sabato 11 gennaio 2014

Il modernismo ed il vecchio naturalismo.

 
 
La Civiltà Cattolica anno LVIII, vol. IV (fasc. 1376, 9 ott. 1907), Roma 1907 pag. 129-141.

IL MODERNISMO E IL VECCHIO NATURALISMO [1].

I.



Un biasimo, o insinuato copertamente o apertamente espresso, contro la recente enciclica di condanna delle dottrine modernistiche, è quello dell'indeterminato e dell'equivoco che si cela nel titolo stesso di modernisti e di modernismo [2]. Biasimo frivolo e ingiusto, poichè il titolo si porgeva da sè, come introdotto quasi a voce di popolo e imposto dall'uso; nè senza ragione, stante l'abbandono e lo scherno continuo delle dottrine «tradizionali», l'idolatrare cieco delle novità, l'arrogarsi infine il vanto esclusivo di «moderni», che facevano gl'innovatori, sebbene essi retrocedevano a precipizio verso le più vecchie, le più decrepite aberrazioni. Così, non è ancora un secolo, avvenne per il nome di liberale e di liberalismo: comunque generico in sè e, per rispetto all'uso e all'etimologia, così improprio, esso fu dato volgarmente e divenne proprio a coloro che sempre avevano in bocca, ma distruggevano, con l'abuso e con l'errore, la libertà. I liberali raccomandavano la libertà fino ad attribuirne, non solo l'esercizio, ma il diritto eguale alla virtù ed al vizio, alla verità e all'errore, alla religione divina ed alle religioni umane, e via via; con che riuscivano ad asservire i buoni ed a sfrenare i malvagi. I modernisti esaltano la «modernità» fino ad attribuirle il diritto e l'efficacia di modificare o costituire, per nuove evoluzioni o trasformazioni la verità stessa, la religione, la morale, ogni cosa, non potendo ciò che è vero e buono avere il torto di essere vecchio e immutabile; con che finiscono a conculcare la verità e a sollevare l'errore.
Del resto, quanto a sè, il nome di modernismo, come già quello di liberalismo, per il suo stesso significato ampio e generico, è bastevolmente atto a significare, ciò che gl'impose il diritto e, poniamo pure, l'arbitrio dell'uso: non un errore solo, ma molti, ma un complesso di errori, e più ancora che un sistema formato con sintesi chiara e ragionata, un indirizzo, per molti forse inconsapevole, ma non innocuo, determinato dall'opinione corrente, dall'«errore moderno». Con ciò si spiegano i diversi gradi di modernismo, come le tinte diverse di liberalismo.
Ma l'uno e l'altro ha nei suoi principii un veleno, di cui basta un pochissimo a infettare la vita e la scienza, la ragione e la fede: questo veleno è il naturalismo, l'esaltazione cioè della natura fino alla negazione, più o meno aperta, del soprannaturale. Ed è veleno occulto, il cui primo effetto sembra l'innebbriare di sè chi l'ha sorbito, dandogli la sensazione morbosa della libertà, della modernità, della giovinezza, mentre lo fa ludibrio della schiavitù morale e della vecchiaia intellettuale, di tutta quella generazione di antichi errori, verso cui irrimediabilmente ricaccia l'individuo e la società. Onde, siccome il vecchio liberale potevasi rassomigliare al tirannello medievale, che il poeta romantico accusava di far cantare dagli schiavi — la canzon di libertà; così il giovine modernista si può col satirico, togliendone la punta offensiva, paragonare al paralitico bimbo, che per troppa bramosia — d'affollarsi alla vita — s'arrabatta nel limbo, si arrabbatta cioè in mezzo a quelle tenebre che egli si va sempre più addensando intorno, quanto più affannosamente si dibatte per disperderle alla luce del suo «spirito moderno». L'uno si fa schiavo gridando libertà; l'altro decrepito esaltando la modernità.
Così è, perchè «questo, che si decora fastosamente non meno che falsamente del nome di spirito moderno, è il più vecchio degli spiriti, lo spirito del vecchio serpente, lo spirito del vecchio uomo, lo spirito che fa invecchiare tutte le cose, che le precipita verso la decadenza e la morte e che prepara insensibilmente le spaventose catastrofi della ultima dissoluzione» [3].
Queste parole che l'illustre vescovo di Poitiers diceva dello spirito del naturalismo liberalesco, noi possiamo ben ripetere, e a più forte ragione, di quello del naturalismo «modernista», il quale si può ritenere per naturale evoluzione del primo, come progeniem vitiosiorem.
In ciò singolarmente sta il riscontro che noi accennavamo nel precedente articolo tra l'enciclica Quanta cura, di Pio IX, dell'8 dicembre 1864, e quella di Pio X, Pascendi dominici gregis, dell'8 settembre 1907, la quale si può dire dia compimento alla prima, riprovando, sebbene in diversi termini di condanna, i principii e le conseguenze, già penetrate nelle menti cattoliche, della forma peggiore di naturalismo.

