giovedì 10 luglio 2014

Eroi della Grande Guerra: Bruno Franceschini , l'eroe del Monte Corno.



 
 







Onore al soldato austriaco BRUNO FRANCESCHINI che catturò il deputato austriaco (disertore) Cesare Battisti e lo consegnò alla giustizia austriaca.

REQUIESCAT IN PACE, NOBIL TIROLENSIS.







Onore al soldato austriaco BRUNO FRANCESCHINI che mandò la pattuglia che catturò il deputato austriaco (disertore) Cesare Battisti e che lo consegnò alla giustizia austriaca.

REQUIESCAT IN PACE, NOBIL TIROLENSIS



















BRUNO FRANCESCHINI, CHI ERA COSTUI?


Certo di fare cosa utile, metto a disposizione un mio breve contributo, pubblicato l'anno scorso in appendice ad un volume che è una pietra miliare ("Unsere Helden/I nostri Eroi" di Marco Ischia, Mario Moser, Carlo Refatti: per chi non lo ha letto suggerisco vivamente di farlo).
 Il mio è un piccolo testo per conoscere meglio la figura di Bruno Franceschini, l'ufficiale trentino austro ungarico cui fu attribuita la cattura di Cesare Battisti nel luglio 1916.
 Incuriosito dalla quasi totale assenza di ogni informazione su quest'uomo, considerato per decenni un "rinnegato" dalla storiografia e pubblicistica italiana ("Fatto prigioniero (...) da un rinnegato della sua terra, l'alfiere Bruno Franceschini" - si legge ancora oggi sull'enciclopedia Treccani), un paio di anni fa riuscii a identificare e incontrare due suoi nipoti in provincia di Bolzano, dai quali ho potuto reperire molte informazioni mancanti (e alcune fotografie inedite, tra cui quella qui pubblicata che lo ritrae dopo la guerra).
 A un secolo da quei fatti - superato, ci auguriamo, un modo livoroso di fare storia, "ancora partecipe dell’afflato irrendentista" (Luigi Sardi, "Trentino", marzo 2012) - siamo in dovere oggi di riconoscere, per un senso di giustizia e verità, senza ferire la sensibilità di alcuno, la situazione di chi affrontò la guerra non come "rinnegato" ma quale fedele soldato o ufficiale dell’esercito di uno Stato, l'Impero austro ungarico, nel quale era nato e cresciuto e del quale si sentiva legittimamente parte.

Lorenzo Baratter

"Storia di un rinnegato"

