giovedì 28 novembre 2013

La Repubblica Romana del 1849 : oscuro preludio dell'ora presente - 2° ed ultima parte - .



La Repubblica Romana



La proclamazione della Repubblica.


File:Flag of the Roman Republic (19th century).svg
Bandiera della rivoluzionaria
Repubblica Romana.

L'illegale , e illegittima, "Assemblea Costituente", che aveva come presidente carbonaro  Giuseppe Galletti e vicepresidenti i settari Aurelio Saffi e Luigi Masi, venne inaugurata il 5 febbraio 1849 dittatoriamente e votò la proclamazione della repubblica (contrario il liberal-conservatore Mamiani che era filo-sabaudo). La base della Costituzione della Repubblica Romana, copia delle atee e anticlericali costituzioni giacobine,  era invece nell'ordine del giorno elaborato da Quirico Filopanti che l'"Assemblea Costituente" ordinò e approvò il 9 febbraio 1849 con 118 voti favorevoli, 8 contrari e 12 astenuti.
Fu pubblicato il giorno seguente nei seguenti articoli:
« Decreto fondamentale della Repubblica Romana
  • Art. 1: Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano.
  • Art. 2: Il Pontefice Romano avrà tutte le guarentigie necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale.
  • Art. 3: La forma del governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana.
  • Art. 4: La Repubblica Romana avrà col resto d'Italia le relazioni che esige la nazionalità comune. »
(Assemblea Costituente Romana. Roma, 9 febbraio 1849. Un'ora del mattino. Il Presidente dell'Assemblea G. Galletti.)
Il decreto, che sanciva il nulla data la sua totale natura illegale ed illegittima, portava le firme del presidente dell'"Assemblea Costituente" Giuseppe Galletti (Bolognese) e dei segretari Giovanni Pennacchi, Ariodante Fabretti (Perugino), Antonio Zambianchi e Quirico Filopanti (di Burdio).

Giuseppe Mazzini
(1846).

Nello scritto redatto per la proclamazione della Repubblica Romana, Mazzini proclamava: "Roma, la Santa, l’Eterna Roma, ha parlato". Cosa disse Roma per bocca di Mazzini, suo profeta? Che era ora che il potere non spettasse più ai papi ma appartenesse per intero ai migliori: "Noi vogliamo porre a capo del nostro edifizio sociale i migliori per senno e per core, il Genio e la Virtù". Va da sé che Mazzini riteneva sé stesso il migliore dei migliori. E infatti: "Mazzini era tutto, regolava tutto. Egli era in trono; papa, re, negoziatore, legislatore, cospiratore supremo, e tutto e tutti ai suoi ordini obbedivano", racconta lo storico romano contemporaneo Paolo Mencacci.
I rivoluzionari dell’Ottocento erano assolutamente certi, proprio come i loro successori del XX secolo, di avere ragione. Scrivendo nel lontano 1832 Mazzini espresse bene questa convinzione: "Le rivoluzioni, generalmente parlando, non si difendono che assalendo [...] se non è guerra d’eccidio, se non è guerra rivoluzionaria, guerra disperata, cittadina, popolare, energica, forte di tutti i mezzi, che la natura somministra allo schiavo del cannone al pugnale, cadrete e vilmente!". La follia dilagava nella Città Eterna.
Il 12 dicembre del 1848 giunse a Roma Giuseppe Garibaldi accompagnato da pochissimi seguaci: entrò in città portato in spalla dal suo fedelissimo Ignazio Bueno , la cui forza fisica rimediava ai sempre più frequenti attacchi di artrite del "Generale". Giunto in città Garibaldi riesce ad ottenere che la sua "Legione" ( che riunisce circa 400 uomini) venisse assunta tra i corpi stipendiati (mercenari) ma senza riuscire a farla trasferire nel Lazio: il governo Rivoluzionario non si fidava di quell'accozzaglia di inaffidabili personaggi e decide di confinarla a Fermo: i suoi seguaci erano un misto di rissosi idealisti volti ad un'"Italia unita". Pochi erano liguri , e non cera quasi nessun piemontese o duosiciliano. Una compagnia era composta da ragazzi tra i dodici e i quindici anni. La maggior parte era gente che , per ragioni politiche o altrimenti, doveva condurre un'esistenza vagabonda , con nulla da perdere e tutto da guadagnare nella violenza. Alcuni erano stati con lui in America e indossavano costumi da gaucho; prendevano al laccio gli animali erranti e se li arrostivano all'aperto. Quasi nessuno portava la camicia rossa, perchè disprezzavano qualsiasi tipo di uniforme, il segno delle truppe regolari. 



Giuseppe Garibaldi.


Che non si trattasse di una comitiva propriamente inappuntabile lo riconobbe lo stesso Garibaldi che scrisse: "(...) ben si conosce che tra i corpi volontari , ch'ebbi l'onore di comandare in Italia, l'elemento contadino è mancato sempre, per cura dei reverendi ministri della menzogna. I miei militi appartenevano quasi tutti a famiglie distinte delle diverse provincie italiane. E' vero che non mancarono tra i miei volontari alcuni malandrini in tutte le epoche , intrusi furtivamente , o tra noi mandati dalle polizie o dai preti per suscitarvi dei disordini e delitti , e così screditare il corpo". Insomma, per il "ladrone dei due mondi", era sempre colpa degli altri arrivando a muovere accuse assurde.

Indignato per le disposizioni riguardanti i suoi uomini, Garibaldi fece avere al governo repubblicano una lettera che magnificava, con un grandissimo eccesso di baldanza , fantasia , e indulgenza, le proprie doti militari e lo scarso rispetto per la statistica: "Io, in cento combattimenti non conto una sola sconfitta". Tornato fra i suoi e - dopo aver girovagato con essi tra l'Umbria e le Marche fra la disperazione degli abitanti che subivano furti e violenze - si trasferì prima a Macerata e poi a Rieti. Alle elezioni della rivoluzionaria "Assemblea Costituente" del 21 gennaio 1849 Garibaldi venne eletto (non troppo brillantemente e non per merito suo) a Macerata, grazie al voto dei suoi legionari e nonostante che una norma vietasse  esplicitamente l'eleggibilità di chi non fosse cittadino degli Stati Pontifici.
Garibaldi lasciò la sua "Legione" a Rieti al comando del fedele Nino Bixio e il 5 febbraio partecipò a Roma alla riunione innaugurale dell'Assemblea dove, grazie alla propaganda , viene accolto con entusiasmo dalla cricca al potere.


