mercoledì 1 ottobre 2014

Il grande Scisma d'Occidente - Giorgio Falco

tratto da: Giorgio FALCO, La Santa Romana Repubblica, Ricciardi, Milano-Napoli 1986, p. 366-376.

L'Europa nel XIV secolo

   Ciò che i teologi e i politici bandivano dai loro trattati, diffondevano con più facile argomentazione fra il popolo i Fraticelli, figli traviati di San Francesco; sette ereticali pullulavano in ogni parte del mondo cattolico; e, per prima, l'Inghilterra parlamentare dei signori e dei comuni, contro le stesse esitazioni del sovrano, partecipe del bottino ecclesiastico, promulgava con lo «Statute of Provisors» (1351) e con lo «Statute of Praemunire» (1353) una legislazione nettamente opposta alle pretese fiscali e giurisdizionali di Avignone.

Nel 1378 scoppiò il grande Scisma d'Occidente, che doveva per quarant'anni e più impegnare quasi per intero le forze politiche e religiose d'Europa. D'allora e fino ad oggi tutte le circostanze dei fatti sono state indagate e pesate, per stabilire da che parte fosse il torto o la ragione, se ad Avignone o a Roma, ne è mancato, anche in tempi recenti e recentissimi, chi ha riaperto il dibattito per affermare energicamente la legittimità di Clemente VII contro Urbano VI, per esaltare o per condannare la dottrina e la pratica del Concilio.

Ora, di quelle circostanze di fatto conviene senza dubbio rendersi conto, anche, anzi, tanto più quando non si abbia interesse a partecipare per l'uno o per l'altro dei contendenti. A parte i motivi di ordine spirituale, il primo tentativo di Urbano V, il secondo di Gregorio XI per ricondurre a Roma la Santa Sede coincidevano con un declinare dell'egemonia francese e s'accompagnavano con un correlativo, più risoluto sforzo di restaurazione dello Stato Pontificio, accennavano cioè, sia al bisogno, sia al desiderio di riacquistare la dignità della sede e la libertà dell'azione, senza che tuttavia fossero assicurate, all'interno e all'esterno, le condizioni necessarie per l'esercizio della libertà stessa. Diviso era il collegio cardinalizio, e la divisione si manifestò in tutta la sua asprezza quando, attraverso un'elezione papale, si trattò di prendere partito per Italia o Francia, per Roma o Avignone. Dei ventitré cardinali di Gregorio XI, sei erano rimasti ad Avignone, uno assente come legato in Toscana, dei sedici rimanenti, che entrarono in conclave alla morte del pontefice, uno era spagnolo, quattro italiani e undici francesi, in tale maggioranza, quindi, questi ultimi, da poter imporre la loro volontà, se i sei Limosini non si fossero trovati di fronte i loro connazionali, più disposti a far causa comune con gl'Italiani che a permettere l'elezione di un altro Limosino, come Clemente VI e suo nipote Gregorio XI. Pressioni e intimidazioni vi furono senza dubbio, e il contegno autoritario e brutale del nuovo eletto, l'arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignani, col nome di Urbano VI, contribuì certamente a provocare la secessione dei cardinali oltramontani, che ritiratisi, prima ad Anagni, poi a Fondi, elevarono alla tiara il cardinale Roberto di Ginevra, Clemente VII.

Tuttavia non bastavano le ambasciate dei Banderesi, le grida della folla: "Romano, romano lo volemo lo papa o almanco italiano", non l'imprudenza di un papa, per scavare l'abisso, da cui rimase diviso per più di quarant'anni il mondo cattolico, nelle cui profondità, potremo anzi dire, andò sommerso l'intero mondo medievale. Affiora sovente negli studiosi di questo periodo l'idea che se in quell'anno infausto si fosse proceduto, da parte di tutti, - ciò che non era impossibile, - con un po' più di prudenza e di moderazione, si sarebbe risparmiato all'Europa un lungo periodo di torbidi, alla Chiesa l'umiliazione della dignità pontificia, e forse il danno secolare della riforma protestante. Ma se appena poniamo mente, da un lato alla Chiesa, assalita d'ogni parte, da laici ed ecclesiastici, eretici e dottrinari, popoli e principi, o di questi alleata a patto di cedere alle loro pretese, dall'altro all'estrema difficoltà di saldare la ferita, rimaniamo facilmente convinti che lo Scisma non è un male, che si sarebbe potuto evitare con un po' di buona volontà, che è anzi esso stesso il momento culminante di una crisi tremenda ed ormai ineluttabile. Il papato va, per così dire, lacerato e disperso perché la dispersione era già avvenuta nella realtà, perché non v'era nella Chiesa tale prestigio, nei contemporanei tale coscienza, da reagire prontamente e da ricomporre in breve la spezzata unità religiosa.