Bruno Franceschini. Uno dei personaggi più evocati e meno conosciuti della storia della prima guerra mondiale in Trentino. Una figura al limite della leggenda: di lui, ad oggi, non si sapeva quasi nulla. Poca storia, molte leggende metropolitane; un vuoto riempito spesso dalla retorica o dall’odio nazionalista.
 Egli è comunemente ritenuto colui che catturò Cesare Battisti, parlamentare austriaco disertore, sul Monte Corno di Vallarsa. Di lui, qualche notizia vaga e poi l’incerto suo destino a guerra finita. Inghiottito dalla storia, sepolto dalla damnatio memoriae, nessuna traccia insomma.
 Insultato, anche attraverso la costruzione di una serie impressionante e imbarazzante di falsi storici che volevano dipingerlo come una sorte di “mostro”, di “traditore”, ignorando completamente la storia sua personale e quella dei circa 60.000 tirolesi trentini sudditi austriaci che combatterono per la loro Patria, che allora era l’Austria.
 Bruno Franceschini, il “rinnegato Bruno Franceschini” come è stato ricordato per decenni da una certa livorosa storiografia italiana, infarcita di nazionalismo, volendolo bollare di ignominia quale responsabile della cattura di Cesare Battisti, era in realtà fedele ufficiale dell’Imperatore, chiamato in guerra nell’esercito austro ungarico, combattente non per la “patria nefanda” – come avrebbe sentenziato la retorica nazionalista nel dopoguerra – ma per lo Stato, l’Impero austro ungarico, nel quale egli era nato e cresciuto e del quale si sentiva parte.
 Nel 1911 Benito Mussolini, allora socialista, amico di Battisti, dopo aver trascorso un periodo a Trento (allora in territorio austriaco), pubblicò un volumetto dal titolo "Il Trentino veduto da un socialista", nel quale ribadiva - a malincuore - che la popolazione trentina era austriacante, che gli irredentisti erano inesistenti e che mai i trentini si sarebbero sognati di passare all'Italia. In un passo del libro riporta il futuro dittatore riportava questa colorita filastrocca, che sentiva spesso cantare allora in Trentino: “Colla pell de Garibaldi ne farem tanti tamburi,Tirolesi ste sicuri Garibaldi no ven pu”.
La storia, come è noto, viene scritta dai vincitori. E così gli eroi diventano traditori e i traditori eroi. Ma è altrettanto vero che a cento anni dallo scoppio del conflitto, in parte sopiti i rigurgiti nazionalistici che anche in Italia hanno fatto il loro tempo, finalmente si può tornare a fare storia, a raccontare gli eventi cercando di restituirli, cercando di adempiere a un dovere di verità.
 Con una breve ricerca sono riuscito, in un tempo relativamente breve, a entrare in contatto con due nipoti di Bruno Franceschini, oggi residenti in una località del Sudtirolo. Mi hanno chiesto di poter mantenere riservata la loro identità in quanto, fatta eccezione per quest’intervista.
 Li ho incontrati e ho chiesto loro di raccontarmi la storia dello zio Bruno (il nome esatto è Bruno Giusto Franceschini) nato a Tres, in val di Non, il 2 gennaio 1894. Egli era figlio di Isidoro Franceschini e di Maria Zadra. Aveva diversi altri fratelli e sorelle: Clorinda e Laura, più grandi di lui, quindi Silvio, Adolfo, infine la più giovane, Ada.
 La famiglia si trasferì ad inizio secolo dalla Val di Non a Rovereto dove il padre di Bruno, maestro, esercitava la professione e, a quanto pare, fu direttore didattico nel capolouogo della Vallagarina. Non a caso Bruno frequentò le scuole a Rovereto e, terminate queste, si iscrisse alla facoltà di ingegneria presso il Politecnico di Vienna.
 Lo scoppio della guerra lo colse nel pieno degli studi: richiamato in guerra nell’ottobre del 1914 – aveva vent’anni – fu nominato alfiere del terzo battaglione, undicesima compagnia, primo reggimento dei Landesschützen (ribattezzati durante la guerra Kaiserschützen dall’Imperatore Carlo I, in virtù del valore e del sacrificio impiegato in guerra, con particolare riferimento alla difesa del fronte tirolese). La mobilitazione iniziale del Tirolo, come è noto, coinvolse un numero di circa 63.000 combattenti: 28.000 Kaiserjäger, inquadrati in 4 reggimenti; 21.000 Landesschützen, inquadrati in 3 reggimenti; 14.000 uomini della milizia territoriale austriaca, in 2 reggimenti.
 Bruno Franceschini si distinse in guerra e ottenne numerose decorazioni (come testimonia la ricca documentazione che ho potuto recuperare presso il Tiroler Landesarchiv), venendo promosso tenente per merito di guerra.
 Inizio chiedendo ai miei interlocutori notizie su loro padre, fratello del protagonista di questo racconto.

- Chi era vostro padre?

Nostro padre era Adolfo, nato nel ‘99. Silvio credo era del ‘97 e Bruno del ‘94. Poi c’era la Laura del ‘92. La più vecchia era la Clorinda. Ma queste sorelle non le abbiamo conosciute. Sono morte giovani con la spagnola. La Clorinda era la capostipite, la Ada era la più giovane…
- Perché siete venuti a vivere qui in Sudtirolo?

Mio padre si è laureato a Torino e poi è stato a Trieste per un po’ di tempo e poi è venuto qui (in provincia di Bolzano, ndr). Non so esattamente perché. Si è laureato nel ‘24/’25, (anche) lui era stato in Galizia.

- Quindi Voi siete nati qui?

Si.

- E avete sentito ancora parlare, quando eravate piccoli, di questo zio Bruno o non se n’è mai parlato?
Dunque, lo zio era sempre una persona lontana perché non è mai più tornato in Italia. Sapevamo che c’era e siamo stati la prima volta a trovarlo con mia madre nel 1938. Io e mio fratello Paolo siamo stati con mia madre, siamo stati in treno a Vienna, una solfa, tutta la notte…

- Siete partiti qui da Merano?

C’era un vagone diretto Merano-Vienna allora. Attraverso il sud – Lienz, Villach – si… E’ la prima volta che l’ho visto.

- Voi siete arrivati a Vienna nel ’38. Lui abitava in centro a Vienna?
Si abitava in centro a Vienna, quinto distretto e noi siamo stati lì non ricordo quanto, forse una settimana… Sa, eravamo bambini noi, no?