Come mai rivoluzionari di tutta Italia, ed anche moltissimi stranieri, chiamarono romana la repubblica che proclamarono? Il perché lo spiegò Giuseppe Mazzini, anima di quel tentativo totalitario, condotto, manco a dirlo, nel nome dell'astrazione dettata dalla follia , della "libertà e della costituzione". A chi dice «Roma è dei Romani», scrive Mazzini, bisogna rispondere: «No; Roma non è dei Romani: Roma è dell’Italia». E la popolazione romana sbigottita dalla violenza rivoluzionaria? «I Romani che non lo intendono non sono degni del nome». I romani non degni del nome erano, come ovvio, in primo luogo i Cattolici: praticamente tutta la popolazione. La gnosi, nelle sue varie incarnazioni settarie, era , ed è, convinta di saperla molto più lunga della Rivelazione e del Magistero che la interpreta. Mazzini, e con lui tutte le società segrete, si ripropongono di farla finita con la Chiesa cattolica: è un ostacolo al progresso incarnato dalle loro scientifiche convinzioni politiche. Il mito della Terza Roma, che prepotentemente si afferma durante l’Ottocento, persegue proprio questo obiettivo: mettere la parola fine alla Roma cristiana che ha oscurato (così quelle menti folli ritenevano e ancora ritengono) la bellezza e la forza di quella pagana, riportando l’orologio della storia indietro di millecinquecento anni e tornando ai fasti del paganesimo. Terza Roma, per l’appunto. Questa è l’IDEA – come si diceva allora scrivendola in maiuscolo ed idolatrando il pensiero di chi tanto ideale aveva concepito – che trionfa a Roma nel 1849. Ebbri di gioia per la fine del potere temporale, i rivoluzionari governavano da ubriachi, commettendo crimini ad oltranza , ovvero da veri e propri delinquenti.

Papa Pio IX.

Non solo il Papa Pio IX , costretto a rifugiarsi a Gaeta dove era ospite di Ferdinando II di Borbone,  denunciò tali nefandezza, ma anche le stesse fonti liberali dell’epoca che descrissero  le gesta del potere rivoluzionario. Varrà la pena di citare qualche testimonianza, a cominciare, come ovvio, dal Papa. Il 20 aprile 1849 da Gaeta, nell’allocuzione Quibus, quantisque malorum, Pio IX descrisse in una lunga lettera cosa succedeva a Roma "in nome della libertà e della costituzione".
I liberali affermavano di agire per il bene della Chiesa che volevano  purificata dall’incombenza del potere temporale? I liberali desideravano che la Chiesa diventasse più aderente ai voleri di Cristo e, quindi, più povera, pura e libera? Analizziamo i fatti, suggeriva il Papa, e vediamo se erano davvero queste le intenzioni dei rivoluzionari. I fatti sono i seguenti: "è impedita qualsiasi comunicazione del Papa con i vescovi, il clero, i fedeli; Roma si riempie di uomini (apostati, eretici, comunisti e socialisti, come si definiscono) provenienti da tutto il mondo, pieni di odio nei confronti della Chiesa; i liberali si impossessano di tutti i beni, redditi e possedimenti ecclesiastici; le chiese sono spogliate dei loro ornamenti; gli edifici religiosi dedicati ad altri usi; le monache maltrattate; i religiosi assaliti, imprigionati ed uccisi; i pastori separati dal proprio gregge ed incarcerati".
La conclusione che Pio IX trae dall’analisi delle imprese del potere rivoluzionario è inequivocabile. La "mitica" Repubblica Romana aveva un unico, vero, obiettivo: il fine delle società segrete (che non esitarono ad utilizzare a questo scopo lo stesso nome di Cristo) era , ed è, la totale distruzione della Chiesa cattolica. Proprio come convintamente sostenuto dai gran maestri e dalla rivista della la massoneria.
Gli agitatori di popolo calati a Roma nel 1849 agirono da delinquenti non solo nei confronti della Chiesa e delle sue proprietà ma dell'intera società e del popolo. Pio IX documentò come i liberali misero  in pericolo l’ordine e la prosperità dell’intera società civile: "l’erario pubblico è dissipato e ridotto a nulla; il commercio interrotto e quasi inesistente; i privati derubati dei loro beni da coloro che si definiscono guide della popolazione; la libertà e la stessa vita di tutti i sudditi fedeli messa in pericolo".
Pio IX prima di lasciare Roma nel manifesto da lui voluto rivolgendosi ai suoi sudditi disse: «Comandiamo ai nostri buoni e fedeli sudditi dl non resistere, per non moltiplicare quegli odi civili, a estinguere i quali daremmo volentieri la vita in olocausto. Quando a Dio piaccia, ben potrà Egli sen’alcuna forza umana riedificare mediante l’amore dei popoli questo temporale dominio della Santa Sede, che dall’amore dei popoli ebbe origine».
File:Litografia ballagny, fine XIX sec. luigi carlo farini.JPG
Luigi Carlo Farini.