II.


Vi sono infatti due forme di naturalismo. L'una, che si potrebbe dire moderata rispetto all'altra, non rigetta per sè la propria esistenza di un ordine soprannaturale, ma ne rifiuta le conseguenze, l'applicazione legittima: non lo nega, ma ne prescinde: e ciò ancora in varii gradi, secondo che si contenta ad escluderlo dalle cose pubbliche e temporali, restringendolo tutto all'ordine delle cose private e spirituali, ovvero anche in queste non lo ammette se non come cosa di supererogazione e quindi libera all'individuo, che potrà lecitamente ricusarlo, e anche sottrarvisi dopo di averlo accettato.
In questa forma la religione positiva si considera o come una questione meramente privata, che solo cioè spetti all'individuo, ovvero, peggio, come un affare di scelta o di gusto: sicchè convenga all'autorità sociale, sia domestica sia civile, non ingerirvisi punto, se non per assicurare all'individuo piena ed assoluta libertà. Con ciò il liberalismo presuppone e pretende sopra un fondamento neutro, o meglio comune, stabilire l'educazione, l'insegnamento, la legislazione, ogni cosa che riguardi la felicità della famiglia e dello Stato, secondo il fine proprio della società civile: insomma risolvere fuori di ogni elemento rivelato il problema della vita umana e del pubblico governo.
Questa prima forma di naturalismo — che si potrebbe dire più politica che filosofica, più pratica che speculativa, in quanto non rimonta ai principii, ma si ferma alle conseguenze — fu quella direttamente condannata nei termini più solenni dalla Enciclica di Pio IX dell'8 dicembre 1864, come allora si dimostrò su questo periodico ampiamente [4]. Nè mancavano ottime ragioni di così fare, condannando allora questa forma più speciosa e addolcita di naturalismo, onde l'errore abbagliava le menti, anche di non pochi cattolici, ma più ancora allettava gli animi volti maggiormente alla pratica, senza urtare così immediatamente con l'aperta negazione, e d'altra parte assecondandone la ripugnanza naturale, che è ripugnanza della natura corrotta, a sottostare ad un'autorità superiore, massime in ciò che spetta alla vita pubblica e sociale.
Ma anche l'errore ha la sua logica: logica terribile che niuna forza può rattenere. E la logica qui risale dalla negazione delle conseguenze a quella de' principii, alla forma cioè più esagerata e recisa del naturalismo, a quella che assalta nella sua propria esistenza l'ordine soprannaturale. Essa fu detta a ragione «naturalismo filosofico». E questo naturalismo ha esso pure due gradi, l'uno più avanzato dell'altro, secondo che nega semplicemente come possibile e reale l'intervento soprannaturale di Dio nel dominio della natura e della ragione, pur ammettendone la distinzione e l'intervento naturale; ovvero nega altresì questa distinzione medesima e fa di Dio, della natura, della ragione, del tutto, un solo e medesimo essere: insomma l'aberrazione del deismo razionalistico e il delirio del sistema panteistico. L'uno e l'altro suppone la supremazia inalienabile della ragione, l'autonomia assoluta della natura; onde l'esclusione di qualsiasi rivelazione preternaturale o soprannaturale, di qualsiasi intromissione personale della divinità nella storia e nel mondo: ma il panteismo più terribilmente logico ne scalza fin l'ultimo fondamento, negando la personalità stessa di Dio.