- E lui che lavoro svolgeva?

Lui era ingegnere. Dunque, lui quando è scoppiata la guerra, la prima guerra, era al Politecnico di Vienna. Si è poi laureato (finita la guerra, ndr) in ingegneria e per un periodo di tempo abbastanza lungo è stato in Polonia per la Esso. A costruire stazioni di servizio, insomma, pompe di benzina. Si, si. E lui è stato lì fino al ’39, quando è scoppiata la guerra, ha fatto ancora in tempo a tornare a Vienna.

- Quindi quando voi siete andati a trovarlo nel ’38 lui era ancora a Vienna o faceva la spola con la Polonia?

Faceva la spola… Adesso esattamente non glielo so dire.
- In particolare lui cosa faceva in Polonia, progettazione di impianti?

Lui era ingegnere e progettava impianti di rifornimento per la Esso. Si chiamava Esso standard allora, ricordo. E quando poi è tornato a Vienna non ha più lavorato come ingegnere ma ha comprato una distilleria, insieme a tre altri signori, tre soci. E poi ha lavorato in quella distilleria fino alla fine. Facevano semi prodotti, cioè compravano la frutta… Facevano dei semilavorati per le industrie…
- Lei si ricorda come si chiamava questa ditta?

L’ultima si chiamava Dunst & Co. La Dunst & Co era la sua ultima [ditta] perché si è poi separato dai suoi due soci perché diceva “lavoro sempre solo io, gli altri fanno sempre i grandi signori” – mi ricordo… Kirnbauer era il nome della prima distilleria di zio Bruno. Poi ha venduto la sua quota ed ha comprato la Dunst, che c’era già (era di un certo ing. Dunst). Io sono stato una volta in Stiria con lui a comprare prugne per fare distillati. Lui a Vienna è stato anche Presidente dei Distillatori austriaci per parecchi anni. Era un personaggio di spicco nell’economia austriaca.

- Una domanda tornando indietro. Lei sa quando la famiglia era andata a Rovereto?

Non so esattamente. So solo che anche nostro papà, che era il più giovane, ha fatto tutto il ginnasio a Rovereto.

- Lei sa dov’era la loro casa a Rovereto?

No. Io non lo so. Siamo stati una volta ma ci ha portati in una pasticceria che c’era già. La famosa pasticceria Andreatta. Ecco, sono stato lì una volta con mio padre, forse può anche darsi che mi ha fatto vedere dove abitavano… Credo che il nonno, che noi non abbiamo mai conosciuto perché è morto nel 1929, fosse direttore didattico di una scuola di Rovereto. Anche la mamma era maestra.
- E quindi loro sono stati a Rovereto, però dopo sono tornati a Tres?
La famiglia è tornata a Tres subito dopo la guerra credo… Non so se la storia di Bruno ha influito su questo dover tornare a Tres. Non lo so.

- Comunque voi nel ’38 siete andati a trovarlo…

La prima volta.

- Ma lui viveva da solo o aveva una famiglia?

No, non aveva la famiglia, aveva la tante Dora [zia Dora]…

- Com’è che la chiamate Voi?

La zia Dora per noi è stata una specie di moglie dello zio. Abitavano insieme. Era più anziana di lui ed era la vedova di un medico, credo. Dora Helf, si chiamava. Infatti quando noi siamo andati nel ’38 a Vienna la tante Dora ci ha portati al Prater, alle giostre, tutte quelle robe lì e mi ricordo che era proprio poco dopo l’Anschluss. C’erano tanti soldati germanici… Perché sono entrati a settembre [1938], loro, e noi siamo andati subito dopo…

- Siete rimasti lì qualche giorno? E quando siete tornati?

Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1949. Io avevo 17 anni.
- Ho sentito dire che nel ’31 lui avrebbe dovuto recarsi nella città di Merano ma c’era qualcuno che lo aspettava…
Dunque, si, la questione è la seguente: nel ’31 si sono sposati i miei genitori e quando hanno fatto il pranzo a casa dei nonni materni, in via Mainardo [Meinhardstrasse], quando mio padre e mia madre sono scesi per partire per il viaggio di nozze, fatto in motocicletta, hanno trovato nel corridoio, nell’androne, gente che aspettava perché pensavano che il Bruno potesse venire alle nozze del fratello… Ma non è venuto lui.

- Chi era questa gente?