Nemmeno le fonti liberali si discostano dalle affermazioni del Papa. Luigi Carlo Farini, futuro presidente del Consiglio del "Regno d’Italia", ne "Lo stato romano dall’anno 1814 al 1850", scrisse: «Fra gli inni di libertà, e gli augurii di fratellanza erano violati i domicilii, violate le proprietà; qual cittadino nella persona, qual era nella roba offeso, e le requisizioni dei metalli preziosi divenivano esca a ladronecci, e pretesto a rapinerie». Quanto al "ladrone dei due mondi",  Garibaldi, nelle sue Memorie, così raccontò cosa capitava – e cosa facevano – i "bravi garibaldini": «mossomi da Tivoli verso tramontana per gettarmi tra popolazioni energiche e suscitarne il patriottismo, non solo non mi fu possibile riunire un sol uomo, ma ogni notte [...] disertavano coloro che mi avean seguito da Roma». Cosa facevano i disertori? «I gruppi dì disertori si scioglievan sfrenati per le campagne e commettevano violenze d’ogni specie».
Roma era immersa nell'oscurità e devastata da orde di criminali che si definirono "liberatori".





Le potenze Cattoliche e la liberazione di Roma.


Le potenze Cattoliche si organizzano.




Leopoldo II di Toscana
(1840).
 
 A Gaeta giunse anche Leopoldo II di Toscana , costretto anch'egli all'esilio, che richiese (e accettò) l'offerta di protezione che gli venne dal giovane Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe I . Era stato di poco preceduto dal Segretario di Stato di Pio IX, cardinale Antonelli, il quale, il 18 febbraio, inviò ad Austria, Francia, Regno delle Due Sicilie e Spagna una nota diplomatica: «avendo il Santo Padre esauriti tutti i mezzi che erano in suo potere, spinto dal dovere che ha al cospetto di tutto il mondo cattolico di conservare integro il patrimonio della Chiesa e la sovranità che vi è annessa, così indispensabile a mantenere, come Capo Supremo della Chiesa stessa … si rivolge di nuovo a quelle stesse potenze, e specialmente a quelle cattoliche … nella certezza che vorranno con ogni sollecitudine concorrere … rendendosi così benemerite dell'ordine pubblico e della Religione».
Lo stesso giorno, Radetzky fece partire da Verona un piccolo corpo di spedizione di 6 000 uomini, che entrò nello  Stato Pontificio. Ma essi si limitarono a prendere posizione a  Ferrara, in attesa degli ordini . La liberazione di Roma dalla "Repubblica Romana" e della Toscana dalla "Repubblica Toscana", infatti, richiedeva una accurata e ben strutturata spedizione militare che, pendente il provvisiorio armistizio di Salasco, né l'Impero d'Austria né il Regno di Sardegna potevano permettersi di impiegare. Mentre il Regno delle Due Sicilie era impegnato nella liberazione della Sicilia dal governo rivoluzionario e del sovversivo Parlamento napoletano.



Il Feldmaresciallo Radetzky.

Occorreva, quindi, che una guerra controrivoluzionaria decidesse, definitivamente, la sorte della Lombardia. Il momento venne il 12 marzo, quando l'inviato di Carlo Alberto comunicò al Radetzky il recesso dell'Armistizio di Salasco. La guerra si concluse rapidamente, il 22-23 marzo con la sconfitta sardo-piemontese di Novara e l'armistizio del 24.
A quel punto il nuovo sovrano , assai peggiore del precedente, Vittorio Emanuele II, dovette concentrarsi sulla caotica situazione politica interna (30 marzo scioglimento delle camere e nuove elezioni, governo d'Azeglio 1º-5 aprile repressione dei moti di Genova, arresisi il 10, 18 giugno sgombero Imperiale da Alessandria, 6 agosto Pace di Milano, sollevazioni popolari contro il governo liberale, cannoneggiamento di Genova e massacri di civili).
Nelle giornate successive a Novara, Radetzky chiuse anche la partita con gli sparuti sovversivi lombardi, arrestando sul nascere, con l'appoggio della popolazione tornata nella retta via, alcuni tentativi di ribellione (Como) e arrestandone  altri (Brescia). Mentre continuava unicamente l'assedio per liberare  Venezia dal governo rivoluzionario.

Le operazioni dell'esercito Imperial-Regio.


Costantino d'Aspre.

A riportare l'ordine legittimo  il feldmaresciallo inviò il suo uomo migliore: il luogotenente-feldmaresciallo Costantino d'Aspre (reduce dalle brillanti vittorie di Volta Mantovana, Mortara e Novara), che, all'inizio di aprile, procedette alla liberazione di Parma, con il titolo di "Governatore supremo degli Stati di Parma". Dopodiché il d'Aspre si presentò sotto l'Appennino con 18 000 uomini, cento cannoni, genio ed un po' tutto il necessario ad una vera e propria campagna militare. Il 5 maggio liberava Lucca, il 6 Pisa. Livorno in mano ai rivoluzionari chiuse le porte attaccando dalle mura le truppe Imperiali che vennero costrette a bombardare e venne le mura della città il 10 maggio, assalendo i rivoluzionari, e prendendola  l'11 (fonti di propaganda risorgimentalista anti-austriaca sparsero la voce che furono eseguite  317 fucilazioni ed 800 morti; cosa mai dimostrata e smentita).
La la Repubblica rivoluzionaria del Guerrazzi era stata rovesciata già il 12 aprile dai moderati del municipio di Firenze, i quali aveva subito richiamato il Granduca e trasferito i propri poteri ad un suo plenipotenziario, Serristori, tornato a Firenze il 4 maggio. Per assicurare l'ordine, il 25 maggio d'Aspre entrò in Firenze,  sottopose alla giurisdizione dei tribunali militari imperiali anche il giudizio dei reati comuni. Leopoldo II rientrò a Firenze solo il 28, accolto da una gran folla festante , e sancì la presenza militare Imperial-Regia con apposita convenzione militare, firmata nel 1850.
La primaria liberazione della Toscana era necessaria all'esercito Imperiale per ristabilire l'ordine legittimo  sull'Italia centrale, in vista del prossimo sbarco di un corpo di spedizione francese, inviato da Luigi Napoleone , non ancora "Imperatore",  a liberare Roma dalla sovversiva  "Repubblica Romana" guidata dal Mazzini.



Generale Wimpffen.


