lunedì 3 agosto 2015

Le macerie di un’ingiustizia: storia della resistenza borbonica al Risorgimento

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«Il sangue di questa guerra fratricida piombi su quelli che l’accesero»
(F. PROTO, duca di Maddaloni, menzione d’inchiesta presentata
al Parlamento italiano il 20 novembre 1861)
 
di Luca Fumagalli (http://radiospada.org/)
 
Forse qualcuno fu sorpreso nel vedere Maria Sofia, l’ex regina delle Due Sicilie, aggirarsi per i campi di prigionia italiani in Austria. Da tempo l’Europa era lacerata dalla «Grande guerra», una folle corsa alle armi a cui decise di partecipare anche l’ingordo e corrotto governo italiano. Migliaia di pastori e contadini del sud, così come veneti, lombardi, piemontesi e friulani, vennero sbattuti in prima linea a sostenere gli assalti alla baionetta contro le trincee austro-ungariche. Mentre l’incapacità dei generali procurava orribili carneficine, Maria Sofia decise di rincuorare con la presenza e la parola quegli uomini che un tempo erano i suoi sudditi e che ora soffrivano per il freddo e la fame.
Poco più di cinquant’anni prima quella stessa Italia che ora mandava  al massacro le genti del sud aveva occupato il regno di suo marito in barba alle convenzioni internazionali, senza dichiarare guerra, con tale spregiudicata infamia da svelare subito come dietro la propagandata liberazione ci fosse soltanto un progetto di conquista. Francesco II era morto nel 1894, fortunatamente troppo presto per poter vedere la nuova umiliazione a cui era sottoposto il suo popolo.
Tanti soldati prigionieri nelle carceri austriache rimasero sopresi nel constatare come Maria Sofia, nonostante le origini tedesche, parlasse un italiano impeccabile. Non così i giovani napoletani che avevano conosciuto l’affettuosa sovrana attraverso le storie dei genitori e dei nonni.  In una lettera, lamentandosi delle precarie condizioni finanziarie, la regina aveva scritto un monito che oggi, con il senno di poi, suona come una sinistra profezia: «Dio non voglia che un giorno anche i Savoia non abbiano di difendere, dall’esilio, i loro patrimoni personali».
La fine del regno delle Due Sicilie era iniziata nel maggio del 1860 quando i mille di Garibaldi erano sbarcati a Marsala, “leggendari eroi” che nulla avrebbero potuto senza l’appoggio delle navi inglesi. Bastarono nove mesi per sfaldare uno stato che la dinastia dei Borbone guidava da 127 anni. La tragedia del Mezzogiorno si consumò tra traditori, doppiogiochisti e connivenze con la malavita locale, circostanze che permisero a Vittorio Emanuele II e a Cavour di estendere il controllo piemontese anche alle regioni meridionali della penisola. All’epoca in molti parlarono dell’entusiasmo del popolo nei confronti dei “liberatori” dal giogo borbonico ma, in realtà, quella fu una reazione condivisa solamente da un ristretta classe di intellettuali, sognatori da salotto che vagheggiavano un’età dell’oro, mentre la gente nelle piazze e nelle strade sperimentava l’oppressione del nuovo regime. Anche il plebiscito per confermare l’annessione fu la solita truffa politica, tra l’altro un procedimento tutt’altro che democratico dal momento che ebbe la facoltà di votare solo una ristrettissima minoranza di cittadini.
Eppure, in mezzo a questi terribili cambiamenti, c’era chi, come il re Francesco II, trovò il coraggio per tentare un’ultima, disperata resistenza nei confronti dell’invasore. Si apre così il bellissimo saggio di Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento, mentre le pagine, come una telecamera, seguono la partenza del sovrano da Napoli con l’intento di raccogliere gli ultimi scampoli di un esercito in rotta e organizzare una strategia difensiva efficace. Ha dunque inizio una delle più eroiche resistenze contro la peste mortifera che, con una qual certa dose di ironia, ci si ostina ancora chiamare Risorgimento.
Lontani dalle loro famiglie e dalle loro case, uomini di tutto il sud Italia si diedero appuntamento sul Volturno o tra le macerie delle fortezze di Gaeta, Capua, Messina e Civitella del Tronto per opporsi con i fucili e i cannoni all’invasione nemica, stretti intorno al giovane sovrano, quel Francesco II che ai loro occhi doveva apparire, nonostante la giovanissima età, come un padre. Nei loro confronti il battage della propaganda fintamente liberale, di coloro che già si sfregavano le mani assaporando le prebende che avrebbero ricavato dalle spogliazioni, non ebbe alcuna pietà. I tanti soldati che difesero con il loro onore quello del legittimo sovrano di Napoli furono a più riprese bollati come traditori dell’Italia, sbandati, fanatici guerriglieri di una causa ormai persa. In realtà furono eroi lontani dal gattopardismo di tanti loro compatrioti e disposti a versare il proprio sangue per la difesa della patria violata, un ideale nobile e virile.
Ma, nonostante le mirabili gesta, ci fu poco da fare. Soverchiante era infatti la forza dell’esercito piemontese che si muoveva all’interno di un piano d’invasione che era stata preparato da Cavour già da molto tempo e che prevedeva l’utilizzo delle camicie rosse come grimaldello prima dell’avanzata dell’esercito regolare. Diversi ufficiali borbonici vennero dunque corrotti con denaro o can la promessa, non sempre mantenuta, di un reintegro nel futuro esercito italiano, oppure si cercò l’appoggio della camorra per arginare eventuali ribellioni popolari al nuovo ordine.
Per tanti altri, meno fortunati, la tragedia non finì con la sconfitta sul capo di battaglia. Deportati nelle carceri del nord – veri e propri lager di cui Fenestrelle, vicino a Torino, rimane ancora oggi un triste simbolo – molti soldati borbonici morirono di malattie o stenti, mentre nel Mezzogiorno si formarono numerose bande di ribelli che diedero il via a una guerra civile che procurò diversi grattacapi al governo sabaudo. Li chiamavano “briganti”, ma la maggior parte di loro combatteva con lealtà ed entusiasmo per il ritorno al trono del legittimo sovrano. Alla violenza della guerra, negli anni che vanno dal 1860 al 1870, si aggiunse una sanguinosa repressione che costò la vita a centinaia di civili inermi, spesso ingiustamente accusati e fucilati sul posto.
Il merito del pregevole saggio di Gigi di Fiore, oggi all’undicesima ristampa, risiede nell’onestà della ricerca, nel desiderio di rileggere le pagine di una storia per troppo tempo dimenticata oppure surrettiziamente riscritta come dono votivo all’altare della divinità risorgimentale. Il lettore si ritroverà così faccia a faccia con una mole inedita di documenti e un apparato di note corposo teso a dimostrare la realtà degli avvenimenti, dando finalmente la parola ai vinti. Ne emerge un ritratto appassionante e cristallino da contrapporre ai tanti miti del Risorgimento – Garibaldi in primis – che meriterebbero, al contrario, un giudizio più severo e obiettivo.
Come scrisse l’ex regina Maria Sofia: «Che i Savoia, dopo che ebbero annesso il Regno di Napoli, non abbiano sentito il bisogno di usare un po’ di riguardo ai Borbone, che erano stati re legittimissimi come loro, questo è ciò che ancora oggi, dopo tanti anni, mi fa meraviglia».
GIGI DI FIORE, I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli, Torino, UTET, 2015.