martedì 25 febbraio 2014

Chiesa costantiniana o Chiesa delle catacombe?

A dicembre scorso si è concluso l’Anno Costantiniano,
dedicato a celebrare
i millesettecento anni dell’Editto di Milano.

In occasione del millesettecentesimo anniversario dell’Editto di Milano, sottoscritto in questa città nel febbraio 313 dall’Augusto d’Occidente Flavio Valerio Aurelio Costantino, e dall’Augusto d’Oriente Valerio Liciniano Licinio, abbiamo assistito a una pletora di eventi celebrativi. Innumerevoli mostre, conferenze, convegni e pubblicazioni, per non parlare degli atti a carattere religioso, hanno contrassegnato, com’era giusto che fosse, l’anniversario di un avvenimento tra i più importanti della storia.


Tanto importante da aver segnato uno spartiacque nella storia della Chiesa, dividendo l’epoca precedente da quella successiva, che prese il nome dal principale firmatario dell’Editto: l’Era Costantiniana. Era della quale, alla vigilia del Concilio Vaticano II, il teologo domenicano Marie-Dominique Chenu, capofila della cosiddetta Nouvelle Théologie, auspicava la “fine” nel saggio «La fin de l’ère constantinienne», parte della collana «Un concile pour notre temp», in cui autori di linea progressista proponevano un Concilio che vi mettesse fine (1). Tale concetto è stato poi ripreso da altri autori sulla stessa lunghezza d’onda, tra cui Gianmaria Zamagni nel recente volume «Fine dell’era costantiniana» (2).

L’Anno Costantiniano 1912

Fino a non molto tempo fa, la lettura dell’Editto di Milano quale inizio di una nuova era storica per la Chiesa, caratterizzata da un certo modello di Chiesa e da un certo rapporto tra Chiesa e potere temporale, era pacifica.

“L’Osservatore Romano” del lunedì 1° gennaio 1912, in occasione dell’apertura dell’Anno Costantiniano indetto da papa san Pio X, lodava “l’evento che, di fatto, concludeva il mondo pagano e preludeva al riconoscimento della libertà religiosa ed all’inaugurazione ufficiale e solenne da parte dell’Impero Romano del nuovo mondo cristiano”.
Mi piace ricordare che il Pontefice aveva nominato Presidente onorario del Comitato per le celebrazioni dell’Anno Costantiniano Don Marcantonio Colonna, Principe assistente al Soglio Pontificio, per lo stretto legame della sua famiglia con le reliquie della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo.

In occasione del Venerdì Santo di quell’anno “L’Osservatore Romano” pubblicava un articolo dal titolo In hoc signo vinces! dove, prendendo spunto dall’apparizione della Croce a Costantino, svolgeva un collegamento con il mistero della Croce al fine di “celebrare gli antichi, secolari trionfi della Croce, e ad auspicarne di nuovi”. Una visione chiaramente “trionfalista”.

Nel solenne convegno tenutosi al Palazzo Lateranense, il conte Carlo Santucci sottolineava l’importanza del Centenario Costantiniano come “festa della Croce, perché in virtù della Croce Costantino vinse Massenzio [...]. Il trionfo della Croce fu quello della libertà e della pace non soltanto per la Chiesa, ma per tutto il mondo romano, e fu il principio della civiltà nuova, della civiltà cristiana”.

Concludo questa rassegna di citazioni del 1912 con un brano del Programma diramato dal Consiglio superiore per le Feste centenarie, presieduto a nome del Papa dal principe Don Mario Chigi: “La Croce di Cristo fu il vessillo sotto cui si proclamarono quei principi che liberarono il genere umano dalla vergogna dell’idolatria e dalla barbarie della schiavitù, che insegnarono la vera uguaglianza degli uomini e dettero origine a quella meravigliosa compagine delle nazioni, le quali, per avere abbracciato i principi soprannaturali del Cristianesimo, formano da tanti secoli il presidio della società umana, il baluardo della vera civiltà”.

Non solo libertà ma anche civiltà

Due, quindi, erano gli elementi rilevati dai commentatori di allora: la libertà religiosa per la Chiesa e, di conseguenza, il sorgere di una nuova civiltà, la civiltà cristiana.