Mentre il problema della legittimità offriva inesauribile materia di discussione agli universitari di Parigi e di Oxford, di Bologna e di Praga, e con uguale purezza e con uguale devozione s'inchinavano, Santa Caterina a Urbano VI, San Vincenzo Ferreri a Clemente VII, gli stati si venivano raccogliendo intorno al papa o all'antipapa secondo le convenienze e le rivalità della politica europea. Si dichiararono per Avignone: naturalmente la Francia, la Scozia, sua alleata nella lotta contro l'Inghilterra, e la propaggine francese del regno di Napoli. Tennero inversamente per Roma: la monarchia inglese e la Fiandra, sua alleata contro la Francia, inoltre l'Ungheria, per le vecchie ambizioni sulla corona di Napoli, l'imperatore Carlo IV e suo figlio Venceslao in base al riconoscimento di quest'ultimo quale re dei Romani da parte di Urbano VI. I regni spagnoli rimasero per qualche tempo neutrali e finirono con l'aderire a Clemente VII.

Le grandi questioni dell'impero, di Napoli, del conflitto franco-inglese, la crisi dinastica, che colpisce tutti i maggiori potentati e accenna a un travaglio profondo della società europea, danno fin da principio allo Scisma una così solida base, un così ricco alimento, che riesce impossibile tornare indietro. Posa la guerra tra Francia e Inghilterra per la stanchezza dello sforzo compiuto e perché nell'uno e nell'altro campo la monarchia è disfatta. La fanciullezza prima, poi la demenza di Carlo VI di Valois, scatenano le rivalità dei parenti del re, cioè degli zii Filippo l'Ardito, duca di Borgogna, Luigi d'Angiò, Luigi di Borbone e del fratello Luigi, duca d'Orléans, che vogliono impadronirsi della reggenza e soddisfare le proprie ambizioni personali. Tanto all'interno, quanto all'esterno, - verso la Santa Sede, l'Inghilterra, le monarchie iberiche, l'Italia, l'impero, - ciascuno fa la sua politica e il regno va in rovina. Col favore di Clemente VII, le ambizioni angioine si volgono naturalmente verso il Napoletano, le orleanesi, in seguito al matrimonio di Luigi con Valentina Visconti e al possesso di Asti, verso Genova e l'Italia settentrionale. Ma i dispendiosi tentativi di Luigi I e Luigi II d'Angiò rimangono infruttuosi; e, senza aver potuto compiere i suoi disegni, Luigi d'Orléans cade assassinato a Parigi per mano degli sgherri di suo cugino, Giovanni Senza Paura, duca di Borgogna, figlio dell'Ardito. E di qui lo scoppio della furibonda guerra civile fra Armagnacchi e Borgognoni, che insanguina la Francia e annienta la potenza regia.

Uno spettacolo non dissimile presenta la monarchia inglese, attraverso l'assunzione al trono del dodicenne Riccardo II, le competizioni degli zii, l'abdicazione forzata e l'assassinio del re per opera di Enrico di Lancaster, che prende la corona e per anni è impegnato a fronteggiare opposizioni e rivolte in ogni parte del regno. L'antagonismo franco-inglese non è spento; nonostante le più o meno pacifiche alternative, esso in fondo perdura, sia nelle relazioni dirette dei due stati, sia indirettamente nelle interferenze reciproche sulle questioni dinastiche della Spagna e dell'impero. Ma l'urto ha perduto molto di nettezza, di vigore, di efficacia, dacché il potere unificatore della monarchia è andato in pezzi, e alle grandi direttive politiche si sono sostituite di qua e di là dai confini i discordi interessi personali e familiari.

