domenica 9 agosto 2015

Resistenza pubblica a decisioni dell’Autorità Ecclesiastica

San Bruno di Segni resistette a alle prevaricazioni di Papa Pasquale II in tema di investiture.
San Bruno di Segni resistette a alle prevaricazioni di Papa Pasquale II in tema di investiture.
 
Terzo ed ultimo saggio di questa breve serie. I due precedenti di Arnaldo Vidigal Xavier Da Silveira sono stati pubblicati nei giorni scorsi [RS]
 
«Catolicismo» n° 224, agosto 1969, San Paolo del Brasile.
 
di Arnaldo Vidigal Xavier Da Silveira
La Chiesa insegna che di fronte a una decisione errata dell’autorità ecclesiastica al cattolico avveduto è lecito non solo negare il suo assenso, ma anche in casi estremi, opporvisi pubblicamente. Tale opposizione può costituire persino un autentico dovere.
Vescovi e autorità ecclesiastiche inferiori
Affrontando questo argomento preferiamo non mescolare la nostra voce a quella dei grandi santi e dei teologi “probati” dalla santa Chiesa. Perciò, in questo paragrafo e nel seguente, ci limiteremo a riportare quanto è stato detto da alcuni di essi, lasciando così a loro il compito di insegnarci non solo qual è la portata della tesi che sostengono, ma anche quali sono gli argomenti su cui la fondano.
Solo di passaggio ci occuperemo del principio secondo cui è lecito resistere, anche pubblicamente, ai vescovi e alle autorità ecclesiastiche inferiori che, per la loro cattiva dottrina, per la loro vita scandalosa o per le loro inique decisioni mettono in pericolo la fede e la salvezza delle anime. Nella storia della Chiesa gli esempi di santi che levarono la voce contro i cattivi pastori sono tanti che la difficoltà consisterebbe piuttosto nello scegliere tra le numerose prove della legittimità di un tale comportamento.
Al riguardo tra i teologi non vi è alcun dubbio. Ecco alcuni testi relativi alla legittimità della resistenza pubblica all’autorità episcopale.
a) Dom Prosper Guéranger
Scrivendo di San Cirillo di Alessandria, insigne avversario del nestorianesimo, dom Prospero Guéranger insegna: «Quando il pastore si cambia in lupo, tocca anzitutto al gregge difendersi. Di regola, senza dubbio, la dottrina discende dai vescovi ai fedeli; e i sudditi non devono giudicare nel campo della fede i loro capi. Ma nel tesoro della rivelazione vi sono dei punti essenziali dei quali ogni cristiano, per il fatto stesso di essere cristiano, ha la necessaria conoscenza e la custodia obbligatoria»[51].
b) Hervé
Analizzando i diversi fattori che contribuiscono a esplicitare sempre più il dogma nel corso dei secoli, Hervé elogia l’opposizione fatta dai fedeli a Nestorio, il patriarca eretico di Costantinopoli: «Sotto l’ ispirazione dello Spirito Santo, i fedeli possono essere spinti a comprendere e a credere meglio quanto aumenta la pietà e il culto, favorendo così il progresso del dogma. Infatti la reazione dei fedeli contro Nestorio fu di grande aiuto alla definizione della divina Maternità della Santissima Vergine […]»[52].
c) Mons. Antonio de Castro Mayer
L’illustre vescovo di Campos, ha pubblicato un documento in cui ricorda la dottrina tradizionale sul diritto di resistenza alla autorità ecclesiastica iniqua. Si tratta della lettera di approvazione al magnifico “Vade-mécum do catolico fiel”, nel quale quattrocento sacerdoti di diversi paesi, combattendo il progressismo, espongono i princìpi della fede cattolica autentica e invitano i fedeli ad opporsi alla nuova eresia che oggi invade tutto il mondo. Nella sua lettera di approvazione di questoVade-mécum, il vescovo di Campos ne riconosce la grandissima utilità e aggiunge: «[…] nessuno ci venga a dire che non tocca ai fedeli – come invece proclama il Vade-mécum – giudicare quel che succede nella Chiesa e che essi devono soltanto seguire docilmente l’ orientamento dato dai ministri del Signore. Non è vero. La storia della Chiesa elogia l’atteggiamento dei fedeli di Costantinopoli che si opposero all’ eresia del loro patriarca Nestorio». Quindi mons. Antonio de Castro Mayer cita il testo di dom Guéranger che abbiamo riportato sopra.
