venerdì 11 ottobre 2013

Il nuovo codice di deontologia medica: come trasformare un professionista in un tecnico e vivere felici

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L’ultima stesura del Codice di deontologia medica[1], in corso di approvazione quest’anno con ultimazione dell’iter prevista per novembre, lascia molto perplessi, in più di un profilo, e dà la conferma che certa bioetica liberista si è radicalmente affermata proprio in quel contesto professionale in cui la vita umana dovrebbe essere protetta nel massimo grado. 
Ora, come accennato, le problematiche che il nuovo Codice pone sono parecchie, ma mi soffermerò solo su una di queste, forse il cardine della – chiamiamola così – riforma, ossia la netta prevalenza assegnata all’autonomia del paziente rispetto alla coscienza del medico. L’impatto di tale inedita impostazione è gravemente evidente nel testo revisionato degli articoli 16 e 20, cui mi dedicherò tra poco, ma prima di approfondirlo è necessario un breve cenno sul perché il medico, da professionista della salute che era, in quanto tale agente in scienza e coscienza, stia divenendo un esecutore dei desiderata del paziente. 
Indubbiamente, un ruolo importante è giocato dalla bioetica liberista, da quel filone – cioè – di pensiero e di pensatori che sostengono il confine tra il Bene ed il Male quando si decide della vita della persone sia rimesso esclusivamente alle scelte del malato, scelte delle quali il personale medico deve limitarsi a prendere atto. In quest’ottica, la volontà del curante è solo un tassello del rapporto col paziente, e neppure il più rilevante, poiché innanzi alle decisioni del paziente, che hanno assoluta preminenza, il medico non può sottrarsi. L’immoralità, dunque, in questo paradigma sta nel violare una precisa richiesta dell’assistito.
Si tratta di un atteggiamento mutuato dall’etica medica anglosassone, che assegna massima rilevanza all’autonomia del paziente ed al concetto che questi ha di qualità della vita, anche rispetto alla tutela della salute. Facciamo un esempio grossolano: se ho un amico diabetico che mi chiede una fetta di torta, gliela porgo o no? Per l’impostazione liberista, fare il bene in questo caso è dare al fetta di torta al diabetico, anche se ciò ne compromette la salute, poiché egli ha chiesto di avere quel che gli fa piacere.
Tuttavia, questo fattore culturale non esaurisce la problematica, che risente altresì ed in modo determinante delle istanze di “medicina difensiva”, ossia di quella serie di prassi, atteggiamenti, opzioni che portano il medico ad agire in un dato modo non solo e non tanto per la tutela della vita e della salute del paziente, bensì per evitare sanzioni civili, penali o disciplinari. In questo campo, va registrata la costante e sempre più vigorosa stretta della Giurisprudenza, che da decenni individua quale necessario presupposto dell’atto medico l’acquisizione del consenso informato, anche qualora il trattamento privo di consenso sia stato comunque efficace. In altri termini: non importa se ti ho curato, il solo fatto che ti abbia trattato senza il tuo consenso quando avrei potuto acquisirlo è già illecito civile[2]. Questo ha portato, come necessaria conseguenza, la – positiva – tensione della ricerca della volontà del paziente, con il risultato però, in certi casi, di farne uno scudo morale e giuridico soprattutto quando si tratta di fine vita o di interventi contro la vita nascente. Non a caso, nell’annosa pericolosissima questione sulla legge sul fine vita, i Medici di area liberista, tra i quali Ignazio Marino o Umberto Veronesi, lamentano che l’attuale disegno di legge in discussione non preveda la vincolatività per il medico delle indicazioni del malato: se infatti fosse la legge a disporre a chiare lettere che ove il paziente lo richieda il Dottore è tenuto a staccare la spina, ecco che il Sanitario sarebbe sostanzialmente scriminato per un comportamento che in definitiva ha determinato la morte di una persona. La posta in gioco è alta ed i sostenitori della “buona morte” vogliono avere le spalle coperte per non rischiare nulla, e chi gliele deve coprire? Il malato stesso, con l’ausilio della legge.
 