Il regno di Napoli, per la dipendenza feudale della Santa Sede, è il grande oggetto della politica papale, per la sua posizione geografica e la sua tradizione dinastica, il luogo di incontro delle ambizioni franco-angioine da una parte, ungheresi dall'altra. La mancanza di eredi diretti, nonostante i quattro matrimoni della regina Giovanna, scatena la gara per la successione, che, alla fine, sotto l'egida di Luigi il Grande di Ungheria, verrà assicurata al ramo durazzesco degli Angioini in Carlo III e nei suoi figli, Ladislao e Giovanna II. Non meno agitati, ma più fecondi di nuove energie sono il centro e il settentrione d'Europa. Il fatto di maggior rilievo e di carattere più generale è l'arresto dell'espansione germanica e il suo lento ripiegamento di fronte a potenze più giovani, che hanno ormai acquistato coscienza di sé e reagiscono contro l'ingerenza e la concorrenza straniera. All'Hansa si oppone l'unione dei paesi baltici a Calmar, alla penetrazione fra i popoli slavi da parte dell'Ordine Teutonico, la conversione ufficiale della Lituania e l'assunzione del suo duca, Jagellone, a re di Polonia, in seguito al matrimonio di lui con Edvige, figlia di Luigi il Grande, che aveva riunito sul suo capo la corona polacca e l'ungherese.


L'impronta germanica del vecchio impero si viene oscurando, la sua costituzione non risponde più alle necessità dei tempi, la sua forza declina. Con Carlo IV di Lussemburgo s'era accentrato in Boemia, giunta sotto il suo governo ad alto splendore nazionale e civile. Alla morte di Carlo la corona imperiale va soggetta alla sorte comune di quasi tutti i potentati d'Europa in quel medesimo periodo: il figlio e successore Venceslao, re di Boemia, incerto e indolente, è sopraffatto in patria dal movimento anticattolico e antigermanico degli Hussiti, e tradisce gl'interessi dell'impero in Italia, sia vendendo il titolo ducale a Gian Galeazzo Visconti, sia indulgendo alle ambizioni del genero di lui, Luigi d'Orléans. Deposto dai principi, viene sostituito, altrettanto infelicemente, con Roberto del Palatinato; morto il quale nel 1410, in seguito a una duplice elezione, tre principi si contendono la corona, Venceslao, il duca Jost di Moravia, e Sigismondo, anch'egli figlio di Carlo IV, divenuto re d'Ungheria per il suo matrimonio con Maria, secondogenita di Luigi il Grande. Sigismondo riuscirà in breve a metter fine allo scisma imperiale, e avrà, come vedremo, parte preponderante nel Concilio di Costanza.

Ma la forza della sua politica deriva non tanto dall'impero, in sé e per sé, quanto dalla corona ungherese, che, sulle orme di Luigi il Grande, lo porta a combattere contro Venezia e Ladislao di Napoli: segno non ultimo di quella potente reazione esercitata dai popoli nord-orientali sulla vecchia Europa, in cui consiste uno dei caratteri fondamentali di questo periodo.

Nelle condizioni che abbiamo brevemente delineato, lo scisma religioso s'approfondisce e s'inasprisce ogni giorno di più; le relazioni tra Roma e Avignone da una parte, e gli stati dall'altra, che da principio si possono abbracciare con relativa facilità in un quadro complessivo, acquistano con l'andare del tempo una volubilità vertiginosa; ogni stabile fondamento sembra venir meno alla vita pubblica europea. Non v'è principe che non trovi un pontefice pronto a secondare i suoi disegni, non v'è pontefice che non possa contare sull'appoggio di uno o di più potentati per sostenere la sua legittimità, le armi della scomunica, dell'interdetto, della crociata, brandite dai papi rivali, sono adoperate dall'una contro l'altra metà del mondo cattolico. Il problema, già così grave nel passato, della collazione dei benefici, si complica all'infinito, ora che un duplice assalto muove da parte della Chiesa, e tanto più accanito, quanto più stringente è il bisogno di assicurarsi autorità e risorse finanziarie con l'occupazione dei vescovadi e delle abbazie. Nelle terre contese o di confine le doppie provvisioni sono un fatto quasi normale, e l'alternarsi delle obbedienze nei medesimi luoghi porta naturalmente con sé il mutare degli uomini al governo ecclesiastico.