Parallelamente all'azione del d'Aspre, infatti, il Generale Wimpffen si presentò dinnanzi a Bologna. Questi   rispetto a Welden  non agivano più per solo ordine imperiale  ma in alleanza con il legittimo governo pontificio in esilio ed in nome del Papa Re , e il corpo di spedizione era formato da ben 16 000 uomini, dal momento che Radetzky non aveva più necessità di tenere guarnito il confine del Ticino. L'assalto per liberare la città, difesa da meno di 4 000 rivoluzionari , cominciò l'8 maggio. Wimpffen venne rinforzato da Karl von Gorzkowski, giunto il 14 maggio da Mantova con truppa e cannoni d'assedio. Il 15 le difese della città vennero bombardate e  il 16 maggio la stessa città venne liberata dal giogo rivoluzionario.

Wimpffen proseguì allora per la munita piazzaforte di Ancona, raggiunta il 25 maggio. La città era una piazzaforte ben munita, guidata da un esagitato sgherro rivoluzionario di nome Livio Zambeccari, e difesa da appena quattromila soldati stranieri e alcuni provenienti da alcuni Stati d'Italia. L'attacco da terra e da mare cominciò il 27. Il 6 giugno Wimpffen ricevette il parco d'assedio di Gorzkowski, cinquemila Toscani inviati da Leopoldo II e condotti dal Liechtenstein. Dopo due settimane di bombardamenti e vari episodi di eroismo specie da parte delle forze di liberazione  , il 17 giugno Zambeccari accettò la proposta di resa avanzata dal Wimpffen, firmata il 19. Il 21 consegnò la Cittadella ed i forti; i difensori della città furono salutati dai vincitori con l'onore delle armi. Seguì una presenza militare per ristabilire saldamente l'ordine durante la quale fu fucilato un pericoloso e fanatico sovversivo, tale Antonio Elia, mente e braccio della resistenza rivoluzionaria agli Imperial-Regi.


La reazione del Triunvirato, lo sbarco a Civitavecchia dei francesi e lo sbarco dei Bersaglieri ad Anzio.



Luigi Napoleone
(1848).


Nel frattempo, anche nella  Roma devastata dalla Rivoluzione, alla notizia della disfatta di Novara venne nominato un triumvirato plenipotenziario, composto da Aurelio Saffi, deputato di Forlì, Carlo Armellini, deputato di Roma, e da Giuseppe Mazzini, deputato eletto, dalla stessa cricca al potere, nei collegi di Ferrara e Roma: era evidente lo sforzo della cricca di tenere unite le due principali province dello Stato della Chiesa.
Nel frattempo, i circa 7 000 uomini del corpo di spedizione francese, guidati dal generale Oudinot, Duca di Reggio, che stazionavano su dieci navi da guerra salpate da Tolone il 22 aprile al comando del contrammiraglio Tréhouart, sbarcarono a Civitavecchia il giorno 24.
 Le disposizioni del ministro degli Esteri francese Édouard Drouyn de Lhuys a Oudinot di marciare, il 28 aprile, con circa 6 000 uomini e senza cannoni su Roma furono un pò avventate. Il generale proclamò ai propri soldati: "non troveremo nemici … ci considereranno come liberatori". In effetti il popolo di Roma , nel senso stretto del termine, considerava i soldati francesi che combattevano in favore del governo legittimo come veri liberatori che li avrebbero sottratti dal giogo del  governo Rivoluzionario; la stessa considerazione, come ovvio che sia, non era condivisa dalla cricca al potere e dai mercenari al suo servizio.
Il 27 aprile giunsero in porto a Civitavecchia due battelli, il "Colombo" ed il "Giulio II", salpati da Chiavari. Essi trasportavano 600 bersaglieri della disciolta 'Divisione Lombarda' dell'esercito sardo-piemontese: tale divisione era stata costituita nel corso della campagna del 1848 con reclute e volontari di bassa lega provenienti dalle province occupate del Lombardo-Veneto. Rimasta inquadrata nell'armata di Carlo Alberto dopo l'Armistizio di Salasco, la divisione non partecipò alla battaglia di Novara a causa di una decisione del suo comandante, il generale Ramorino; dopodiché venne assegnata al Fanti e trasferita in Liguria, ove diede ad intendere di voler supportare i rivoltosi nel corso della repressione sabauda di Genova dove i loro colleghi si distinsero per stupri e massacri. Le conseguenze furono pari alle attese: Ramorino venne fucilato, Fanti allontanato dall'esercito (per alcuni anni), la divisione sciolta. Questo rese liberi quelli che volevano combattere (peraltro impossibilitati a rientrare nel Lombardo-Veneto) di andare ove ancora regnava il caos della Rivoluzione.
I 600 bersaglieri rappresentavano una forza significativa, in quanto la loro composizione sostanzialmente rispecchiava quelle già sperimentata nella 'Divisione Lombarda', probabilmente grazie alla particolare personalità del loro comandante, il convinto e fanatico nazionalista Luciano Manara.

Giunti a Civitavecchia, essi furono sorpresi dalla presenza delle truppe francesi di Oudinot, che cercò di impedirne lo sbarco. Dopodiché, insicuro della città appena liberata e certo di chiudere la partita entro pochi giorni, preferì temporeggiare, permettendo di farli proseguire per Porto d'Anzio, dove sbarcarono il 27 aprile, in cambio dell'impegno di Manara a non combattere prima del 4 maggio.
Giunsero, così, a Roma, il 28, con marcia forzata, ove avrebbero offerto un contributo assai significativo alla difesa della sovversiva Repubblica.

Il fallito tentativo francese del 30 aprile.

