teologi!" (Agostino Gemelli).
Galileo non fu condannato per le cose che diceva; fu condannato per come le diceva. Le diceva, cioè, con un'intolleranza fideistica, da missionario del nuovo Verbo che spesso superava quella dei suoi antagonisti, pur considerati "intolleranti" per definizione. La stima per lo scienziato e l'affetto per l'uomo non impediscono di rilevare quei due aspetti della sua personalità che il cardinale Paul Poupard ha definito come "arroganza e vanità spesso assai vive". Nel contraddittorio, il Pisano aveva di fronte a sé astronomi come quei gesuiti del Collegio Romano dai quali tanto aveva imparato, dai quali tanti onori aveva ricevuto e che la ricerca recente ha mostrato nel loro valore di grandi, moderni scienziati anch'essi "sperimentali".
Poiché non aveva prove oggettive, è solo in base a una specie di nuovo dogmatismo, di una nuova religione della Scienza che poteva scagliare contro quei colleghi espressioni come quelle che usò nelle lettere private: chi non accettava subito e tutto il sistema copernicano era (testualmente) "un imbecille con la testa tra le nuvole", uno "appena degno di essere chiamato uomo", "una macchia sull'onore del genere umano", uno "rimasto alla fanciullaggine"; e via insultando. In fondo, la presunzione di essere infallibile sembra più dalla sua parte che da quella dell'autorità ecclesiastica.
Non si dimentichi, poi, che, precorrendo anche in questo la tentazione tipica dell'intellettuale moderno, fu quella sua "vanità", quel gusto di popolarità che lo portò a mettere in piazza, davanti a tutti (con sprezzo, tra l'altro della fede dei semplici), dibattiti che proprio perché non chiariti dovevano ancora svolgersi, e a lungo, tra dotti. Da qui, tra l'altro, il suo rifiuto del latino: "Galileo scriveva in volgare per scavalcare volutamente i teologi e gli altri scienziati e indirizzarsi all'uomo comune. Ma portare questioni così delicate e ancora dubbie immediatamente a livello popolare era scorretto o, almeno, era una grave leggerezza" (Rino Cammilleri).
Di recente, 1`erede" degli inquisitori, il Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, cardinale Ratzinger, ha raccontato di una giornalista tedesca - una firma famosa di un periodico laicissimo, espressione di una cultura "progressista" - che gli chiese un colloquio proprio sul riesame del caso-Galileo. Naturalmente, il cardinale si aspettava le solite geremiadi sull'oscurantismo e dogmatismo cattolici. Invece, era il contrario: quella giornalista voleva sapere "perché la Chiesa non avesse fermato Galileo, non gli avesse impedito di continuare un lavoro che è all'origine del terrorismo degli scienziati, dell'autoritarismo dei nuovi inquisitori: i tecnologi, gli esperti...". Ratzinger aggiungeva di non essersi troppo stupito: semplicemente quella redattrice era una persona aggiornata, era passata dal culto tutto "moderno" della Scienza alla consapevolezza "postmoderna" che scienziato non può essere sinonimo di sacerdote di una nuova fede totalitaria.
Sulla strumentalizzazione propagandistica che è stata fatta di Galileo, trasformato - da uomo con umanissimi limiti, come tutti, quale era - in un titano del libero pensiero, in un profeta senza macchia e senza paura, ha scritto cose non trascurabili la filosofa cattolica (uno dei pochi nomi femminili di questa disciplina) Sofia Vanni Rovighi. Sentiamo:
"Non è storicamente esatto vedere in Galileo un martire della verità, che alla verità sacrifica tutto, che non si contamina con nessun altro interesse, che non adopera nessun mezzo extra-teorico per farla trionfare, e dall'altra parte uomini che per la verità non hanno alcun interesse, che mirano al potere, che adoperano solo il potere per trionfare su Galileo. In realtà ci sono invece due parti, Galileo e i suoi avversari, l'una e l'altra convinte della verità della loro opinione, l'una e l'altra in buona fede ma che adoperano l'una e l'altra anche mezzi extra-teorici per far trionfare la tesi che ritengono vera. Né bisogna dimenticare che, nel 1616, l'autorità ecclesiastica fu particolarmente benevola con Galileo e non lo nominò neppure nel decreto di condanna e nel 1633, sebbene sembrasse procedere con severità, gli concesse ogni possibile agevolazione materiale. Secondo il diritto di allora, prima, durante e, se condannato, dopo la procedura, Galileo avrebbe dovuto essere in carcerato; e invece non solo in carcere non fu neanche per un'ora, non solo non subì alcun maltrattamento, ma fu alloggiato e trattato con ogni conforto".