Quali siano le conseguenze di un tale stato di cose, non è difficile immaginare. La coscienza cattolica è turbata dal dubbio sul legittimo successore di Pietro e sui sacramenti stessi amministrati in suo nome; si abbassa l'autorità del papato, non più sollecito dei supremi interessi della Chiesa, ma costretto alle violenze, alle astuzie, ai compromessi di una piccola politica personale e temporale; l'incertezza e l'incostanza delle relazioni pubbliche e private si ripercuotono sulla società, sull'economia, sullo stato. Tanto nell'ordine pratico, quanto nell'ordine spirituale, fra Tre e Quattrocento l'Europa cade in preda ad una crisi unica e immensa, di cui lo Scisma non è che un elemento, ma tale per la sua natura da ingenerare un malessere universale, da infondere nei contemporanei il senso di una disperata rovina, da suscitare nelle anime più vigilanti e operose un'ansia rivoluzionaria di salvezza e di liberazione.

La via della salvezza, che significava ad un tempo fine dello Scisma e purificazione della Chiesa, fu ricercata con animo diverso da più parti: dai riformatori, dai principi, dai cardinali, dalle Università.

Il movimento che partiva da Oxford e da Praga, e che comprendiamo comunemente sotto i nomi di Giovanni Wiclif e di Giovanni Huss, andava in realtà molto oltre una riforma e importava nella sua applicazione immediata la totale distruzione della Chiesa Romana.

I primi atti di Wiclif s'inquadrano nell'opposizione nazionale e antiromana dello «Statute of Provisors» e dello «Statute of Praemunire», in quanto egli si faceva campione della corona contro le esazioni dei collettori papali e contro il pagamento del tributo annuo, promesso alla Santa Sede da Giovanni Senza Terra, sospeso da trentatré anni e richiesto da Urbano V. Ma lo scoppio dello Scisma e lo spettacolo miserevole offerto dai pontefici diede alla sua parola e alla sua azione un indirizzo nettamente radicale e sovversivo. Dalla Chiesa corrotta che lo circondava, egli si rifugiava nelle visioni di una Chiesa dei predestinati, - di cui in Dio solo era il segreto, - trionfante in cielo, dormiente in purgatorio, militante sulla terra. Alla gerarchia ecclesiastica contrapponeva l'universale sacerdozio dei fedeli, al magistero e alla disciplina romana, le Sacre Scritture, al primato del papa, nel quale ravvisava l'anticristo, il Redentore, capo unico della Chiesa; e chiamava il popolo a parte della sua fede nel Vangelo, del suo assalto contro l'edificio secolare di Roma.

A Praga la lotta impegnata da Carlo IV contro la corruzione del clero metteva capo all'affermazione del sentimento nazionale contro l'elemento tedesco predominante. Odio antiecclesiastico e odio antigermanico si univano ad alimentare e a cementare la coscienza boema. Huss raccoglieva l'eredità di Corrado di Waldhausen, di Milicz di Kremsier, di Mattia di Janow, di Tommaso Stitny, predicatori di riforma e di purezza evangelica, dava la mano a Wiclif e predicava al suo popolo, nella sua lingua, a dispetto dei divieti e delle scomuniche papali, poiché "noi dobbiamo obbedire a Dio piuttosto che agli uomini nelle cose che sono necessarie alla salvazione". Poi, quando le convenienze politiche indussero il re Venceslao ad allontanarlo da Praga, si diede con infaticabile ardore a diffondere con gli scritti la sua parola, contrapponendo anch'egli alla Chiesa Romana la Chiesa degli eletti, alla tradizione cattolica i Libri Sacri, insegnando "che i veri Cristiani debbono resistere a ogni presunta podestà, la quale cerchi, con la forza o con l'inganno, di rimuoverli dalla imitazione di Cristo", e che ai fedeli è stata data grazia; "quando anche temporaneamente non esista alcun romano pontefice, di poter giungere alla patria del cielo sotto la guida di Cristo Signore".

Wiclif e Huss avevano creduto di tagliare il nodo annullando, se non altro per ciò che riguardava la Chiesa, più di dieci secoli di storia. Ma l'Europa non era disposta a seguirli su questa via.


Non c'è forse scrittore moderno, che, anche in questo caso, dinanzi alla durata dello Scisma non si sia lasciato andare a qualche recriminazione contro i principi, i cardinali, i pontefici, i dottrinari, che non abbia cioè sostituito idealmente al danno effettivo di quei quarant'anni di disordine, il vantaggio immaginario che sarebbe derivato alla società europea, se tutti e ciascuno avessero saputo sacrificare interessi e risentimenti al bene comune della restaurazione dell'unità cattolica. Ora, non è dubbio che, come sempre accade, e tanto più nelle questioni più serie, molte basse passioni entrarono in giuoco, che il parlamentarismo, soprattutto degli universitari, trovò nello Scisma un magnifico, inesauribile argomento di esercitazioni dialettiche, e tardarono ad affermarsi un principio decisivo, a farsi innanzi uno o più uomini risoluti e capaci di metter fine allo scandalo.