La Roma in mano alla Rivoluzione  era difesa da circa 10 000 soldati al soldo della Repubblica (l'altra metà dei 20 000 che componevano l'esercito era dislocata in altre zone della Repubblica stessa). Le truppe erano suddivise in quattro brigate: la prima, comandata da Garibaldi, presidiava il Gianicolo tra Porta Portese e Porta San Pancrazio, la seconda, agli ordini del colonnello Luigi Masi stazionava sulle mura tra porta Angelica e porta Cavalleggeri, la terza, con i dragoni del colonnello Savini controllava le mura della riva sinistra del Tevere mentre la quarta, al comando del colonnello Galletti, rappresentava un reparto di riserva dislocato tra la Chiese Nuove e largo Argentina. L'attacco francese giunse il 30 aprile e il corpo di spedizione si presentò di fronte a Porta Cavalleggeri e Porta Angelica con 5 000 soldati. Lo sprovveduto e sparuto contingente di Oudinot venne preso a cannonate e a fucilate e fu ignominiosamente respinto dai militi della Guardia Civica mobilizzata, denominata anche Guardia Nazionale per l'aggiunta dei Corpi Civici provenienti da altre città degli Stati Romani, comandata da Ignazio Palazzi che aveva ricevuto il compito di difendere le Mura Vaticane. Nei combattimenti, durati sino a sera, venne fuori il Garibaldi, il quale, uscito quando i francesi stavano già per desistere, da Porta San Pancrazio (sul Gianicolo) con il Battaglione Universitario Romano e con la sua "Legione" , con un attacco alla baionetta sorprese alle spalle i francesi in ritirata  a Villa Doria-Pamphili, provocandone facilmente la rotta. In serata Oudinot ordinò la ritirata su Civitavecchia, lasciando dietro di sé oltre 500 morti e 365 prigionieri. Al termine della giornata, la rivoluzionaria Repubblica aveva ottenuto un trionfo fittizio.

La tregua con i francesi


Garibaldi con Bixio e l'attendente Andrea Aguyar,
durante la difesa della Repubblica Romana.

 Mazzini, dato il totale isolamento della Repubblica Romana che non era stata riconosciuta da alcuna potenza internazionale, ordinò a Garibaldi di non rischiare inseguendo inseguire i francesi in ritirata inducendolo a liberare i prigionieri in suo possesso in vista di un possibile accomodamento politico-diplomatico con la Repubblica francese. Tali scelte furono in seguito molto criticate, alla luce del successivo indurirsi della posizione francese. E certamente pesò un generale pregiudizio favorevole alla patria  della "grande rivoluzione". Tuttavia esso contribuì fortemente ad "abbellire" l'immagine della Repubblica alle fazioni liberali d'Europa.
Verificate le intenzioni del Mazzini, Oudinot contraccambiò, mandando libero un battaglione di bersaglieri che aveva catturato a Civitavecchia, e pseudo pretucolo Ugo Bassi mentre impartiva l'estrema unzione (?) ad un ferito francese.
Informato degli avvenimenti, il settario Luigi Napoleone, presidente della Repubblica francese, non mostrò alcuna esitazione: già il 7 maggio accolse per iscritto tutte le richieste di rinforzo avanzate dall'Oudinot, e il 9, a Tolone, si imbarcava in tutta fretta, un nuovo ambasciatore plenipotenziario, il barone di Lesseps, con l'incarico di pattuire una tregua d'armi. Si tratta di due reazioni prese rapidissimamente, se si considerano i tempi necessari per le comunicazioni da Roma a Parigi. Tanta fretta era giustificata dall'approssimarsi delle elezioni legislative francesi, fissate per il 13 maggio: la restaurazione del Papa Re costituiva uno dei principali temi del dibattito e la maggioranza del corpo votante era senz'altro a favore dell'integrale restaurazione del potere legittimo di Pio IX. Né v'era in Italia alcuna potenza capace di opporvisi. Mentre l'Inghilterra anglicana e antipapista giocava, come di consueto nell'Ottocento italiano (nonostante quanto da molti sostenuto) un ruolo assai preminente: la questione italiana  rappresentava già nel 48  una priorità per Londra e la presenza di navi inglesi a Venezia ne era la prova tangibile.
Se v'era ancora qualche dubbio, esso fu spazzato via dall'esito delle elezioni, che diedero ai candidati monarchici e moderati una maggioranza di 450 seggi su 750, confinando  i democratici (come il Ledru-Rollin) ad un ruolo di puri spettatori.



Luigi Napoleone e l'intervento dell'esercito duosiciliano e spagnolo.

Oltre che dalle necessità elettorali, Luigi Napoleone (ed il presidente del consiglio Barrot) era spinto alla massima celerità anche dalla concorrenza delle altre potenze desiderose di liberare Roma e restituirla al Sommo Pontefice: in particolare, come abbiamo visto, il Wimpffen aveva liberato Bologna fra l'8 ed il 16 maggio. E si accingeva a marciare su Ancona e liberarla.

S.M. Ferdinando II di Borbone delle Due Sicilie.