L'uno e l'altro aveva dunque già contro di sè meritamente l'aperta riprovazione della Chiesa, la quale fu rinnovata nei primi paragrafi del Sillabo di Pio IX e di poi più solennemente nei decreti e canoni dell'ultimo Concilio ecumenico Vaticano. Non sembrava quindi che potesse aver adito fra cattolici, neppure in una forma attenuata o larvata. Ma non fu così: troppo è naturale all'uomo piegare in falsa parte, verso l'errore, quando l'errore trionfa; e ciò per la fiacchezza di molte menti e più di molte volontà; giacchè tra esse vi ha sempre di quelle che si illudono di trovare qualche via di accordo o di compromesso e con ciò guadagnarsi gli erranti, accostandosi a loro. Così è osservazione costante nella storia della Chiesa, che all'irrompere dell'eresia aperta e minacciosa, segua spesso, o per illusione o per insidia, un'altra forma dimezzata e coperta, quasi a fine di tentare una conciliazione tra essa e la dottrina cattolica: quale fu, ad es., il semiarianesimo, il semipelagianesimo, e via via, fino al recente razionalismo moderato o semirazionalismo, condannato pure dal Sillabo di Pio IX e dal Concilio Vaticano.
Nè solo ebbe adito e seguitò a serpeggiare fra cattolici questa forma di errore, ma prese una faccia più insidiosa, più coperta nei principii e nelle tendenze, col recente riformismo: non volle essere negazione del soprannaturale nè attenuazione, ma spiegazione e accordo: non scissura più o meno radicale tra fede e ragione, tra natura e grazia, ma continuità, ma unione, anzi addirittura «fusione»: il soprannaturale non solo possibile e reale, ma postulato in noi dalla stessa natura, ma immanente: la fede quindi, la religione, le forme tutte di religiosità non solo non ripugnanti, non solo conformissime al dettame della ragione e della coscienza, ma da essa nate, evolute, elaborate, insomma, come si esprimeva recentemente un giovine e caldo fautore delle nuove dottrine[5], «qualcosa di omogeneo, di naturale, di voluto dalla nostra costituzione interna e dalle esigenze della vita circostante» o, come più aforisticamente parlava un altro, qualche cosa di «autonomo e di autoctono»; perciò non solo avverso ma contradittorio all'antico concetto di soprannaturale, che trascende, se non ogni potenzialità e convenienza, certo la facoltà e l'esigenza propria della natura. A ciò è connessa la pretensione e tendenza non solo di «portare nel concetto di religione quel senso di ottimismo (?), di intensificazione dell'energia individuale che la mentalità moderna richiede», ma derivarla tutta e nelle sue origini e nei progressi o, come essi amano dire, evoluzioni, da «bisogni» psicologici, dall'opera cioè della «coscienza interiore», introducendovi tutte le false concezioni e teorie di una filosofia moderna, tenebrosa e fluttuante come le nebbie del settentrione da cui è uscita, contraria alla scienza, al progresso, al senso comune, nonchè alla ragione illuminata dalla fede; e tutto ciò per la superba presunzione di avere col disprezzo dell'antica filosofia e il trionfo della moderna «una più libera, meno autoritaria, più personale intuizione della vita».
Tale è nella sostanza la tendenza propria del naturalismo filosofico che va ora sotto il nome generico di «modernismo»; e ben si vede, come esso abbia anche stretta attinenza col deismo razionalista, anzi propensione irrefrenabile verso il naturalismo proprio del panteismo, a cui corre pur troppo logicamente. Si mostra quindi assai peggiore del naturalismo così detto politico, del vecchio liberalismo nel suo contegno indipendente e ripulsivo a riguardo dell'ordine soprannaturale e rivelato, strettamente tale, e quindi di ogni cristianesimo positivo.

III.