Tuttavia non bisogna esser troppo severi con questa giostra di parole, che è un po' la rivendicazione delle nuove energie individuali e nazionali contro l'autorità e la tradizione, il confuso e clamoroso principio dell'Europa moderna. E quelle lunghe esitazioni, quelle resistenze accanite, meritano di essere considerate, non come oggetto di condanna, ma come segno dei tempi, cioè come indizio di un'Europa che ha perduto la fede unitaria del medio evo, e non trova più in essa la forza per ricomporsi a Cristiana Repubblica, che lacerata in se stessa, abbarbicata al passato e protesa verso l'avvenire, cerca dolorosamente, disperatamente, di sanare la sua ferita sotto un unico papa e con un programma di riforme, abbandonandosi alle più feroci invettive contro la Chiesa, e pretendendo nello stesso tempo di restaurare l'autorità pontificia.

Lo Scisma non era cosa nuova nel mondo cattolico; ciò che costituiva la sua novità, e minacciava di protrarlo all'infinito, era la torbida vitalità dei potentati laici e della cultura di fronte all'impoverimento morale e alla profonda prostrazione della Santa Sede. Poiché le reciproche scomuniche, sia pure fiancheggiate dalle pressioni politiche, non approdavano a nulla, il compito di ristabilire l'unità sfuggì di mano alle parti e divenne cura delle Università, dei principi e dei popoli; poiché, nonostante tutti gli sforzi, rimaneva insoluto il problema della legittimità, fu necessario alla fine lasciarlo in disparte e ricorrere a mezzi più pratici e risolutivi. Tutti gli espedienti furono di volta in volta proposti o tentati. Si pensò a un accordo personale fra i pontefici, a un arbitrato, alla cessione dei due rivali e a nuova elezione, alla riunione delle due obbedienze alla morte di uno dei papi, a cui non sarebbe stato dato successore. Ma si urtò contro la buona fede di chi considerava la rinuncia come una colpevole defezione, contro il malvolere o l'impotenza di chi doveva con la rinuncia stessa venir meno agli interessi suoi e della sua parte. In fondo si chiedeva sanità di giudizio ed eroica energia a un corpo infermo, a un'anima svigorita e asservita; e tutti gli appelli risuonarono a vuoto.

Con procedimento via via più rivoluzionario, con una ostilità sempre più acerba contro i papi e il Sacro Collegio, fatti personalmente responsabili di tanta rovina, si pretese dal nuovo eletto la promessa di deporre la tiara qualora ciò dovesse giovare alla pacificazione religiosa, si rifiutò l'obbedienza all'uno e all'altro pontefice proclamando la neutralità, si ricorse anche alla forza. Ma il risultato non fu diverso. Nessuno infatti poteva in coscienza imporre a un pontefice, che si riteneva legittimamente eletto, di scendere dal soglio papale; tanto più in quanto la diserzione, qualora fosse avvenuta, non dava maggior garanzia di assicurare la pace, che di rompere quel qualsiasi equilibrio esistente e di provocare un più universale disordine. La sottrazione d'obbedienza, cioè l'instaurazione di una chiesa gallicana, decretata dalla Francia nel 1398, oltre a turbare la coscienza cattolica, si dimostrò alla prova assai più oppressiva della fiscalità pontificia, e fu revocata nel 1403. Né le armi francesi riuscirono ad aver ragione dell'inflessibile tenacia di Benedetto XIII, il quale da parte sua poteva ricordare la ben diversa condotta tenuta dalla monarchia nei primi anni dello Scisma verso Clemente VII, di cui egli era il legittimo successore.

La sola via d'uscita era appellarsi alla Chiesa, cioè convocare un Concilio ecumenico, che provvedesse all'unione e alla pacificazione d'Europa. La proposta era stata avanzata fin da principio da Corrado di Gelnhausen e da Enrico di Langenstein, e sostenuta con crescente favore dai maestri dell'Università di Parigi, soprattutto da Pietro d'Ailly e dal suo discepolo Giovanni Gerson, via via che fallivano le speranze di accomodamento.