«Gli resistetti apertamente perché meritava di essere ripreso»
Sarà legittimo, in casi estremi, resistere anche a decisioni del Sommo Pontefice?
Per rispondere a questa domanda, trascriviamo soltanto documenti relativi alla resistenza pubblica, perché, se in certe circostanze questa è legittima, a maggior ragione lo sarà l’opposizione privata a una decisione papale. Nessun autore, che noi sappiamo, ha mai sollevato dubbi quanto al diritto di una simile opposizione privata. Questa potrà manifestarsi in due modi: o esponendo alla Santa Sede le ragioni che militano contro il documento o attraverso la cosiddetta «correzione fraterna», cioè con un avvertimento dato in privato per ottenere la correzione dell’errore commesso[53].
Passiamo perciò ai testi che ammettono la resistenza pubblica in casi particolarissimi.
a. San Tommaso d’Aquino.
Il Dottore Angelico, in diverse sue opere, insegna che in casi estremi è lecito resistere pubblicamente a una decisione papale, come San Paolo resistette in faccia a San Pietro: «essendovi un pericolo prossimo per la fede, i prelati devono essere ripresi, perfino pubblicamente, da parte dei loro soggetti. Così San Paolo, che era soggetto a San Pietro, lo riprese pubblicamente, a motivo di un pericolo imminente di scandalo in materia di fede. E, come dice il commento di Sant’Agostino, “lo stesso San Pietro diede l’esempio a coloro che governano, affinché essi, se mai si allontanassero dalla retta strada, non rifiutino come indebita una correzione venuta anche dai loro soggetti” (ad Gal. 2, 14)»[54].
Nel commento all’Epistola ai Galati, studiando l’episodio in cui San Paolo resistette in faccia a San Pietro, San Tommaso scrive: «La riprensione fu giusta e utile, e il suo motivo non fu di poco conto: si trattava di un pericolo per la preservazione della verità evangelica […]. Il modo della riprensione fu conveniente, perché fu pubblico e manifesto. Perciò San Paolo scrive: “Parlai a Cefa (cioè a Pietro) davanti a tutti”, perché la simulazione praticata da San Pietro comportava un pericolo per tutti. In 1 Tim. 5, 20 leggiamo: “coloro che hanno peccato riprendili di fronte a tutti”. Questo si deve intendere dei peccatori manifesti, e non di quelli occulti, perché per questi ultimi si deve procedere secondo l’ordine proprio alla correzione fraterna»[55].
San Tommaso aggiunge anche che questo episodio della Scrittura contiene insegnamenti tanto per i prelati quanto per i loro sudditi: «Ai prelati [fu dato esempio] di umiltà,  perché non rifiutino i richiami dei loro inferiori e soggetti; e ai soggetti [fu dato] esempio di zelo e di libertà, perché non temano di correggere i loro prelati, soprattutto quando la colpa è pubblica e costituisce un pericolo per molti»[56].
b. Vitoria.
L’eminente teologo domenicano del secolo XVI scrive: «Il Gaetano, nella stessa opera in cui difende la superiorità del Papa sul concilio, al cap. 27 dice: “Dunque, si deve resistere in faccia al Papa che pubblicamente distrugge la Chiesa, per esempio concedendo benefici ecclesiastici solo per denaro o in cambio di servigi; e non si deve accettare, con tutta ubbidienza e rispetto, il possesso di tali benefici da parte di coloro che in tal modo li hanno acquisiti”».