Nè siffatto suo contegno il modernista lo attenua mai, bensì lo dissimula più o meno, giusta le circostanze, e per lo più lo insinua al tempo stesso e lo cela coi termini più alti, «di religiosità interiore, di fede vissuta, di soprannaturale immanente» e simili, atteggiandosi fino a difensore di quel cristianesimo positivo ch'egli scalza. Anzi pure si atteggia egli a professore di un «misticismo» che cerca la trascendenza nell'immanenza, e vanta le sue attinenze anche col misticismo dei platonici e dei plotiniani, giù giù fino a quello degli asceti medievali, dei mistici tedeschi in ispecie, quali l'Eccardo, il Ruisbrochio, il Taulero ed altri, ch'esso fraintende ed esagera enormemente; [Eckhart di Hochheim (ca. 1260-ca. 1328), detto anche Meister Eckhart; Jan van Ruusbroec (o Ruysbroeck) 1293-1381; Johannes Tauler ca. 1300-1361. N.d.R.] mentre piuttosto ci ricanta fedelmente le nenie dei sentimentalisti e dei pietisti protestanti, massime dello Schleiermacher, e più recentemente di Augusto Sabatier. Di qui la dottrina sua, o piuttosto fantasia, della esperienza religiosa, del senso intimo della divinità, dell'intuizionismo religioso (nuova forma di ontologismo), della coscienza o subcoscienza creatrice dei dogmi, quasi propria rivelazione interna, e simili.
L'arte così, o la ipocrisia, onde il naturalismo dei modernisti si porge travestito alla scientifica insieme ed alla mistica, lo rendeva commendevole a molti, a molti tollerabile, i quali non ne scorgevano punto o poco il veleno, e a quelli stessi che lo vedevano chiaramente, più difficile e penoso il confutarlo, facendoli apparire alla semplicità di molti quasi fanatici o calunniatori. Quindi si spiega come non pochi, massime tra i giovani, chierici e laici, ne bevevano a larghi sorsi gli errori; alcuni in buona fede li propalavano largamente, sotto nome di nuova cultura; altri, eziandio del ceto sacerdotale, fucoso quodam Ecclesiae amore, [«sotto finta di amore per la Chiesa», Enc. Pascendi, N.d.R.] se ne facevano scudo per erigersi a rinnovatori della Chiesa stessa, e parecchi altresì per assalire ciò che vi ha di più santo nell'opera di Cristo, «ipsa haud incolumi divini Reparatoris persona quam, ausu sacrilego, ad purum putumque hominem extenuant». [«non risparmiando la persona stessa del Redentore divino, che, con ardimento sacrilego, rimpiccioliscono fino alla condizione di un puro e semplice uomo.» Encicl. Pascendi, N.d.R.] Così già si poteva parlare alto di un neocristianesimo etico e non dogmatico, di un cattolicismo più libero e personale, infine di una religione nuova o di una nuova fase della religione naturale, che potesse assorbire in sè tutte le precedenti forme di religioni positive, anzi fosse «il regolare prodotto delle religioni del passato, la continuazione e diffusione del processo (di evoluzione religiosa)... cosicchè alla fine l'unità... dovrà presentare la configurazione di una Chiesa letteralmente Cattolica» [6]. Quanta sfrontatezza di negazioni sotto il pallio di religiose e mistiche affermazioni!
A tanto non giunse mai, teoricamente e sfrontatamente, il naturalismo del vecchio liberale, molto meno quello dei così detti liberali cattolici. Con ogni merito dunque l'enciclica ha svelato fino dal principio la tendenza anticattolica, anzi antireligiosa, mista alle arti insidiose e alla propaganda riprovevole dei nuovi erranti, denunciandoli come veri nemici della Chiesa.

IV.