Alla luce della premessa, risulta più agevole spiegarsi su quali basi ed in ragione di quali istanze  l’art. 16 del Codice sia stato riscritto. Questo il testo originale:
Accanimento diagnostico–terapeutico.
Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita
Questa la nuova stesura:
Trattamenti diagnostico-terapeutici futili e non proporzionati
Il medico, nel rispetto delle volontà espresse dalla persona assistita o dal suo rappresentante legale e del principio di efficacia delle cure, si astiene da intraprendere o proseguire in trattamenti diagnostici e/o terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita della persona assistita.
 Il controllo efficace del dolore e la palliazione non si configurano come trattamenti futili e non proporzionati in alcuna condizione clinica esistente o nella sua prevedibile evoluzione”.
Ora, a parte l’evidente mutamento della rubrica (ossia del titolo) dell’articolo da “Accanimento diagnostico–terapeutico” a “Trattamenti diagnostico–terpeutici futili e non proporzionati”, che non fa altro che recepire la definizione invalsa di “accanimento terapeutico”, salta all’occhio una basilare differenza tra i due testi, differenza che è la chiave del problema. Mentre la versione attuale del Codice recita che il medico debba agire “anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse”, la nuova versione recita che egli opera “nel rispetto delle volontà espresse dalla persona assistita o dal suo rappresentante legale e del principio di efficacia delle cure”. Ebbene, le parole sottolineate ed in grassetto, da un punto di vista legale, hanno implicazioni completamente differenti: là ove curante che operi “anche tenendo conto” del desiderio del malato, tale desiderio è solo uno dei fattori che determinano la scelta del medico ed il conseguente trattamento (o non trattamento) sanitario; invece, se egli deve agire “nel rispetto” delle indicazioni del paziente, esse divengono vincolanti, non possono essere né pretemesse né violate, ma solo contemperate con il “principio di efficacia delle cure”. Gli estensori del nuovo Codice, dunque, dinanzi alle esitazioni del Parlamento, che rinvia continuamente la discussione sulla legge sul fine vita e che si è già espresso contro la vincolatività delle indicazioni espresse dal malato, hanno trovato il modo di eludere le decisioni del legislatore e si sono guadagnati da soli quello che la legge, allo stato, giustamente gli nega.
Unico limite alla volontà del malato pare essere il “principio di efficacia della cure”, principio – per la verità, inedito – che sancisce, basilarmente, che la cura deve essere efficace: ma in base a quali parametri si giudica l’efficacia di una cura? In base alla capacità che questa cura ha di guarire il paziente, verrebbe da dire. E se il paziente è inguaribile, quali saranno i criteri? Il nuovo Codice, sul punto, rende tutto ancor più complesso ed indefinito, in quanto al parametro tutto sommato oggettivo della salute affianca quello, molto più soggettivo, della qualità della vita, concetto estremamente pericoloso: pericoloso soprattutto quando si deve decidere di una persona incosciente, caso in cui è elevatissimo il rischio di una sovrapposizione indebita tra l’idea di qualità della vita del medico e quella presumibilmente intesa dal paziente che non può esprimersi; pericoloso in ogni caso perché la qualità della vita dovrebbe essere un obiettivo di chi cura e di chi accompagna, non una condicio sine qua non per la prosecuzione delle terapie.
Ultima annotazione: non sfugge che l’art. 16 nuovo testo parla di “volontà espresse dalla persona assistita o dal suo rappresentante legale”. Viene dunque sovvertita la regola precedente – e generale – per cui, in assenza di volontà espressa dal paziente, il Sanitario è tenuto alla prosecuzione delle cure e si assume ogni responsabilità per la decisione di interromperle, e tale sovvertimento si fonda sull’artificio proprio del testamento biologico: far rappresentare ad un soggetto terzo e nominato dall’interessato o dal Giudice una volontà espressa tempo addietro, quindi non più attuale. Si tratta di una fictio iuris, di un “trucco” che si adopera per esimere da responsabilità il medico che stacca la spina, e tale trucco (comune alle d.a.t. ed al testamento biologico) si fonda sulla sostanziale ed infondata identità tra il consenso all’atto medico, che preserva la salute del paziente, ed il consenso all’atto di interruzione delle cure, che non tutela la salute ma, a tutto voler concedere, un bene differente, che sarebbe appunto la misteriosa indefinibile “qualità della vita”.
In altri termini, acconsentire ad una pratica che preserva la propria salute non è lné in fatto né in diritto la stessa cosa che acconsentire ad una pratica che determina, direttamente o indirettamente, comunque scientemente, la propria morte.
 