Se non che era assai più facile proporre il rimedio, che farne la pratica applicazione. In pratica le difficoltà erano immense. Per tradizione il Concilio universale non poteva esser convocato se non dal papa, a rischio di nullità, e nel solo caso di eresia il papa stesso poteva essere sottoposto al giudizio della Chiesa. Ora, per la convocazione non si poteva fare alcun assegnamento sui pontefici; quand'anche fosse stata sanata questa irregolarità, mancava ogni fondamento all'accusa di eresia; ne era pacifico che la colpa stessa di eresia potesse dar luogo alla deposizione. A una doppia condizione era possibile adoperare l'arma del Concilio contro il papato, cioè di affermare la superiorità del primo sul secondo e di far passare come eresia, - ciò ch'era assai discutibile, - la continuazione dello Scisma da parte dei due rivali. È questo il punto in cui si manifesta il carattere intimamente, necessariamente rivoluzionario del momento storico, il travaglio della coscienza cattolica, che per restaurare la tradizione è condotta a rinnegarla, e adopera ogni ingegno per dimostrare l'ortodossia delle nuove dottrine, per impedire che, tratte alle ultime conseguenze, esse sbocchino in piena eresia.

Nelle disperate condizioni del tempo l'appello al Concilio fu sentito come una necessità dai più illuminati rappresentanti del pensiero cattolico. Nel 1415 Giovanni Gerson vorrà fare della superiorità del Concilio un articolo di fede, da scolpire sulla pietra di tutte le chiese; pochi anni dopo Niccolò da Cusa parlerà della "eminentissima potestas" dei Concilii universali, come di una dottrina rimasta a lungo sopita "non sine maximo publicae utilitatis et fidei orthodoxae dispendio", poi quasi d'improvviso, per un certo influsso divino, nata e definita "ex conquassatione ingeniorum", in seguito alla discordia tra papa e concilio. Ma non è dubbio che la dottrina conciliare richiamava come precedenti immediati le due torbide ribellioni contro Bonifacio VIII e Giovanni XXII, e si ricongiungeva idealmente ai principi di sovranità popolare, di contrattualismo, di convenienza politica, banditi da Marsilio da Padova e da Guglielmo Occam, che inoltre quel rifarsi al Vangelo e agli usi della Chiesa primitiva per giustificare un Concilio non convocato e non presieduto dal papa, minacciava di sovvertire la Chiesa stessa, col rimuovere uno dei suoi primi fondamenti, la tradizione.

Un altro danno meno remoto poteva venire da una siffatta risoluzione del problema, nel caso cioè che lo Scisma continuasse di fatto, non ostante la formale deposizione dei due pretendenti e una nuova elezione. E così accadde effettivamente. Era parso a un certo punto che l'avignonese Benedetto XIII e il romano Gregorio XII si disponessero a lavorare seriamente per la pace, e a questo scopo si sarebbero dovuti incontrare personalmente a Savona. Ma le diffidenze reciproche avevano mandato a vuoto il disegno: tra mille esitazioni l'uno era giunto sino a Porto Venere, l'altro fino a Lucca, senza risolversi a fare il passo decisivo.


Dinanzi allo scandalo generale suscitato dalla condotta dei papi, i due collegi cardinalizi disdissero le rispettive obbedienze e convocarono il concilio di Pisa, che, inaugurato il 28 marzo 1409, il 9 giugno successivo proclamava la decadenza di Gregorio e di Benedetto come eretici e indegni della tiara. Ad occupare la Santa Sede dichiarata vacante, il 26 giugno veniva eletto dai cardinali riuniti in conclave il settantenne Pietro Filargi, nativo di Candia, cardinale arcivescovo di Milano, col nome di Alessandro V.

Ma, contro quella che era stata la speranza di molti, il risultato tu disastroso. Mentre riconobbero Alessandro la monarchia. francese, l'Inghilterra, il Portogallo, parte della Germania e dell'Italia, rimasero fedeli a Benedetto, l'Aragona, la Castiglia, la Scozia, e i conti d'Armagnac e di Foix, a Gregorio, la Polonia, parte della Germania, il Napoletano e le terre dello Stato Pontificio in potere di Ladislao di Durazzo. Il primo tentativo di restaurazione religiosa non era riuscito che ad inasprire lo Scisma, con l'aggiungere alle due, una terza obbedienza e col turbare più profondamente la coscienza cattolica.