A cent’anni di distanza, il tono delle celebrazioni per l’Anno Costantiniano in corso assume un timbro alquanto diverso. Senza nulla togliere al valore, sia accademico sia religioso, delle celebrazioni per i millesettecento anni dell’Editto di Milano, mi è sembrato tuttavia di scorgervi un certo atteggiamento sul quale vorrei spendere due parole.

Con poche eccezioni, si è scelto di fare dell’Editto una lettura che definirei parziale. Lo si è chiamato “editto di tolleranza”, “editto di libertà religiosa”, “editto di libertà di coscienza”, “editto ecumenico”. Non è mancato chi lo abbia paragonato al Primo Emendamento della Costituzione americana, quello che concede ampia libertà religiosa e, per estensione, anche di pensiero. Si è detto che l’Editto di Milano abbia anticipato il moderno concetto di libertà. Non a caso, nella mostra fotografica “Liberi per credere” tenutasi nella nostra città, all’Editto di Milano si affiancava la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Come ogni lettura parziale, la visione dell’Editto di Milano come un semplice decreto di libertà religiosa non è di per sé errata ma appunto incompleta, e quindi potenzialmente fuorviante in quanto omette elementi essenziali.

Libertà, un valore a sé stante?

Il Magistero della Chiesa insegna che la libertà non è un valore a sé stante. La libertà è un mezzo, non un fine. Io non sono “libero” punto e basta. Io sono libero di fare qualcosa, o di non farla, cioè di dirigere la mia volontà guidata dalla mia intelligenza verso un determinato fine, oppure di distoglierla da esso. Ed è il contenuto intellettuale e morale del mio atto, non l’atto in sé, che ne stabilisce la legittimità, cioè la sua conformità al Verum e al Bonum. Insegna Leone XIII nell’enciclica Libertas: “È in virtù di un giudizio morale che si stabilisce che cosa sia onesto e che cosa sia turpe, ma anche che cosa in concreto sia il bene da compiere e il male da evitare; la ragione cioè prescrive alla volontà ove dirigere il desiderio e da dove rimuoverlo, in modo che l’uomo possa raggiungere il suo fine ultimo, in vista del quale si deve agire in ogni momento” (3).

La visione dell’Editto di Milano come una sorta di passe-partout religioso omette elementi essenziali, a cominciare dal principale soggetto della normativa. Dal testo dell’Editto si desume chiaramente trattarsi di un provvedimento specificamente indirizzato ai cristiani, salvo poi estendere le prerogative anche agli altri: “Sia consentito ai Cristiani, e a tutti gli altri, la libertà di seguire la religione che ciascuno crede”. E, un po’ più avanti: “Abbiamo accordato ai Cristiani facoltà libera e assoluta di praticare il loro culto. Anche agli altri che lo vogliono è stata accordata facoltà di osservare la loro religione e il loro culto”.



Ogni legge va interpretata secondo vari criteri ermeneutici, tra cui quello di farlo ad voluntatem et mentem legislatoris. Ora, chi analizza gli atti pubblici compiuti da Costantino il Grande sulla scia dell’Editto di Milano, non può non concludere che egli avesse in mente qualcosa di molto più vasto e più preciso della semplice libertà religiosa per tutti. Eccone alcuni esempi:

- fine del culto pagano nel tempio di Iuppiter Optimus Maximus Capitolinus, che segna l’inizio della delegittimazione del paganesimo;
- restituzione ai cristiani dei luoghi di culto, a spese dello Stato, che in questo modo si erigeva a protettore della Chiesa; 
- concessione al clero cristiano di esenzioni, privilegi e favori esclusivi, tra cui l’episcopalis audientia, cioè il diritto di foro;
- intolleranza nei confronti delle eresie e di alcuni culti pagani, in apparente contrasto con la libertà accordata dall’Editto;
- regolamentazione delle festività religiose cristiane, compreso il Natale;
- erezione, a spese dello Stato, di numerose basiliche, a cominciare dalla Basilica Costantiniana sul colle Vaticano e dalla Basilica Lateranense, che conferivano alla Chiesa cattolica lo status, de facto se non ancora de jure, di chiesa ufficiale dell’Impero;
- convocazione di diversi Concili, tra cui quello ecumenico di Nicea, dove egli si presentò come Basileus Isapostolos, cioè Imperatore uguale agli Apostoli, denotando un chiaro disegno di carattere teologico e pastorale, oltre che politico.