Veniamo all’art. 20 del Codice in via di approvazione.
Testo attuale: “Rispetto dei diritti della persona.
Il medico deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona”.
Testo riformato: “Relazione di assistenza e di cura.
La relazione fra medico e paziente è fondata sul rispetto della libertà di scelta e improntata  alla condivisione delle responsabilità. Il medico persegue l’alleanza terapeutica che si fonda sulla reciproca fiducia, sul riconoscimento dei rispettivi ruoli, sulla lealtà reciproca, su un’informazione onesta e corretta sulla continuità assistenziale e sul rispetto dei valori della persona.
Il medico deve dedicare all’informazione, alla comunicazione e alla relazione il tempo necessario quale tempo di cura ed esigere che questa condizione sia rispettata in ogni situazione di lavoro. Il medico si adopera perché l’informazione fornita al paziente da tutti i professionisti coinvolti nella cura non sia contraddittoria”.
In questo caso la rivoluzione è pienamente evidente. Si svincola l’attività del medico dai diritti fondamentali: perché? Non per renderlo un soggetto legibus solutus, ma quasi e peggio. In effetti, si vuol sottomettere il medico alla volontà del paziente, superando anche quelle resistenze che qualunque valido giurista opporrebbe considerando la natura indisponibile[3] del diritto alla vita e del diritto alla salute. Quel che più conta, si colloca il dovere del medico in un nuovo e completamente differente orizzonte: il limite non è più esterno e sovraordinato rispetto alla volontà delle parti (i diritti, ergo la legge), ma in un’ottica contrattualistica è fissato dalle parti stesse, dal medico e dal paziente, con la volontà di quest’ultimo che riveste un ruolo di primo piano anche in una dimensione – e qui sta il punto – di “condivisione delle responsabilità”. Necessario presupposto, definito dal comma secondo dell’art. 20, è la piena e completa informazione, la quale è – per carità! – certamente un diritto del malato, ma diviene anche fondamento di quella “libertà di scelta” che poi scrimina il gesto del medico.
E’ evidente che si punta, come ho già rilevato, a creare nelle istruzioni e richieste del paziente, uno schermo giuridico per il curante, che potrà eccepire “Sì, l’ho fatto (o non l’ho fatto), ma perché me lo ha chiesto lui”. Qual è il prezzo? L’assimilazione del medico ad un tecnico, ad un esecutore della volontà della persona assistita; il sanitario diviene “qualcuno che sa fare qualcosa”, ma cosa fare glielo dice il paziente.
In realtà, si tratta del recepimento di un trend già fortemente invalso nelle indicazioni degli Enti sanitari, sebbene sia notevolmente ridimensionato dalla Giurisprudenza. Pensiamo alle varie direttive ed istruzioni che le varie ASL diramano per il personale di Pronto Soccorso in relazione alla pillola del giorno dopo, arrivando a minacciare sanzioni disciplinari per il medico che rifiutasse di accontentare la richiedente il farmaco contragestativo.
Ecco quindi che la “libertà di scelta”, che pure l’art. 20 nuova stesura invoca, pare essere accordata più al paziente che al medico. Prova ne sia che l’art. 22 “riformato” – del quale non parlerò in questa sede – non contempla più l’istituto dell’obiezione di coscienza, che ha precise implicazioni e connotazioni giuridiche e non solo etiche, ma si limita ad invocare una generica “clausola di coscienza” o richiamare i “convincimenti etici” del sanitario, i quali chiaramente sono un ben limitato argine a quelli che invece, per il paziente, sono veri e propri diritti.
 
A questa sommaria analisi dei nuovi testi degli articoli 16 e 20 del Codice deontologico si potrebbe obiettare che il medico non può imporre il suo volere al paziente e che è preferibile che il secondo abbia prevalenza sul primo, anche alla luce del dettato dell’art. 32, comma 2°, della Costituzione[4], norma peraltro di interpretazione non immediata per chi non sia tecnico della materia; questa obiezione impone un paio di precisazioni.
Innanzitutto, chi scrive non auspica certo una medicina di stampo paternalistico, in cui il malato sia passivamente soggetto alle direttive di chi lo cura. L’alternativa però non può essere secca, tra modello paternalistico e modello autonomistico (cui si ispira la nuova stesura del Codice), c’è una terza via, che non può essere banalmente – si passi il termine – ricondotta al concetto forse troppo labile di “alleanza terapeutica”: potrei definirlo “alleanza temperata”.
Nell’alleanza temperata le volontà del medico e del paziente si incontrano ma l’accordo tra loro non è libero, ma deve considerare due ineludibili fattori: a) il dato oggettivo che il sapere e la competenza del curante sono sempre – salvo rarissimi casi – superiori al sapere ed alla competenza del malato, onde la decisione e la correlativa responsabilità devono comunque gravare per lo più sul curante; b) il dato giuridico che sono in gioco diritti fondamentali dell’individuo quali la salute e la vita, onde qualunque sia l’avviso delle parti esso non può mai prescindere dalla massima tutela di quei diritti, ad iniziare dal principio di indisponibilità[5].
Va poi portato un altro argomento. Se davvero nel Codice si volesse applicare il modello autonomistico puro, fondato sull’equipollenza della volontà del paziente e della volontà del medico, allora dovrebbe riconoscersi al sanitario piena ed effettiva possibilità di obiezione. Per esser più chiari: se si riconosce la assoluta (si badi bene: assoluta) libertà del malato di scegliere di non farsi curare o di rifiutare uno specifico trattamento, allora in un’impostazione sinceramente autonomistica il medico dovrebbe parimenti avere il diritto insindacabile di decidere di non compiere una determinata pratica o terapia, quantomeno sulla base dei propri convincimenti etici. Però, se guardiamo la nuova stesura del Codice, questa libertà, al medico, non viene concessa o viene quantomeno compressa e di molto rispetto a prima, perché, come già rilevato, l’istituto dell’obiezione di coscienza è sostituito da una fumosa clausola di coscienza.
 