«E Silvestro [Pierias], alla parola Papa, par. 4, si chiede: “Che cosa si deve fare quando il Papa, con i suoi cattivi comportamenti, distrugge la Chiesa?” e al par. 15: “Che fare se il Papa volesse, senza ragione, abrogare il diritto positivo?”. A questo risponde: “Peccherebbe certamente; non gli si deve permettere di agire così, e non gli si deve ubbidire in ciò che è cattivo; ma si deve resistergli con una riprensione garbata”. Di conseguenza, se [il Papa] volesse dare tutto il tesoro della Chiesa o il patrimonio di San Pietro ai suoi parenti, se volesse distruggere la Chiesa, o fare altre cose di questo genere, non gli si dovrebbe permettere di agire in tal modo, ma si avrebbe l’obbligo di opporgli resistenza. La ragione sta nel fatto che egli non ha il potere per demolire [la Chiesa]; quindi, constatando che lo fa, è lecito resistergli. Ne consegue che, se il Papa, con i suoi ordini e i suoi atti, distrugge la Chiesa, gli si può resistere e impedire l’ esecuzione dei suoi comandi […].
Ecco una seconda prova della tesi. Secondo la legge naturale è lecito respingere la violenza con la violenza. Ora, con tali ordini e dispense, il Papa esercita una violenza, perché agisce contro la legge, come abbiamo dimostrato. Quindi è lecito resistergli. Come osserva il Gaetano, non facciamo questa affermazione perché qualcuno abbia diritto di giudicare il Papa o abbia autorità su di lui, ma perché è lecito difendersi. Chiunque, infatti, ha il diritto di resistere a un atto ingiusto, di cercare di impedirlo e di difendersi»[57].
c. Suarez.
«Se [il Papa] emana un ordine contrario ai buoni costumi, non gli si deve ubbidire: se tenta di fare qualcosa di manifestamente contrario alla giustizia e al bene comune, sarà lecito resistergli; se attaccherà con la forza, potrà essere respinto con la forza, con quella moderazione propria della legittima difesa [cum moderamine inculpatae tutelae]»[58].
d. San Roberto Bellarmino.
«Com’è lecito resistere al Pontefice che aggredisce il corpo, così pure è lecito resistere a quello che aggredisce le anime o perturba l’ordine civile, o, soprattutto, a quello che tenta di distruggere  la Chiesa. Dico che è lecito resistergli non facendo quello che ordina e impedendo la esecuzione della sua volontà: non è però lecito giudicarlo, punirlo e deporlo, poiché questi atti sono propri di un superiore»[59].
e. Cornelio a Lapide.
L’illustre esegeta dice che secondo Sant’Agostino, Sant’Ambrogio, San Beda, Sant’Anselmo e molti altri Padri, la resistenza di San Paolo a San Pietro fu pubblica «perché lo scandalo pubblico dato da San Pietro fosse riparato da un richiamo anch’esso pubblico»[60].
Dopo aver analizzato le diverse questioni teologiche ed esegetiche sollevate dall’atteggiamento assunto da San Paolo, Cornelio a Lapide scrive: «che i superiori possano essere ripresi con umiltà e carità dagli inferiori, affinché la verità sia difesa, è quanto dichiarano sulla base di questo passo [Gal. 2,11] Sant’ Agostino (Epist. 19), San Cipriano, San Gregorio, San Tommaso e altri sopra citati. Essi insegnano chiaramente che San Pietro, pur essendo superiore, fu ripreso da San Paolo […]. A ragione, dunque, San Gregorio disse (Homil. 18 in Ezech.): “Pietro tacque affinché, essendo il primo nella gerarchia apostolica, fosse anche il primo nella umiltà”. E Sant’Agostino affermò (Epist. 19 ad Hieronymum): “Insegnando che i superiori non devono rifiutare di lasciarsi riprendere dagli inferiori, San Pietro ci ha dato un esempio più prezioso e più santo di quello di San Paolo, il quale ha insegnato che, nella difesa della verità, e con carità, è giusto che gli inferiori abbiano l’ardire di resistere senza timore ai loro superiori”»[61].
f. Wernz e Vidal.
