giovedì 14 agosto 2014

Benedetto e i suoi arditi (Benedetto XV e la pace) - Renato Farina

Benedetto XV sul Trono di San Pietro.
tratto da: Il Sabato, 9.2.1991, n. 6, p. 57-60.

Mittenti i vescovi Veneti. Destinatario il Papa. Dagli Archivi vaticani riemerge un documento eccezionale sulla Grande guerra


Roma: il 4 luglio del 1917 Benedetto XV sta già redigendo la sua «Nota ai capi delle nazioni belligeranti». Apparirà il primo di agosto e fornirà, come si dice oggi, il canestro per la pace: riduzione simultanea e reciproca degli armamenti, libertà dei mari, condono reciproco ed intero dei danni di guerra, restituzione dei territori occupati, risoluzione di tutte le questioni territoriali mediante trattative che tenessero conto «nella misura del giusto e del possibile delle aspirazioni dei popoli». Poi, in fondo alla nota, il giudizio: bisognava accettare queste proposte per «giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più apparisce inutile strage». «Inutile»: questo aggettivo inceneriva ogni retorica guerresca. Altro che dannunziano «maggio radioso». Ma su quali basi lo coniò il Papa? Ora lo si può dire: era informato minutamente, settimana per settimana, dai suoi uomini. Non solo dai nunzi, che erano lontani dal fronte e dalla gente, ma dai vescovi.

Lettere segrete

Padova, 4 luglio 1916. Era troppo stanco, troppo emozionato per scrivere al Papa di notte. Certe lettere si devono scrivere all'alba, quando il dolore si è purificato. Luigi Pellizzo finalmente ha dinanzi la pagina bianca, con il suo stemma di vescovo di Padova. Una città importante, Padova, durante la Grande guerra: è la capitale militare d'Italia. Ed il vescovo Pellizzo dal pulpito dev'essere arciprudente, moderare i termini, invitare i suoi preti ed il suo popolo a dar mostra alle autorità dello Stato di un certo «patriottismo di carità», e nello stesso tempo praticare con coraggio una «mobilitazione spirituale» per la pace. Ma da quando la guerra è cominciata scrive con costanza a Benedetto XV. Come Pellizzo fecero i vescovi delle undici diocesi del Veneto durante i 41 mesi dell'«immane flagello». Lettere private, quasi rapporti segreti, che riuscirono ad evitare le forbici della censura. Ora, dopo cinque anni di massacrante lavoro, Antonio Scottà, un sacerdote-storico che insegna al liceo di Portogruaro, ha finito di decifrarle traendole dagli Archivi segreti vaticani. Sono 800, saranno rese pubbliche in autunno. Costringeranno a rivedere molti giudizi sulla Grande guerra. «Queste lettere sono un grandioso monumento alla pietà ed al realismo della Chiesa cattolica. So che non si usa dirlo nell'ambiente degli storici: ma la mia fede ne è uscita rafforzata da tanta testimonianza di carità», dice. È Scottà che ci permette, nonostante le restrizioni dell'editore, di poter citare alcuni straordinari inediti. «Mi pare» dice Scottà «rendano ulteriore ragione del giudizio di Giovanni Paolo II su questa guerra del Golfo».

Preti in galera

Ecco cosa scrive Pellizzo: «Beatissimo Padre, ieri mi sono spinto sino agli estremi confini della diocesi, verso il Trentino, per radunare tutti i sacerdoti delle parrocchie». Segue una relazione minuta. Il vescovo andò dai signori ufficiali «perché i parroci possano avere appoggi e non vengano accolte accuse facili, seguite da più facili e dolorosi e quanto più dannosi internamenti». Sottolineato. Pellizzo sempre sottolinea quel che più preme.