Sicuramente gente non ben intenzionata. Hanno fermato mio padre, insomma… E so che mio padre mi ha detto “mi ha rovinato il viaggio di nozze questa cosa”. Questo è vero. Nel 1931. Quando si sono sposati, il 2 giugno credo, si.
Aggiunge l’altro fratello: “A me sembra di ricordare che i genitori sono partiti con la moto verso le Palade, sono stati inseguiti anche da questi soggetti. Ed è stata una situazione spiacevole per cui questi due giovani sposi avevano assolutamente questa “ombra” che li inseguiva…”.

- A Vienna qualcuno è mai andato a cercarlo?

Sono venuti i giornalisti, c’è stato Luigi Barzini [noto giornalista italiano, ndr], fra le due guerre… Quando è venuta fuori questa storia. Non so quale dei due Luigi Barzini, perché c’era il senior o junior, credo il junior. Quello era stato a trovarlo per chiedergli della cosa di Battisti. Barzini è stato a Vienna a intervistare mio zio. Questo me l’ha detto lui.

- C’è mai stato qualcuno che l’ha cercato a Vienna con cattive intenzioni?

No, che io sappia mai. Perché lui era cittadino austriaco già allora ed è rimasto tale; era diventato cittadino germanico dopo l’Anschluss ed è tornato poi nuovamente austriaco.

- Quindi dopo la seconda guerra mondiale siete andati a trovarlo a Vienna?

Siamo tornati tutti e tre i fratelli, con mio padre, siamo andati con la Balilla. Abbiamo impiegato due giorni. Il primo giorno siamo andati ad Hall, in un albergo in collina. Il secondo giorno a Salisburgo. Lì c’è venuto incontro lo zio. E poi abbiamo avuto negli anni successivi un paio di incontri nella zona di Salisburgo. Bischofhofen, Zell am See [entrambe località del Salisburghese, ndr]. Si. Era l’unica possibilità che i fratelli si potessero rincontrare.
- Lui di certo non poteva tornare in Italia.
No, non poteva. Prima non poteva, poi non voleva.
- Qualcuno sostiene che durante il periodo dell’Alpenvorland, tra il 1943 e il 1945, quando il territorio trentino era stato annesso alla Germania, lui sarebbe tornato, sotto false sembianze, per rivedere la madre…
Sicuramente no. La madre l’ha vista a Lienz. Hanno fatto un incontro a Lienz. Non ha più visto suo padre, per esempio. Quello è morto nel ’29. Con la madre si sono invece ritrovati a Lienz nel ’30 o nel ’31. Lui non è più stato in Italia.

- Secondo Voi ha sofferto di questa cosa?

Moltissimo. Si. Io ho passato serate con lui. Lui conosceva il Trentino e la val di Non meglio di tutti i nonesi. Perché non faceva altro che studiare libri, conosceva ogni sentiero. Era proprio appassionato. Però non è sicuramente mai più rientrato in Italia. Io quando ero a Vienna da lui ho provato a farlo venire con me perché mio papà mi ha detto “guarda, cerca di farlo venire con te, tanto lui è cittadino austriaco, la guerra è finita, i fascisti non ci sono più”… E Bruno mi ha risposto “No, non vengo più, perché ci ho messo quarant’anni a dimenticare questa storia e non voglio più saperne. Se uno a Tres mi facesse solo un minimo accenno a questa vicenda…”.
- Insomma, non ne voleva più sentire parlare…

No. Io ho provato più volte ma non sono più riuscito a farlo venire in Italia.

- Lui a Vienna ha abitato sempre nello stesso posto?

Quando io abitavo da lui, la signora Dora era già morta e la casa era sempre quella.

- Si ricorda qual’era la via?

Si. Kleineneugasse, 5. Quinto distretto. Li ho abitato due anni…

- In che anni ha abitato con lo zio Bruno Franceschini?

Dal ’59 al ’61.

- Quindi lui Le raccontava del periodo della guerra?

Si. La sera ci trovavamo. Una volta facevo un caffè italiano io, una volta il caffè turco lui. Si diceva “a chi tocca stasera?”. Non ci trovavamo mica tutte le sere ma quando io non uscivo e lui era libero ci trovavamo e stavamo mezze notti a parlare…

- Che persona era lui?