 Ferdinando II, Re delle Due Sicilie, nei mesi precedenti  era stato alle prese con l'insurrezione siciliana (che proprio in quei giorni andava spegnendosi, con l'avanzata del generale Filangieri sino a Bagheria, il 5 maggio, e la capitolazione e liberazione di Palermo, il 14 maggio) e con la repressione delle sovversive libertà costituzionali a Napoli (le camere vennero sciolte una prima volta il 14 giugno 1848 e poi ancora il 12 marzo 1849, dopodiché venne restaurato diligentemente  il potere assoluto del sovrano). La ristabilizzazione dell'ordine  stava perfezionandosi e il Re godeva  sull'indubbio prestigio che gli derivava dall'ospitare (sin dal 25 novembre 1848) Pio IX nella munitissima fortezza di Gaeta. Ferdinando II , decise di difendere materialmente i diritti legittimi del Pontefice  ed inviò a liberare Roma  il generale Winspeare, alla testa di un corpo di spedizione forte di 8 500 uomini, con cinquantadue cannoni e cavalleria.
Si fece loro incontro Garibaldi, con 2 300 uomini, che condusse il 9 maggio fuori Palestrina dove presero posizione trincerandosi. Qui si scontrò con l'avanguardia napoletane del generale Ferdinando Lanza che avanzava sulla cittadina. Garibaldi che tra le sue forze contava anche il battaglione bersaglieri lombardi, al comando di Luciano Manara, l'unico battagliano disciplinato, contrattaccarono e spinsero Lanza a ripiegare. Fu una  vittoria irrisoria dal momento che il grosso dell'esercito duosiciliano  non era stato minimamente impegnato in battaglia.
Alcuni giorni più tardi, il 16 maggio, il nuovo comandante dell'esercito rivoluzionario romano, il generale Roselli (che era affiancato dal disertore napoletano  Pisacane, quale suo capo di Stato Maggiore) mosse i suoi 10 000 uomini verso i quartieri del Lanza su Velletri ed Albano. Qui il Lanza, pessimo personaggio che mostrerà la sua vera indole marcia e corrotta durante i fatti del 1860, era stato nel frattempo raggiunto da Ferdinando II in persona e, messo di fronte ad una nuova battaglia, preferì ordinare ai suoi 16 000 soldati di ripiegare verso Terracina. Garibaldi pensò di impedirlo e, il 19, con appena 2 000 uomini tentò un'imboscata. La sproporzione di forza  era eccessiva e venne facilmente respinto dai Regi, che completarono ordinatamente il proprio ripiegamento.
Nei giorni successivi si presentò la quarta potenza Cattolica: un corpo di spedizione spagnolo di discrete dimensioni (9 000 uomini) giunse  a Gaeta verso la fine di maggio e venne passato in rivista e benedetto da Pio IX, il 29 maggio, ed uscì da Gaeta per Terracina.
Si comprende bene, quindi, perché il diabolico Mazzini tenesse particolarmente ad esplorare ogni possibile compromesso con la Francia, principalmente per guadagnare tempo.

Ennesimo tentativo di accomodamento con la Francia.



Ferdinand Lesseps.

L'occasione al Mazzini gli venne il 15, quando giunse a Roma il plenipotenziario di Lesseps, col quale venne subito pattuita una tregua d'armi di 20 giorni. Dopodiché Mazzini e Lesseps presero a negoziare per un accordo duraturo. Si accordarono e, il 31 sottoscrissero un testo di trattato che val la pena di riportare integralmente:
« Art. 1. L'appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni degli Stati romani. Esse considerano l'armata francese come un'armata amica che viene a concorrere alla difesa del loro territorio.
Art. 2. D'accordo col governo romano e senza per nulla ingerire nell'amministrazione del paese, l'armata francese prenderà gli accantonamenti esterni, convenevoli per la difesa del paese che per la salubrità delle truppe. Le comunicazioni saranno libere.
Art. 3. La Repubblica francese garantisce contro ogni invasione straniera il territorio occupato dalle sue truppe.
Art. 4. Resta inteso che la presente convenzione dovrà essere sottomessa alla ratifica del governo della Repubblica francese.
Art. 5. In nessun caso gli effetti della presente convenzione potranno cessare che 15 giorni dopo la comunicazione ufficiale della non ratifica. »

Come si vede, entrambe le parti avevano furbescamente , ma anche con un certo controsenso,  negoziato: Mazzini aveva ottenuto ciò che più gli importava: l'impegno alla non-ingerenza negli affari interni della sovversiva Repubblica Romana. Oltre, naturalmente, ad un impegno alla difesa del Lazio di fronte alle truppe Imperial-Regie e napoletane e spagnole, molto più sincere e coerenti nelle azioni e nello spirito rispetto a quelle francesi. Ma si trattava di una concessione scontata, dal momento che il primario interesse francese nell'operazione era proprio "mantenere la sua [della Francia] "legittima" influenza", cosa che Mazzini ben volentieri (dato che gli faceva comodo) accettava. L'ultima clausola, infine, assicurava un ulteriore prolungamento della tregua di almeno 15 giorni: assai preziosi, nelle circostanze date. Ugualmente soddisfatto dovette dirsi il Lesseps, il quale otteneva la sanzione alla permanenza del corpo di spedizione che, anzi, diveniva una “armata amica”.

Roselli in una cartolina
 risorgimentalista di inizio 900.

Nell'attesa della ratifica, ed a scanso di incomprensioni, tuttavia, il 27 Roselli prese la saggia decisione di richiamare a Roma le colonne dei "volontari". Questi, dopo la battaglia del 19, avevano proseguito verso sud: Garibaldi era entrato in Rocca d'Arce, Manara il 24 in Frosinone ed il 25 in Ripi saccheggiando e commettendo ogni sorta di crimine. In effetti, ritiratisi i Napoletani, la resistenza era costituita unicamente da bande contadine  di  volontari , affrettatamente organizzate dal generale Zucchi (l'ultimo ministro della guerra di Pio IX). Conseguentemente, il comandante generale Roselli era rientrato in Roma, per effettuare i possibili preparativi sul fronte principale.
Garibaldi e Manara rientrarono in Roma, il 1º giugno.

La Francia torna all'attacco.

Mazzini e Lesseps, infatti, avevano fatto i conti senza l'oste: sulla scorta del risultato elettorale, infatti, Luigi Napoleone era ormai ben deciso ad ottenere il massimo risultato ed a consolidare il proprio potere lavando l'onta della pessima figura del 30 aprile. Egli, quindi, il 29 maggio inviò due lettere: una all'Oudinot, comandandogli di procedere con l'assedio della città e una al Lesseps, con il quale gli ingiungeva di considerare esaurita la sua missione e di rientrare in Francia (dove diede le dimissioni dal servizio diplomatico). Cosicché, non appena informato degli accordi del 31 maggio, il generale poté mutare l'operato del plenipotenziario e darne conseguente comunicazione ai propri ufficiali.
Ciò consentì all'Oudinot di mettere insieme 30 000 uomini ed un possente parco d'assedio. Dopodiché, denunciò la tregua ed annunziò la ripresa dei combattimenti, a decorrere dal 4 giugno.


Generale d'Angely.