Citando Suarez, l’opera Ius Canonicum di Wernz-Vidal ammette che, in casi estremi, è lecito resistere a un cattivo papa: «I mezzi che si possono usare contro un cattivo Papa senza offendere la giustizia sono, secondo Suarez (Defensio fidei catholicae, lib. IV, cap. 6, nn.17-18), l’aiuto più abbondante della grazia di Dio, la speciale protezione dell’ Angelo Custode, la preghiera della Chiesa universale, l’ ammonizione o correzione fraterna segreta o anche pubblica, e perfino la legittima difesa contro una aggressione sia fisica sia morale»[62].
g. Peinador.
Gli autori contemporanei adottano le affermazioni degli antichi sull’argomento che stiamo trattando. Così Peinador, citando ampi brani di San Tommaso, scrive: «[…] “anche il suddito può essere obbligato alla correzione fraterna del suo superiore”. (S. Theol., II-II, 33, 4). Infatti anche il superiore può essere spiritualmente bisognoso, e niente impedisce che a tale bisogno provveda uno dei suoi sudditi. Tuttavia “quando i sudditi riprendono i loro prelati, devono agire in modo conveniente, cioè né con insolenza né con asprezza, ma con mansuetudine e rispetto” (S. Theol. ibidem). Perciò, in generale, il superiore deve essere ammonito privatamente. “Si tenga però presente che, essendovi pericolo prossimo per la fede, i prelati devono essere richiamati dai sudditi anche pubblicamente” (S. Theol., II-II, 33, 4, 2)»[63].
Una discordanza solo apparente
Come abbiamo visto, gli autori che dichiarano lecito, in casi straordinari, opporsi anche pubblicamente a qualche decisione erronea dell’autorità ecclesiastica e persino della Sede romana sono numerosi e di grande valore. Se aggiungiamo gli esempi storici dei Santi che si sono comportati in siffatto modo, concludiamo che si tratta di una tesi pacificamente accettata nella santa Chiesa.
Alcuni, però, ritengono che un fatto tolga a questa tesi il suo carattere pacifico: in testi tanto di dogmatica che di morale è frequente – e persino comune – la sentenza secondo cui non è mai lecito al fedele rompere il “silenzio ossequioso” verso un documento papale, anche di fronte alla evidenza che esso contenga un errore.
In uno studio precedente abbiamo già affrontata la delicata questione del silenzio ossequioso[64]. Solo per fissare i dati fondamentali del problema, riassumiamo rapidamente ciò che allora abbiamo scritto:
1) un documento del Magistero è di per se stesso infallibile solo quando ottempera alle condizioni dettate dal Concilio Vaticano I[65];
2) i documenti che non ottemperano a queste condizioni non sono di per sé infallibili e quindi possono, in via di principio e in casi rarissimi, contenere qualche errore;
3) quindi, in via di principio, non si può escludere l’ipotesi che una persona avveduta, dopo accurato esame di un determinato documento del magistero non infallibile, giunga alla conclusione che in esso vi è evidentemente un errore;
4) in questa ipotesi, sarà necessario agire con circospezione e umiltà, usando tutti i mezzi ragionevoli per chiarire la questione, anzitutto facendo un rilievo all’organo del Magistero da cui è stato emanato il documento;
5) se, dopo aver usato tutti i mezzi opportuni, l’errore evidentemente persiste, sarà lecito sospendere l’assenso interno che di per sé il documento richiede.
A questo punto si pone il problema che ora ci interessa: sarà egualmente lecito, almeno in casi estremi, rifiutare alla dichiarazione pontificia il rispetto esterno, cioè il cosiddetto silenzio ossequioso? In altre parole: sarà talvolta lecito opporsi esternamente e forse anche pubblicamente a un documento del Magistero romano?
Nella risposta a questa domanda gli autori sembrano discordare.
Da una parte, infatti, grandi teologi come quelli sopra citati ammettono in via di principio che, in certe circostanze, il fedele ha il diritto e anche il dovere di “resistere in faccia” a Pietro; dall’altra, teologi eminenti sembrano tener fermo che assolutamente in nessuna ipotesi è lecito rompere il cosiddetto silenzio ossequioso.