Ma come è peggiore nei principii e nelle tendenze, come è più subdolo nei modi e più ipocrita il naturalismo filosofico dei modernisti riprovati dall'enciclica di Pio X, che non il naturalismo politico dei liberali condannati da quella di Pio IX; così è anche più complesso, più involuto, più ampio, e soprattutto più apertamente radicale quanto al sistema dottrinale: perciò anche più pestifero nelle sue conseguenze speculative e nei suoi effetti pratici, essendo inevitabile che dai principii falsi si scenda alle conclusioni dannose e dall'ordine dell'idee si passi tosto al giro dei fatti. Certo il modernismo si è formato man mano, o piuttosto svolto e chiarito, come un vero sistema scientifico e religioso, a cui niuna parte della religione e della scienza, della speculativa e della pratica deve sfuggire: un sistema che muove da principii suoi proprii di filosofia e particolarmente di quella che ora chiamano epistemologia, cioè la parte riguardante la scienza e la cognizione; che questi principii applica, secondo il processo del naturalismo razionalista, alla ragione, e la rinnega in un disperato scetticismo, o «sfiduciato agnosticismo»; alla critica, e la stravolge in un capriccioso soggettivismo; alla storia, e la corrompe in un travisamento arbitrario, che direbbesi tradimento, della verità: li applica massimamente alla fede, al dogma, alla Chiesa, ai sacramenti, a tutto ciò che vi ha di più delicato e fondamentale nell'ordine soprannaturale, e li applica in modo da distruggere le verità che presume difendere, e incorrere negli errori che si propone combattere, ma sopra tutto in modo da rimuovere ogni fondamento positivo e soprannaturale della religione rivelata: un sistema dunque che, se non per intento degli autori (almeno di tutti), certo per necessità logica è una delle forme più radicali del naturalismo filosofico, deista e panteista.
Chi ne dubiti ancora, o trovi esagerato il nostro giudizio, non avrebbe che a leggere gli scritti recenti dei più notorii modernisti [7], o almeno percorrere l'Enciclica pontificia che ne compendia in sommi capi, non tutti, ma i principali errori.
Un rapido sguardo al modernismo nelle varie sue forme e atteggiamenti, di filosofia, di teologia, di storia, di critica, di apologetica e di riforma, confermerà anche troppo la verità delle precedenti nostre asserzioni, in tutto conformi a quelle della recente Enciclica.
È da notare però che noi parliamo qui del modernismo considerato in sè, obiettivamente, e in tutta la sua estensione, quale viene analizzato sottilmente e condannato dalla Enciclica Pascendi; non già quale soggettivamente potè essere inteso, o frainteso, da questo o da quello in più o meno ristretta misura. Di siffatta intelligenza soggettiva vale ciò che dell'intenzione interna dice l'enciclica: cuius penes Deum arbitrium est. E però nè dell'una nè dell'altra si può giudicare: giova anzi sperar il meglio, sperare che molti non intendessero bene ciò che difendevano espressamente, nè scorgessero il nesso degli errori, nè le conclusioni implicite nelle premesse: tanto più che è notoria la loro inesperienza e fino l'aperto disprezzo della logica. Di che dette prova recentemente quel disgraziato loro maestro d'oltre Manica, il quale rompendo in basse invettive contro l'augusta Persona del Pontefice e la sua veneranda Enciclica, si smentiva da se stesso, confessando che del sistema modernista egli «non aveva mai sino ad ora trovata così chiaramente la compiuta unità» come la trova esposta nell'enciclica, ed espostavi, pare a lui, «in una forma così pericolosamente attraente per le menti colte da rendere l'Enciclica stessa un pericolo per i deboli» (!); ma d'altra parte soggiungendo che quella è «una sofistica interpretazione del modernismo».
Così è per chi ogni uso di logica chiama sofisma, e stoltamente si dà a credere di potere ammettere i principii, ricusando le conseguenze. Non è così per ogni uomo ragionevole, sia credente o no; molto meno per chi abbia seguito studiosamente questo nuovo moto di eresia e di scisma. In esso la sequela naturale di un errore dall'altro e quindi la mutua concatenazione, quando pure non fosse nè veduta nè voluta dagli erranti, è un fatto innegabile; ed è anche un fatto molto semplice: è la logica dell'errore. Ma il filo sottile ne sfugge talora agli osservatori superficiali; massimamente quando si presentino le dottrine «non già coordinate e raccolte quasi in un tutto, ma sparse invece e disgiunte l'una dall'altra». Il che fu ed è, senza dubbio, «artificio astutissimo» come di altri vecchi erranti e consiglieri di errori, così di questi nuovi, che si chiamano «modernisti»: i quali mostrano di voler «passare per dubbiosi e come incerti, mentre di fatto sono fermi e determinati», come fino dall'esordio l'enciclica pontificia ne fa avvertiti.

V.