Estremamente colto, direi colto più del normale. Anche come umanista, forte latinista. Il vecchio Ginnasio austriaco a Rovereto era duro. E lì mi ha raccontato anche la storia della prima guerra mondiale fra cui anche la faccenda Battisti. Quello che mi ha detto: dopo un’azione di guerra sul monte Corno, lui era tenente o sottotenente, comandava una compagnia… ha mandato una pattuglia a esplorare il territorio e questa pattuglia, che era della sua compagnia, ha trovato Cesare Battisti.
- Lo ha riconosciuto la pattuglia?
Lui non lo ha neanche visto perché la pattuglia lo ha preso e lo ha portato direttamente al comando. Lo ha portato direttamente al comando, non alla compagnia… Quindi lui mi ha detto “Guarda, io Cesare Battisti non lo ho nemmeno visto, a parte il fatto che non avrei riconosciuto perché non lo conoscevo, in Austria non era mica una persona importante allora…”. Comunque lui mi ha detto che non l’ha neanche visto perché è stato direttamente portato al comando di battaglione o di reggimento. L’hanno riconosciuto poi lì.

- Perché è stato attribuito a lui il riconoscimento?

Perché la pattuglia era comandata da lui.

- E quindi aveva un significato forse il fatto che lui fosse un trentino, la cosa è stata caricata un po’…
Non solo un po’… Io trovo una cosa estremamente esagerata perché se tu ufficiale mandi una pattuglia e neanche te lo portano, come fanno a farti responsabile? Quello che so di lui è che non lo ha mai visto [Battisti], quindi la pattuglia non lo ha portato da lui ma al comando direttamente e la responsabilità gliel’hanno data perché la pattuglia l’aveva mandata lui. Ma lui non l’aveva mica mandata per prendere Battisti, lui non sapeva neanche che c’era… Il comandante di pattuglia la manda la pattuglia, non è che ci va lui… Sulla questione del riconoscimento [di Battisti] mio zio non sapeva niente perché l’hanno portato non a lui ma al comando. Questo è quello che mi ha detto lui e penso che non abbia avuto ragione di non dirmi la verità perché dopo cinquant’anni mi poteva anche dire “l’ho preso io”… Lui ha fatto praticamente il suo dovere come soldato dell’Imperatore. Io penso che è stato il nazionalismo fascista quello che lo ha fregato…
Lo zio Bruno verso la fine della guerra è stato ferito e alla fine della guerra era all’ospedale militare a Vienna.
 Prima era sul Carso nel 1915, sempre sul fronte italiano. Mi ha parlato della Bainsizza…

- Dopo è stato spostato sul fronte dolomitico. E’ rimasto lì oppure è finito altrove?

Credo sia rimasto lì e poi è stato ferito. Non so dove… Alla fine della guerra era all’ospedale militare di Vienna. Lui aveva una grandissima ammirazione per gli alpini, diceva che erano veri soldati, me l’ha detto tante volte. Mentre per la fanteria… un po’ meno. Ma gli alpini per lui erano dei degni avversari, corretti e valorosi. Mi ha raccontato un sacco di storie, perché lui aveva una biblioteca sulla prima guerra mondiale che non finiva più.

- Lui ha mai tenuto un archivio delle sue cose, delle sue memorie, delle sue lettere? Chi avrà tenuto la sua documentazione?

Lui ha avuto poi una seconda, come dire, amica, compagna, però non abitavano insieme. Lei aveva un’abitazione nel settimo distretto, nella Richtegasse, lì andava a cena tutte le sere e invitavano me perché ero un povero studente. La tante Dora è morta mentre ero a Vienna, tra il 1959 e il 1963. Questa signora si chiamava Fíala, di origine boema… Però lui abitava sempre da solo in Kleineneugasse. Quando lui è morto siccome la signora Fíala ha fatto molto per lui, è stata lei l’erede universale. La signora Fíala è morta da molto tempo, non so se la figlia vive ancora. Era del ’22… Se vive ha novant’anni. Lui non ha mai avuto dei figli. Lui è stato seppellito al Zentralfriedhof di Vienna e la tomba l’abbiamo dismessa, penso negli anni Novanta. Oggi non c’è più nulla. Io sono stato al funerale alla cappella del cimitero.

- Qualche altro anneddoto della guerra?

Una volta, sul Carso, lo zio Bruno ha conosciuto anche Rommel. I tedeschi hanno mandato un corpo di spedizione, prima di Caporetto, guidato dal giovane Rommel. Mi ha raccontato che una volta c’era da prendere una cima, lui da una parte coi suoi e Rommel dall’altra… E quando è arrivato su, Rommel era già arrivato.

Di Redazione A.L.T.A.