Ma continua la Vanni Rovighi, quasi con particolare sensibilità femminile verso le povere figlie del grande scienziato: "Non è poi equo operare con due pesi e due misure e parlare di delitto contro lo spirito quando si allude alla condanna di Galileo, ma non battere ciglio quando si narra della monacazione forzata che egli impose alle sue due figliuole giovinette, facendo di tutto per eludere le savie leggi ecclesiastiche che tutelavano la dignità e libertà personale delle giovani avviate alla vita religiosa, col fissare un limite minimo di età per i voti. Si osserverà che quell'azione di Galileo va giudicata tenendo presente l'epoca storica, che Galileo cercò di rimediare, di farsi perdonare quella violenza, usando gran e bontà soprattutto verso Virginia, divenuta suor Maria Celeste; e noi troviamo giustissime queste considerazioni, ma domandiamo che egual metro di comprensione storica e psicologica venga usato anche quando si giudicano gli avversari di Galileo".
Prosegue la studiosa: "Occorrerà anche tenere presente questo: quando si condanna severamente l'autorità che giudicò Galileo ci si mette da un punto di vista morale (da un punto di vista intellettuale, infatti, è pacifico che ci fu errore nei giudici; ma l'errore non è delitto e non si dimentichi mai che ciò non riguarda affatto la fede: sia il giudizio del 1616 che quello del 1633 sono decreti di una Congregazione romana approvati dal papa in forma communi e come tali non cadono sotto la categoria delle affermazioni nelle quali la Chiesa è infallibile; si tratta di decreti di uomini di Chiesa, non certo di dogmi della Chiesa). Se ci si pone, dunque, a un punto di vista morale, non bisogna confondere questo valore con il successo. Tanto vale il tormento dello spirito del grande Galileo quanto il tormento dello spirito sconvolto della povera suor Arcangela, monacata a forza dal padre a 12 anni. E se poi si osserva che - diamine! - Galileo è Galileo, mentre suor Arcangela non è che un'oscura donnetta, per concludere almeno implicitamente che tormentare l'uno è colpa ben più grave che tormentare l'altra, ci si lascia affascinare dal potere e dal successo. Ma da questo punto di vista non ha più senso parlare di spirito: né per stigmatizzare i delitti compiuti contro di esso né per esaltarne le vittorie".
Nella "Lettera alla Granduchessa Cristina", Galileo si fece giudice ed esegeta "scientifico" della Bibbia, dicendo - in merito all'arresto del sole e della luna al comando di Giosue' - che "coll'aiuto del sistema Copernicano noi abbiamo il senso facile, letterale e chiaro del comando".
Inoltre,
"[...] Galileo aveva scritto che alcune volte le Scritture "oscurano" il loro proprio significato. Nella copia mandata a Roma la parola "oscurano" era cambiata in "pervertono". Questa e l'altra parola contraffatta, "falso", furono le uniche due criticate dal consultore del Santo Uffizio al quale la lettera era stata sottoposta. La lettera nell'insieme fu trovata in accordo con l'insegnamento cattolico".
(cit. in James Brodrick s.j., "S. Roberto Bellarmino", Ancora, Milano 1965, p. 431-432 e 436)