In conclusione, cosa cambierà? Molto, e non in meglio, a mio giudizio. Prova ne sia l’abbandono di lemmi comuni al diritto (vedasi l’esempio dell’obiezione di coscienza, sopra riportato, o dei dritti della persona) per muoversi verso concetti molto meno definiti e molto più pericolosi per la tutela della vita e la dignità della professione medica.
Quanto pesa un Codice deontologico, nella valutazione della responsabilità di un medico? Poco, verrebbe da dire, perché – verrebbe spontaneo concludere – essendo un insieme di norme emanate dai medici e per i medici non può essere equiparato alle leggi dello Stato, perciò, al di fuori della sfera disciplinare, esso avrebbe un impatto limitato. Non è così. L’orientamento coerente della Giurisprudenza è che i Codici deontologici costituiscano un elemento rilevante agli effetti della valutazione anche in via giudiziaria del comportamento del professionista, prevalente anche rispetto a quanto dettato dalle linee guida di buona pratica medica[6]: ergo, queste regole che i medici (ma anche gli avvocati, i commercialisti etc. etc.) si danno da sé servono poi a loro stessi per tirarsi fuori dai guai.
Il dubbio è dunque che alla base di queste “illuminate riforme” stia non solo l’adesione alla bioetica liberale che ormai in certi ambienti è pervasiva, ma anche un implicito patto tra curante ed assistito, in cui il professionista accetta di accordare prevalenza alla volontà del paziente perdendo in autonomia. La soluzione dei problemi etici viene sempre più demandata all’assistito, in un’ottica di alleggerimento da responsabilità (cui certo non è estranea l’esplosione del contenzioso per colpa medica che si è registrata negli ultimi anni) nella quale il medico è sempre meno professionista e sempre più tecnico esecutore dei desiderata d’altri. Il medico però non è un attrezzo vivente, non è un oggetto al servizio di una volontà altrui, ma una persona con i propri convincimenti ed il diritto e dovere di assumere decisioni. Nei fatti, il sanitario che prende atto della scelta del paziente e la asseconda condivide liberamente quella scelta, anche quanto alla responsabilità morale.
Massimo Micaletti  



[1] http://www.quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=3022585.pdf
[2] Non costituisce più, invece, illecito penale, dopo la nota pronuncia della Cassazione Penale a Sezioni Unite 18/12/2008, n. 2437.
[3] Vedi nota 5.
[4] Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
[5] L’indisponibilità è una caratteristica essenziale dei diritti umani, dei quali – ovviamente – vita e salute sono i preminenti. Un diritto è “indisponibile” quando non vi posso rinunciare, ossia, propriamente, quando il mio assenso alla sua privazione non esime da responsabilità colui che poi di tale diritto mi privi o che a tale diritto attenti. Facciamo un esempio sul diritto alla vita: io posso togliermi la vita (ed anche qui ci sarebbe da dire, ma semplifichiamo) ma non posso chiedere ad un altro di uccidermi, e se costui lo facesse sarebbe comunque perseguibile per omicidio ex art. 579 del Codice Penale che punisce, appunto, l’omicidio del consenziente. Perché? Perché si ritiene che i diritti umani siano di tale rilevanza che non è possibile portare la loro protezione giuridica a zero, neppure se è il titolare a richiederlo.
[6] Tra le molte, Cass. pen. Sez. IV, 23/11/2010, n. 8254
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