È vero che egli fece costruire anche alcuni templi pagani. Ma gli storici concordano nel dire che erano edifici ornamentali e non destinati al culto, con eccezione del tempio di Tyché, divinità protettrice di Costantinopoli.

Un Dio, una Chiesa, un Impero


Molto si è detto e scritto sulla cosiddetta “ambiguitas constantiniana”, cioè la non perfetta chiarezza delle scelte religiose del grande Imperatore, a cominciare dalla sua conversione al cristianesimo avvenuta solo in punto di morte. Da una visione comprensiva del suo operato si desume, invece, e in modo assai chiaro, come tale ambiguità toccasse solo aspetti collaterali, lasciando intravedere al centro un progetto vasto e preciso, contenuto nella formula da lui più volte utilizzata: “Un Dio, una Chiesa, un Impero”. Formula che sarà poi ripresa e codificata da Teodosio con l’Editto di Tessalonica nel 380.

È vero che, nel favorire la Chiesa cristiana, Costantino avesse precisi propositi politici, d’altronde perfettamente legittimi, cioè l’unità e la coesione del suo impero. Senza un disegno superiore, è però incomprensibile perché egli abbia scelto la religione professata da appena il 10 per cento dei suoi sudditi come elemento fondante.

La formula di Costantino contiene due principi, che ci portano al cuore del mio intervento:

- uno solo è il vero Dio, e una sola è la vera Chiesa di Dio che, comunque, può e deve convivere con altre manifestazioni religiose;
- realtà religiosa ma anche umana, la Chiesa deve vivere all’interno di un ordinamento temporale che sia ad essa consentaneo, vale a dire una civiltà cristiana. Chiesa e Impero sono interdipendenti, due societas perfectae che si devono rispecchiare e appoggiare a vicenda.

L’ideale di civiltà cristiana

Ed è forse qui che maggiormente si manifesta la limitatezza di talune recenti letture dell’Editto di Milano, riduttive sugli aspetti religiosi e del tutto carenti sulle implicazioni temporali, tema invece presente nei commenti durante il precedente Anno Costantiniano, nel 1912.

Abbiamo intitolato il nostro incontro “Chiesa costantiniana o Chiesa delle catacombe?”. Vale a dire: Chiesa che, affermando la sua veracità, si fa cultura e quindi civiltà, oppure Chiesa che, ritenendosi appena una delle tante forme possibili di religione, si chiude nei propri confini, rinunciando a essere la luce del mondo e il sale della terra. Cioè Chiesa che rinuncia all’ideale di Cristianità.


Concilio Ecumenico di Nicea

Senza tralasciare altri fattori, forse più decisivi, io mi domando quanto abbia contribuito all’aggravarsi dell’attuale crisi, spirituale e temporale, la rinuncia all’ideale di Cristianità, cioè la rinuncia a foggiare un ordine culturale, sociale e politico che sia il riflesso temporale dello spirito cristiano. Ideale ancora presente con san Pio X, che aveva come lemma “Instaurare omnia in Christo”. Ideale ancora presente con Pio XI, che nell’enciclica Quas primas, del 1925, convocava i cattolici alla “santa battaglia per la regalità sociale di Cristo”. Ideale ancora presente nel 1945 quando, nell’“Allocuzione al Patriziato e alla Nobiltà romana”, auspicando il “sorgere di un ordine cristiano nella vita pubblica”, Pio XII chiamava i cattolici a realizzare “un’opera di restaurazione incomparabilmente più vasta, delicata e complessa. Non si tratta di reintegrare nella normalità una sola Nazione. Il mondo intero, si può dire, è da riedificare; l’ordine universale è da ristabilire. Ordine materiale, ordine intellettuale, ordine morale, ordine sociale, ordine internazionale, tutto è da rifare e da rimettere in movimento regolare e costante. Questa tranquillità dell’ordine, che è la pace, la sola vera pace, non può rinascere e perdurare se non a condizione di far riposare la società umana su Cristo, per raccogliere, ricapitolare e ricongiungere tutto in Lui: instaurare omnia in Christo” (4).