(Internamenti. Eh sì, era proprio facile per i preti finire in galera. Informerà il Papa da Vicenza il vescovo Ferdinando Ridolfi, in data 25 giugno ‘18: «E la giustizia è rigorosa appena contro i deboli e contro i preti. E reco anche qui un esempio. Il 28 marzo a Bassano il cappellano di S. Croce, Vigolo don Giuseppe, è preso, legato, condotto alle carceri di Cologna Veneta, poi di Lonigo, poi di Vicenza, dove dal Tribunale di Bassano, ivi residente, il 22 aprile è condannato a 45 giorni di reclusione, a 250 lire di multa e alle spese processuali. Questo, unico punto assodato nel processo, per avere di novembre, in un giorno imprecisato, espresso dubbi ed apprensioni circa la resistenza del nostro esercito...»).


Pellizzo comunque, constatata la «desolazione morale e spirituale», lamenta come la guerra sia causa in sé di indebolimento della fede: «Quindi addio festa, dottrina, catechismo». Eppure nota la generosità delle offerte raccolte per la Madonna di Lourdes, per la Lituania (anche allora!), spiega come egli creda nell'efficacia della «consacrazione al Sacro Cuore di Gesù». E poi, di colpo, un altro scenario: le stragi.

Scrive di furia e di lacrime, gli salta la sintassi: «Ed ora, Padre Santo, un'altra nota dolente: i massacri in questo settore continuano e come! Ho dovuto dolorosamente constatare che quanto scrissi nella mia del 22 giugno è assai inferiore al vero! L'occupazione dell'Ortigara costò vittime senza fine, per acquistarla questa importante cima, su cui furono lanciati ben 12mila proiettili grossi: poi vittime senza fine per finire di perderlo, ed essere respinti di qua dalle posizioni di prima». Avanti e indietro, morti su morti, per niente. «Altro che conquistare Cima Undici, Cima Dodici, Verena, Ortigara, Zebio eccetera» continua: «Sarà assai se potranno mantenersi sulla difensiva, e non avvenga una nuova avanzata sull'altipiano colla favorevolissima posizione che hanno gli austro-ungarici in possesso, dopo questi ultimi disastrosissimi tentativi di avanzata. Le batterie dei nostri furono così pazzescamente spinte in avanti dai nostri da non poter nemmeno tirare: e parecchie furono circondate con tutte le munizioni e uomini».

Poveri soldati!

Tutto è pazzesco, disumano. Il vescovo si piega ancora sul foglio: «Il cielo stesso sembrava congiurare. Era stata apparecchiata una poderosissima mina sul Zebio che dovea, in un dato punto, quando fossero stati attratti opportunamente i nemici, esplodere e seppellirli; esplose, non si sa come, 24 ore prima seppellendo i nostri. Dicono che sia stato un fulmine caduto che lo accese, altri un tradimento: ma il fatto è fatto e la desolazione e la morte sono lì ad attestarlo». Ha visto i corpi contratti, bei volti contadini, esclama: «Poveri soldati! Ed erano dei migliori alpini, truppe scelte, mandate al macello, divisioni sopra divisioni. Ma quando avrà fine questa orribile ed inutile carneficina. Ormai non si passa né di qua né di là: e perché continuare a logorarsi mentre colle armi non si finirà più questa guerra?» Finisce così: «"Cor Jesu Sacratissimum, miserare nobis". Padre Santo beneditemi, mentre proteso al bacio del sacro piede mi professo Luigi Vescovo di Padova».

Il Papa di Roma legge, sottolinea, annota. Che cosa rappresenta meglio l'assurdo di quell'andare e venire sull'Ortigara, di quella mina che poteva seppellire o noi o loro, comunque per niente? Poveri soldati! Altrove Pellizzo compiangerà i bambini, anch'essi a lavorare negli scavi di trincee e gallerie, le ragazze («come dicea il buon Manzoni, non si è mai sentito che le truppe insegnino la modestia alle fanciulle»), «questa generazione prava» generata dalla guerra. Dio stesso, vilipeso e bestemmiato.

Don Scottà, sommerso dagli scartafacci, nel suo studio di Portogruaro segnala: «Le lettere mostrano come non ci sia stata vittoria di nessuno. In nessuna lettera ho trovato questa espressione: vittoria. Nemmeno quando le nostre truppe avanzavano. I vescovi erano vicini alla gente, avevano compassione di tutti. In realtà non ci fu nessun trionfo militare: semplicemente ci fu un collasso economico terrificante dell'Impero austro-ungarico».