Prima, però, di proporre la soluzione che ci sembra conciliare entrambe le opinioni vogliamo mettere sotto gli occhi del lettore alcuni testi caratteristici che sembrano interdire assolutamente la rottura del silenzio ossequioso
Il silenzio ossequioso sembrerebbe imporsi sempre
a) Straub.
Straub espone il problema in questi termini: «Può accadere, per accidens, che […] a qualcuno il decreto appaia come certamente falso, o come in opposizione con un argomento tanto solido, […] che la forza di questo argomento non può in nessun modo essere annullata dal peso della sacra autorità; […] nella prima ipotesi sarà lecito dissentire; nella seconda sarà lecito dubitare, o anche considerare probabile la sentenza opposta al sacro decreto; tuttavia, in considerazione della riverenza dovuta alla sacra autorità, non sarà mai lecito contraddirla pubblicamente […]; ma dovrà essere conservato il silenzio detto ossequioso»[66].
b) Merkelbach.
Nella Summa Theologiae Moralis, Merkelbach chiude l’esame dell’ argomento con queste parole: «seper accidens, in una ipotesi peraltro rarissima, dopo un esame molto accurato, sembra che esistano argomenti gravissimi contro la dottrina così proposta, sarà lecito, senza temerarietà, sospendere l’assenso interno; tuttavia esternamente sarà obbligatorio il silenzio ossequioso, a motivo del rispetto dovuto alla Chiesa»[67].
c) Mors.
Padre José Mors definisce il “silenzio ossequioso” in questo modo: “è la sottomissione esterna e rispettosa alla autorità ecclesiastica; consiste nel non dire nulla [in pubblico] contro i suoi decreti. Questo silenzio è richiesto dal rispetto dovuto alla autorità ecclesiastica e dal bene della Chiesa, anche nel caso in cui il contrario fosse certamente evidente”[68].
E padre Mors, dopo avere esposto la dottrina tradizionale sull’assenso dovuto ai documenti del Magistero, conclude: “Tuttavia, nel caso vi siano contro il decreto ragioni davvero evidenti, cesserà l’obbligo dell’ assenso interno; ma anche allora rimarrà l’obbligo del silenzio [esterno]. Questo caso, però, non si darà frequentemente”[69].
d) Zalba.
Per accidens, l’assenso interno può essere rifiutato, nel caso in cui l’errore [dell’insegnamento di una Congregazione Romana] venga conosciuto; con certezza, allo stesso modo sarà lecito dubitare, quando ve ne siano ragioni veramente valide. Ma tanto in un caso come nell’altro, si deve mantenere il silenzio ossequioso esterno”[70].
Due esempi illuminanti
Vi è autentica contraddizione tra l’opinione dei teologi che sostengono la liceità, in casi rarissimi, di resistere pubblicamente a decisioni papali, e quella di coloro che dichiarano sempre illecita la rottura del “silenzio ossequioso”? Si tratta di due orientamenti contrari che dividono realmente ed effettivamente i loro autori?
Non lo crediamo. Un’analisi approfondita della questione mostrerà che è facile conciliare le due opinioni, le quali, come vedremo, sono contraddittorie soltanto in apparenza.
La teologia, infatti, e soprattutto la morale (e il nostro caso è piuttosto di ordine morale che dogmatico), emette con frequenza affermazioni generali, tassative e assolute, che, però, non hanno il valore universale che sembrerebbero avere. L’autore risolve la questione astrattamente, in via di principio, senza prendere in considerazione la ricchissima casistica che apporterebbe maggiori precisazioni alla soluzione proposta. Oppure, per risolvere un caso concreto, presenta la sua conclusione in termini teorici e generali, che possono far credere – contro la sua stessa opinione personale – che la norma enunciata non ammetta eccezioni.
Due esempi renderanno più facile la comprensione di questo fatto. Prendiamo, da una parte, l’ apparente condanna della proprietà privata dei Padri della Chiesa e degli autori medievali e, dall’altra, il divieto del prestito ad interesse fatto da San Tommaso d’Aquino e in generale degli antichi.