Convenne pertanto che l'enciclica non si contentasse di recare innanzi e condannare le loro conclusioni ereticali od erronee, come fece quella di Pio IX rispetto al liberalismo, ossia naturalismo politico — il che nelle presenti circostanze sarebbe stato assai meno efficace — ma si volgesse, come fece, ad esporre largamente tutto il complesso delle dottrine nuove che si vanno sparsamente propalando sotto nome di modernismo, acciocchè l'esposizione riuscisse una denunzia insieme ed una condanna. Nè rileva che non tutte le dottrine loro vi siano toccate, o svolte con pari ampiezza, nè che la condanna non sia sempre motivata espressamente con tutti gli argomenti che si potevano recare, nè preceduta sempre da una piena e distesa confutazione.
Chi ciò pretende va in cerca di vani appigli e rigiri. Un atto dell'autorità non è la trattazione di un dottore privato; e se qualche volta, come nel caso nostro, per ispeciali motivi accondiscende pure ad una forma più copiosa e didattica, ognuno vede che ciò vuol farsi dentro certi limiti, nè questi comportano la confutazione particolareggiata. E senza ciò, l'esposizione stessa dei principii e delle conseguenze logiche, per chi non abbia perduto la fede, anzi l'uso della filosofia naturale e del buon senso [8], vale quanto una vera e adeguata confutazione. L'errore messo a nudo si confuta da sè; e per la sua contraddizione intrinseca muove a ravvedimento gli erranti in buona fede, che prima non la vedevano. Che se muove anche a sdegno gli orgogliosi e gli ostinati, smascherandoli, è troppo naturale; ma lo sdegno loro mostra tanto più la necessità di non dar loro credito col silenzio.
E neppure è serio l'opporre che la forma espositiva, ragionata e quasi polemica del documento gli scemi valore innanzi ai cattolici ed agli onesti tutti a' quali è destinato: anzi glielo accresce, massimamente rispetto al fine proprio di esso, che è quello di aprire gli occhi agli illusi e chiudere la via della propaganda agli ostinati. E noi già accennammo come questo doppio frutto si è ottenuto in gran parte fra cattolici. Nè altro è il motivo che esaspera i modernisti e li aizza contro l'enciclica, nella quale essi vorrebbero più dignità, più mitezza, più riguardi, e che so io. Ma noi possiamo star certi che, se anche altro ne fosse lo stile e il tenore, l'accuserebbero egualmente di averli fraintesi, o di non averli condannati, anzi incoraggiatili, o diversamente, di avere fatto abuso dell'autorità senza ragione, e via dicendo. Sono pochi i colpevoli che trovino e meno ancora che confessino giusta la condanna: ma dalle loro querimonie è stolto prendere la norma del giudicare.
I modernisti poi in ispecie — i quali parlano appunto, come uno di loro si esprime, «con quella voluta circospezione che dovrebbe far perdonare più di una oscurità» [9] — non hanno arte più consueta che questa, di accusare i loro confutatori di non averli capiti, di averne anzi stravolti i sensi, le citazioni, il contesto. I loro ammiratori ed encomiatori soltanto ne capiscono qualche cosa  tutti gli altri non li conoscono nè punto nè poco.
Niuna maraviglia dunque che, sebbene l'enciclica si diffonda così largamente, fuori del solito, nella più accurata esposizione delle loro dottrine, perchè non si dolessero, come è loro costume, di essere ignorati; sebbene usi pure barbara aliquando verba quae modernistae usurpant, [«il barbaro linguaggio onde i modernisti fanno uso», Enc. Pascendi, N.d.R.] con tutto ciò l'accusa si rinnovi, e si rinnovi nella forma più orgogliosa insieme e più insulsa: nuovo argomento che non è in loro quella sincerità e serenità che ci vantano. Poichè nessuno di essi potè dimostrare che le dottrine proscritte non fossero state insegnate e propalate in qualche parte, o che almeno per logica necessità non discendessero da premesse, poste nelle loro trattazioni come principii indiscutibili e fondamentali. Quest'ultima cosa fu anzi confessata implicitamente nel maledire che si fece da essi, e più fieramente da un loro maestro, alla «logica rigidissima» del compilatore. Ma il documento infine altro non fece che accogliere e mettere insieme le sparse membra del loro sistema, svelandone insieme il segreto filo che le collega. Così ne mise in chiaro, con l'unità e la coerenza, il pericolo religioso che il modernismo importa, mentre risuscita nelle varie sue forme, peggiorando arditamente il vecchio naturalismo.
Di queste forme ragioneremo in un prossimo quaderno.