Un buon indizio della determinazione con cui Luigi Napoleone impose i suoi obiettivi, viene dal destino del corpo di spedizione spagnolo di Fernández da Córdoba che, nel frattempo, si era presentato dinnanzi a Terracina. Ove non incontrò l'esercito di Roselli, poiché esso era stato, nel frattempo, per precauzione ritirato su Roma . Da qui, tuttavia, gli spagnoli non proseguirono su Roma, ma fecero una deviazione, portandosi in Umbria (rimasta sguarnita, ma non presieduta dagli Imperial-Regi ). Evidentemente, Parigi non gradiva la loro presenza nella prossima battaglia, che doveva essere esclusivamente francese.
Il 1º giugno Oudinot comunicò a Roselli la ripresa delle ostilità, fissata (come si usava allora) al 4 giugno.
Ai soldati del 30 aprile, si erano aggiunti altri 24 000 soldati, per un totale di 30 000 uomini e circa 75 cannoni:  si consideri che l'intera prima fase della Prima guerra di espansionismo sabaudo era stata condotta da Carlo Alberto di Savoia con, appunto, 30 000 soldati (un'enormità per le dimensioni del suo Stato). Essi vennero organizzati in tre divisioni, al comando dei generali d'Angely, Louis de Rostolan e Philippe-Antoine Gueswiller.
Ma alla straordinaria preponderanza numerica, Oudinot aggiunse una piccola scorrettezza : pur essendosi impegnato per la data del 4 in una lettera da lui firmata e pervenuta a Roselli, fece muovere le truppe con un giorno di anticipo, la mattina del 3: evidentemente, Luigi Napoleone premeva affinchè la questione si risolvesse in breve tempo.


Assedio e liberazione di Roma.

Il 31 maggio, il generale francese Oudinot ritenne nullo  il trattato di alleanza negoziato da Lesseps (che lo negozio senza il consenso di Parigi) ed annunciò la ripresa delle ostilità: egli ora disponeva di 30 000 soldati ed un possente parco d'assedio.

Assalto francese ai bastioni repubblicani.

La Roma della Rivoluzione  venne assaltata all'alba del 3 giugno. Il primo obiettivo era la conquista del Gianicolo, monte sopra Trastevere dal quale si dominava la città. Esso venne parzialmente conquistato solo dopo una sanguinosa battaglia, nella quale  i "volontari" del Garibaldi si comportarono assai male. Quel giorno durante il tentativo di contrattacco a Villa Corsini, alle pendici del Gianicolo, venne ferito il "cantastorie della massoneria" Goffredo Mameli che morirà un mese dopo a causa delle conseguenze della ferita.
Seguirono molti giorni di bombardamento, durati sino al 20. Quella notte i francesi presero un tratto dei bastioni di Trastevere. Il governo della Repubblica Romana guidato dal Mazzini rifiutò, ancora una volta, di arrendersi nonostante la situazione e le ingenti perdite, e Oudinot riprese con più veemenza il bombardamento: al contrario del precedente, però, esso venne rivolto  direttamente alle difese principali della città volti ad indurre alla resa. Nel frattempo, le truppe francesi erano riuscite ad oltrepassare il Tevere presso Ponte Milvio, nonostante la tenue resistenza del Battaglione Universitario Romano. Diversi furono gli studenti romani di estrazione nobile ed alto-borghese  caduti nelle giornate di giugno, compresi i Fratelli Archibugi.

Gernerale Medici.

Dopo altri sei giorni di cannonate, il 26, venne comandato un nuovo assalto al caposaldo dei difensori sul Gianicolo, la Villa del Vascello, fortunosamente respinto da Medici ed i suoi volontari.
Il 30 Oudinot comandò un assalto generale e si impossessò di tutti i capisaldi fuori le mura aureliane. Sul Gianicolo si combatté l'ultima battaglia della storia della sovversiva Repubblica Romana. Il generale Garibaldi difese, al sicuro in posizione a lui favorevole,   il Vascello ed i suoi "volontari" attaccarono i francesi alla baionetta in modo disordinato, ci saranno 3 000 uomini fra morti e feriti dalla parte garibaldina. Caddero circa 2 000 francesi, ma la battaglia per i rivoluzionari era comunque perduta.
A mezzogiorno del 1º luglio fu stipulata una breve tregua per raccogliere i morti e i feriti. All'"Assemblea Costituente" Mazzini dichiarò tra le sue farneticazioni che l'alternativa era tra capitolazione totale e battaglia in città (cosa che avrebbe voluto se non fosse rimasto praticamente da solo) . Dopo la battaglia del 30 giugno era giunto in fretta e furia Garibaldi, che confermò che oramai era impossibile continuare a resistere. Durante un discorso pomposo  e tragicomico all'"Assemblea Costituente", Garibaldi aveva proposto la ritirata da Roma e aveva detto "Dovunque saremo, colà sarà Roma."

Vi furono anche dei ridicoli battibecchi tra il Garibaldi che dava la colpa al Mazzini perchè non lo aveva nominato dittatore.  La questione  segnò la formale rottura fra Garibaldi ed il suo antico "maestro".  Garibaldi se ne ricordò  bene ed alla prima occasione utile, nel 1860 a Palermo, non mancò di proclamarsi “dittatore”.


Garibaldi fugge da Roma.




Garibaldi con Anita fugge da Roma con i suoi seguaci.