Ideale, ahimè, sempre più assente fino a praticamente scomparire dal discorso religioso. Non credo di esagerare dicendo che la rinuncia a tale ideale abbia veramente segnato la fine dell’Era Costantiniana, proprio come auspicavano i settori progressisti, e ciò molto prima del Concilio Vaticano II, visto che già nel 1936 Jacques Maritain proponeva l’abbandono dell’ideale di Cristianità nel suo «Humanisme intégrale», libro di riferimento di intere generazioni di cattolici (5).

Ora, come ha ricordato Giovanni Paolo II, “una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta” (6). Allo stesso modo potremmo dire: una fede che non si fa civiltà è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta.

Alla luce di tutto ciò, possiamo e dobbiamo affermare che l’ideale di Cristianità non è un optional nella missione salvifica della Chiesa, bensì un suo elemento costitutivo. Spiega il prof. Plinio Corrêa de Oliveira:

“La Chiesa cattolica è stata fondata da nostro Signore Gesù Cristo per perpetuare fra gli uomini i benefici della Redenzione. Il suo fine si identifica, dunque, con quello della Redenzione stessa: espiare i peccati degli uomini per i meriti infinitamente preziosi dell’Uomo-Dio; rendere in questo modo a Dio la gloria esterna che il peccato Gli ha sottratto; e aprire agli uomini le porte del Cielo. Questo fine si realizza completamente sul piano soprannaturale, e in ordine alla vita eterna. (…) La vita terrena si differenzia, e profondamente, dalla vita eterna. Ma queste due vite non costituiscono due piani assolutamente separati l’uno dall’altro. Nei disegni della Provvidenza vi è una relazione intima fra la vita terrena e la vita eterna. La vita terrena è la via, la vita eterna è il fine. Il regno di Cristo non è di questo mondo, ma è in questo mondo la via per la quale vi giungeremo. Come l’accademia militare è la via per la carriera delle armi, o il noviziato è la via per il definitivo ingresso in un ordine religioso, così la terra è la via per il Cielo”.

E più avanti:

“Questo è il senso della festa di Cristo Re. Re celeste anzitutto. Ma Re il cui governo si esercita già in questo mondo. Re che possiede di diritto l’autorità suprema e piena. Il Re legifera, comanda e giudica. La sua regalità diventa effettiva quando i sudditi riconoscono i suoi diritti, ubbidiscono alle sue leggi. Orbene, Gesù Cristo possiede su di noi tutti i diritti. Egli ha promulgato leggi, dirige il mondo e giudicherà gli uomini. A noi compete rendere effettivo il regno di Cristo ubbidendo alle sue leggi.

“Questo regno è un fatto individuale, se considerato rispetto all’ubbidienza che ogni anima fedele presta a nostro Signore Gesù Cristo. (…) Il regno di Cristo sarà un fatto sociale se le società umane Gli presteranno ubbidienza. Si può, dunque, dire che il regno di Cristo diventa effettivo sulla terra, nel suo senso individuale e sociale, quando si conformano alla legge di Cristo gli uomini sia nell’intimo della loro anima che nelle loro azioni, e le società nelle loro istituzioni, leggi, costumi, manifestazioni culturali e artistiche” (7).