 
Prospetto degli articoli della Civiltà Cattolica sul modernismo:FascicoloData:AnnoVolume
Del progresso evolutivo nella Chiesa Cattolica134526 giugno 190657° III
L'evoluzione della Chiesa13488 agosto 190657° III
Della evoluzione del dogma13504 settembre 190657°III
Decreto Lamentabili, testo, traduzione e commento 1371 24 luglio 1907 58° III
Enciclica Pascendi testo latino 1374 18 sett. 190758° III
Enciclica Pascendi traduzione italiana 1375 28 sett. 1907 58° IV
La condanna del modernismo13755 ott. 190758°IV
Il modernismo e il vecchio naturalismo13769 ott. 190758°IV
Il modernismo filosofico (I parte) 1377 22 ottobre 1907 58° IV
Il programma dei modernisti ribelli13786 nov. 190758°IV
Il modernismo filosofico (II parte)1379 28 novembre 1907 58° IV
Motu Proprio Prestantia Scripturae Sacrae lat./it 137927 novembre 190758° IV
Il modernismo teologico (I parte) 1381 26 dic. 1907 59° I
Il modernismo teologico (II parte)1382 8 genn. 1908 59° I
Il modernismo teologico (III parte)1384 5 febbr. 1908 59° I
Il modernismo teologico e il Concilio Vaticano 1386 12 marzo 1908 59° I
Il modernismo teologico e il suo sistema di conciliazione 1388 10 aprile 1908 59° II
Il modernismo ascetico1390 6 maggio 1908 59° II
Il modernismo apologetico1391 29 maggio 190859°II
Il modernismo critico (I parte)139522 luglio 190859°III
Il modernismo critico (II parte)13989 sett. 190859°III
Il modernismo riformista 1401 29 ottobre 1908 59°IV

NOTE:

[1] Vedi il quad. precedente (5 ottobre) pp. 3-14.
[2] Vedi il Times di Londra del 30 sett.
[3] Oeuvres de Monseigneur l'évêque de Poitiers (Poitiers, Oudin, 1867), vol. V, p. 44.
[4] Cf. Civ. Catt., Serie VI, vol. I, quad. 357 (19 genn. 1865), p. 282 ss.
[5] Paolo Baldini, nel Giornale d'Italia, 2 settembre 1907.
[6] Cf. Rinnovamento, luglio-agosto 1907, p. 18. L'articolo è intitolato Per la sincerità, ma è solo un programma di caparbietà superba, di piena apostasia dal cattolicismo, anzi da ogni forma di cristianesimo positivo. E con esso protesta il Murri di convenire nella sostanza, quantunque discordi in parte dalla filosofia anglosassone del maestro. Non si poteva dare più lacrimevole conferma alle parole dell'Enciclica.
[7] Citiamo qui solo, per non far ora nomi, l'opuscolo di uno pseudonimo che vale per molti, edito dalla Società nazionale di coltura, col titolo Psicologia della Religione (Roma 1905). Esso è quasi un programma di modernismo e sunto di enormi errori religiosi, onde si tradisce la fede di tanti poveri giovani da chi dovrebbe salvarla. Che se questi non sono ormai più scusabili, quanto meno i loro maestri! Qui tradidit... maius peccatum habet. — Del citato opuscolo, e del sistema dottrinale modernistico vedi ciò che accennammo nel quad. 1366 (18 maggio 1907), p. 414 ss. V. anche quad. 1363 (6 aprile 1907), p. 23 ss.
[8] Di questa filosofia si mostra pur troppo mancante lo scrittore che nella Nuova antologia (1° ottobre 1907, p. 513) ci ripeteva ultimamente la insulsa accusa, e a questa aggiungeva le non meno insulse riflessioni, pubblicate sulla Tribuna, dal Chiappelli, il quale giunge fino a consigliare il Papa «d'invigilare gli istituti ecclesiastici che in questi ultimi tempi hanno fatto parlare di sè ecc.» Non si sa che cosa più stordisca, se l'ignoranza o la viltà!
[9] Rivista storico-critica di scienze teologiche, anno III, fasc. 5 (maggio 1907), p. 365.