  La mattina del 2 luglio Garibaldi tenne, in piazza San Pietro, il famosissimo e pomposissimo discorso: "io esco da Roma: chi vuol continuare la guerra contro lo straniero, venga con me … non prometto paghe, non ozi molli. Acqua e pane quando se ne avrà". Diede appuntamento per le 18.00 in piazza San Giovanni, trovò circa 4 000 armati desiderosi di abbandonare il più presto possibile la città ,con ottocento cavalli e un cannone e, alle 20.00, si mise in marcia. Cominciò così una lunga marcia che vide la quasi totalità dei suoi uomini disertare: essi si macchiarono di violenze inaudite nei confronti delle popolazioni che incontravano; furti , saccheggi , stupri e omicidi vennero perpetrati. Lungo il percorso Garibaldi si rende nuovamente conto che la popolazione non era dalla sua parte e vide venire meno il fantasioso progetto  di sollevare le province e decise di tentare di raggiungere Venezia ancora in mano alla Rivoluzione.
Il  Generale d'Aspre, che si trovava comandante delle truppe di liberazione in Toscana e dell'esercito toscano, in via di riorganizzazione dedicò alla caccia dei pochi rimasti al seguito del Garibaldi  un'armata di circa 25 000 fanti, 30 cannoni e 500 cavalli finché non costrinse il nizzardo a trovare rifugio, il 31 luglio nella neutrale e massonica  Repubblica di San Marino. Da qui Garibaldi tentò l'ultima marcia, scendendo a Cesenatico, ove arraffò una flottiglia di battelli da pesca e si imbarcò per Venezia. Intercettati dalla flotta Imperiale i fuggitivi si dispersero: molti fuggitivi, fra i quali Basilio Bellotti, Ciceruacchio con il figlio Lorenzo, appena tredicenne e già dedito al pugnale, Ugo Bassi e Giovanni Livraghi, vennero catturati e fucilati dagli Imperiali come sovversivi, cosa che erano a tutti gli effetti. Durante la fuga, favorita dall'aiuto di famiglie liberali Garibaldi si sbarazzò della moglie Anita divenuta un peso per la fuga dal momento che ella era malata ed incintà: la strangolò e seppellì i resti frettolosamente.  assistito da pochissimi seguaci da Comacchio, attraverso Forlì, Prato e la Maremma giunse nei pressi di Follonica. Da qui si imbarcò per la Liguria, parte del Regno di Sardegna, ove poté far salva la pelle.

La resa del Governo Repubblicano.

Aurelio Saffi
(membro del Triumvirato a capo
 della Repubblica Romana)


Stabilito quanto concerne alla resa , restava da trovare un modo di cessare le ostilità che salvasse la faccia della cricca  Repubblicana. Tra le condizioni chieste dall'Oudinot, infatti, non v'era la rinuncia della "Assemblea Costituente" alla avvenuta proclamazione della repubblica. Pio IX, d'altra parte, non l'aveva mai riconosciuta e, dunque, non era necessario ottenerne alcuna concessione, diversa dalla semplice resa militare.
Si poteva, quindi, procedere alla resa senza che gli sgherri della Rivoluzione rinunciassero alla loro astratta Repubblica.
La "Repubblica Romana" dunque, essendo stata un artificiosa creazione dei rivoluzionari , e non avendo il Pontefice riconosciuto tale scempio istituzionale,  non poteva  vantare alcun tipo di legittimazione (tanto meno l'astratta "legittimazione popolare" che , oltretutto, non ci fu mai , e anzi, fu il popolo a essere ostile ad essa fin dal principio).



I francesi entrano nella  Roma liberata dalla Rivoluzione.


Ingresso delle truppe francesi a Roma.

I francesi entrarono a Roma  il giorno successivo: verso mezzogiorno presero posizione a Trastevere, Castel Sant'Angelo, il Pincio e Porta del Popolo, acclamati dalla popolazione; Oudinot venne solo in serata, con 12 000 soldati e pubblicò un comunicato in cui divideva la popolazione fra "veri amici della libertà" (il 95% della popolazione) e "pochi faziosi e traviati", definiti "una fazione straniera" (cosa che in effetti erano), "responsabile di un'empia guerra". E proclamava la legge marziale, eleggendo Governatore di Roma Rostolan, generale di divisione, coadiuvato da Sauvan, generale di brigata.
Il legittimo governo del Sommo Pontefice venne ristabilito per il bene del popolo e per la sua prosperità dopo lunghi mesi di miseria e privazioni.
Mazzini fuggi come un coniglio con nome e documenti falsi imbarcandosi su una nave dei suoi amici inglesi e abbandonando la penisola.

Conclusione

Stando così le cose – e le cose stanno così – viene spontaneo domandarsi come mai, caduti tanti miti, infrante tante ideologie, nessuno, ma proprio nessuno, fatta eccezione per pochi revisionisti e onesti intellettuali, abbia neppur lontanamente cominciato a mettere in discussione la leggenda creata intorno alla Repubblica Romana. Da destra come da sinistra tutti danno per scontato che l’esperimento ideato da Mazzini abbia costituito un effettivo passo in avanti verso le altisonanti e vuote parole che loro vanno spargendo come veleno, perchè prive della Verità,  tra cui libertà,  costituzione,  progresso, e giustizia. Basti ricordare che all’epoca della giunta guidata da Storace, solo pochi anni fa, la Regione Lazio spese parecchio denaro per diffondere capillarmente in tutte le scuole un opuscolo a fumetti dal titolo "Mazzini e il Risorgimento". In una delle vignette comparivano tre personaggi, all’apparenza contadini (erano accompagnati da vanghe e cazzuole), contadini che però indossavano una bella coccarda tricolore. Il primo gridava: «Hanno confiscato le terre del clero»; il secondo ribatteva: «e ora le distribuiscono ai contadini». Il terzo tirava le conclusioni: «Viva la repubblica». Soltanto trista e mera propaganda.
La verità è che, a destra come a sinistra, entrambi  frutti avvelenati della Rivoluzione,più o meno mascherata, più o meno avvertita, è sempre viva un’incrollabile ostilità, che in alcuni casi è più esatto definire odio, verso la Chiesa Cattolica. Teniamo comunque presente che l'attuale "Repubblica Italiana" non è altro che la trasfigurazione , non più di tanto moderata , della mazziniana "Repubblica Romana".


Fine....

Fonte:

Wikipedia (immagini).

L'IPERITALIANO (di Gilberto Oneto).

IL TIMONE n.88 – Dicembre 2009

Scritto da:

Redazione A.L.T.A.