Se da una parte, la civiltà cristiana può essere vista come un frutto prezioso del Regno di Dio sulla terra, dall’altra la dobbiamo considerare un suo potentissimo coadiuvante. Quando è guidata dalla dottrina cattolica e modellata dallo spirito della Chiesa, la società temporale, con le sue varie sfere costitutive (governo, economia, cultura, ecc.), può essere considerata, in un certo modo, un frutto del Regno di Dio. Quando Dio regna pienamente nelle anime, le istituzioni e le usanze sociali lo rifletteranno. A sua volta, una società cattolica può contribuire alla costruzione e allo sviluppo del Regno di Dio. Una civiltà cristiana può tutelare la pratica sociale della virtù, influenzando così anche quella individuale. Una civiltà cristiana può incorporare istituzioni secondo il diritto naturale e l’ordine cattolico, in modo da predisporre i suoi cittadini alla virtù, offrendo anche occasioni all’azione della grazia.

La Via pulchritudinis

Vi è, però, un altro modo in cui la civiltà cristiana può servire da possente coadiuvante al Regno di Dio, un modo non solitamente messo in risalto e che, invece, il prof. Plinio Corrêa de Oliveira ha studiato in profondità. Si tratta dell’azione che egli definisce tendenziale.

Poiché Dio ha stabilito relazioni misteriose e mirabili tra certe forme, colori, suoni, profumi, sapori, e certi stati d’animo, è chiaro che con questi mezzi si possono influenzare a fondo le mentalità, e indurre persone, famiglie e popoli a formarsi una certa condizione spirituale. Se da una parte l’uomo tende a modellare le realtà materiali che lo circondano secondo il suo spirito, d’altra parte egli ne subisce l’influenza.

Si stabilisce così un circuito per il quale l’uomo modella le realtà che lo circondano ed esse, a loro volta, esercitano su di lui una profonda influenza. “Gli uomini — spiega Plinio Corrêa de Oliveira — si formano ambienti a loro immagine e somiglianza, in cui i loro costumi e civiltà si espandono. Ma è anche vero, in larga misura, l’inverso: gli ambienti formano a loro immagine e somiglianza gli uomini, i costumi, le civiltà”.

Gli ambienti non sono moralmente indifferenti. Per l’azione tendenziale sopra descritta, essi possono elevare l’anima portandola attraverso successivi gradi di contemplazione fino a Dio, oppure possono inabissare l’anima portandola in senso opposto fino al peccato. Ecco l’importanza del ruolo tendenziale d’una civiltà cristiana. In un momento in cui, come rileva un documento stilato nel 2006 dal Pontificio Consiglio della Cultura, gli argomenti razionali sembrano aver esaurito la loro forza apologetica, l’apostolato tendenziale assume un’importanza sempre crescente (8).

Forse non è senza un disegno provvidenziale che, proprio in questo momento, la ricorrenza dei millesettecento anni dell’Editto di Milano ci permette di riflettere sul modello di Chiesa che serve al Terzo Millennio. Chiesa costantiniana, o Chiesa delle catacombe? Chiesa che, affermando la sua veracità, si fa cultura e quindi civiltà, oppure Chiesa che, ritenendosi appena una delle tante forme possibili di religione, si chiude nei propri confini, rinunciando all’ideale di Civiltà cristiana.

Dalla nostra scelta dipenderà il futuro.

Julio Loredo

(Intervento al convegno tenutosi all’Ambrosianeum di Milano, 9 maggio 2013) 

Rivista Tradizione, Famiglia, Proprietà – Dicembre 2013

Note ___________________________

1. Marie-Dominique CHENU, La fin de l’ère constantinienne, in J.-P. DUBOIS-DUMÉE et alii, Un concile pour notre temp, Les Éditions du Cerf, Paris 1961.
2. Gianmaria ZAMAGNI, Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, Il Mulino, Bologna 2011.
3. LEONE XIII, Enciclica Libertas, 20 giugno 1888.
4. Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, Tipografia Poliglotta Vaticana, 14/1/1945, pp. 273-277.
5. Jacques MARITAIN, Humanisme intégral, Aubier, Paris 1936.
6. Lettera di Giovanni Paolo II in occasione della creazione del Pontificio Consiglio della Cultura, 20 maggio 1982.
7. Plinio CORRÊA DE OLIVEIRA, La crociata del secolo XX, appendice a Id., Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Sugarco, Milano 2008, pp. 197-198.
8. Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, La Via pulchritudinis, cammino privilegiato di evangelizzazione e di dialogo, 28 marzo 2006.