Un'altra lettera mai uscita dagli Archivi segreti vaticani? È del nunzio in Austria, monsignor Teodoro Valfrè di Bonzo. Racconta al Papa di un testimone oculare attendibile che giura di aver assistito, nel territorio friulano in mano ancora agli austriaci, ad un osceno commercio di topi; una lira ciascuno.

Carabinieri e soldati


Il Papa sapeva anche - prima di Caporetto, negli stessi giorni in cui Sidney Sennino lo insultava - che nelle file dell'esercito italiano «le ribellioni e le diserzioni crescono spaventosamente». C'è una lettera di Pellizzo, datata 18 agosto 1917. Dice: «...ma quale sia lo stato d'animo dei soldati e quale terribile catastrofe si vada apparecchiando per il prossimo inverno, qualora non venga prima la pace od almeno un armistizio, lo dimostrano i dolorosi episodi che di continuo si succedono. Sono reggimenti che si rifiutano di andare avanti, e che vengono decimati. Sono altri, spinti avanti a viva forza dai carabinieri colle armi impugnate, i quali ad un certo punto rivolgono le armi contro i carabinieri, mettendoli al suolo a decine, a centinaia talora». Sì, si legge così: vere e proprie guerre tra soldati e carabinieri.

«Questi vescovi sanno bene chi vuole la guerra», dice Scottà: «è l'Italia laica e massonica. Per preservare fisicamente la loro presenza e quella dei sacerdoti - si finiva in prigione! - mascherano il loro giudizio sul conflitto, ricattati come sono da chi li accusa di allearsi con i socialisti senza Dio. Del resto i clericomoderati dopo una prima fase di blando neutralismo giolittiano erano passati a sostenere l'intervento. Alcuni con vigore. Anche vescovi. Il capo di questo schieramento era il cardinale di Pisa, Pietro Maffi, che si metteva la coccarda tricolore. I più coraggiosi neutralisti attivi e poi pacifisti facevano invece capo ai cosiddetti estremisti cattolici, come Miglioli, Murri e anche Toniolo. Rispetto ai socialisti i vescovi si distinguevano per la carità realistica. Mentre i "bolscevichi" invitavano i contadini a non seminare, i vescovi ne richiamavano il dovere. Non per calcolo, ma perché fossero alleviate le sofferenze degli innocenti».

L'odio dei framassoni

Quando però c'era uno spiraglio, i vescovi aggiravano con artifici la censura e dicevano al popolo il loro pensiero. Ecco questa lettera pastorale del vescovo di Treviso, Andrea Longhin, scritta per la Quaresima del '16: «L'odio anticristiano, mentre la setta dei framassoni saluta la guerra come impresa sua, esaltandosi alla vista del sangue e delle stragi, solleva il muso infrunito, gettando lo scherno, il vilipendio, l'allarme sull'opera pacificatrice del Vicario di Cristo».

Non solo contro il Papa (Mussolini diffuse tra i soldati al fronte un suo articolo contro il Papa, che la censura aveva vietato per la normale distribuzione), ma contro la religione cattolica. Siamo al famigerato (e ignorato) decreto Sacchi dell'ottobre del '17. Ivi, il ministro guardasigilli inaugura una vera e propria persecuzione religiosa, mascherandola come misura di igiene bellica. Si condanna fino a 5 anni di prigione chiunque «con qualsiasi mezzo» si metta in condizione di «deprimere lo spirito pubblico». E cioè i preti. La predicazione per la pace è inibita. I pellegrinaggi vietati. Le lettere dei vescovi raccontano al Papa di immagini sacre sequestrate perché disfattiste. La giaculatoria «Ostia pacifica» fu messa fuori legge, come quella su «Cristo nostra pace», i santini di angeli che vegliavano sulle madri consolandole vennero distrutti. Grande guerra, grandi miserie.