1. Apparente condanna della proprietà privata
Sant’Ambrogio ha scritto: “La natura ha distribuito i suoi bene a tutti in comune. Dio ha voluto che il nutrimento fosse comune a tutti e la terra proprietà comune di tutti”[71].
Inoltre, diversi Padri della Chiesa e il Corpus Juris Canonici dichiarano che nessuno ha il diritto dire: “questo è mio”, perché la natura ha fatto tutto per tutti[72].
Queste affermazioni, così generali ed assolute, non hanno tuttavia il valore universale che sembrerebbero avere. Gli stessi Padri che le hanno formulate, in altri passi affermano chiaramente la legittimità della proprietà privata[73]. Gli autori dei testi citati hanno voluto forse combattere l’eccessivo attaccamento ai beni materiali oppure affermare il principio secondo cui, nella ipotesi di estrema necessità, la destinazione comune dei beni prevale sul diritto alla proprietà privata; oppure hanno inteso sottolineare altri princìpi della dottrina cattolica sui limiti del diritto di proprietà. È certo, tuttavia, che le loro affermazioni contro la proprietà privata dei beni materiali non hanno il valore assoluto che potrebbe attribuire ad esse una lettura superficiale[74].
2. Apparente condanna di ogni forma di prestito ad interesse
Un altro esempio, molto illuminante, del fenomeno in esame è costituito dalla condanna, da parte degli antichi teologi, del prestito ad interesse. San Tommaso, per esempio, scrive in modo tassativo: “ricevere interessi per un prestito di denaro è in sé ingiusto”[75]. Il carattere assoluto della affermazione sembrerebbe indicare che, per il Dottore Angelico, in qualsiasi situazione storica il prestito ad interesse è immorale.
Orbene, un’analisi attenta degli scritti di San Tommaso, e degli antichi teologi in generale, mostra che essi condannavano l’interesse perché consideravano il denaro un semplice strumento destinato a facilitare gli scambi. Nell’economia moderna, però, la funzione del denaro si è ingrandita in modo straordinario. Oltre a facilitare gli scambi, il danaro è passato a rappresentare i beni stessi nei quali può essere in qualsiasi momento cambiato: “chi è padrone del denaro – scrive Cathrein – possiede, non formalmente, ma in modo equivalente, tutto quello che in concreto può essere acquistato con il denaro” (Victor  Cathrein  S.J., op. cit., n. 498).
Pertanto il prestito a interesse ha oggi un carattere fondamentalmente diverso da quello che aveva nel Medioevo simile in un certo senso all’affitto. Quindi i moralisti non esitano a dichiarare che San Tommaso, nonostante le sue affermazioni assolute in senso contrario, non condannerebbe l’interesse in un ordine economico come l’attuale[76].
Soluzione del disaccordo apparente
Ciò posto, invitiamo il lettore a rileggere attentamente i passi sopra citati o qualsiasi altro passo in cui i teologi dichiarano essere sempre illecito rompere il cosiddetto “silenzio ossequioso”. Il testo e il contesto di tali passi rendono evidente che in essi si stabilisce soltanto un principio generale, valido per i casi ordinari. Non vi si prendono in considerazione ipotesi rare e straordinarie, ma possibili, che riguardano più la casistica. Non prendono in considerazione, per esempio:
1. Il caso di un errore che comporti per il popolo cristiano un “pericolo prossimo per la fede” (com’è accaduto, spiega San Tommaso, nell’episodio in cui san Paolo resistette in faccia a san Pietro);
2. Il caso di un errore che costituisca una “aggressione alle anime” (secondo l’espressione di San Roberto Bellarmino).
In altri termini, la lettura dei passi in cui gli autori dichiarano proibita qualsiasi rottura del silenzio ossequioso mostra che essi prendono in considerazione soltanto il caso di qualcuno che, “in sede dottrinale”, cioè sul semplice terreno della speculazione teologica, diverga su un dato punto dal documento magisteriale. Essi non intendono con questo affermare che, nella soluzione di un concreto caso di coscienza che si ponga al fedele, sia sempre illecito agire pubblicamente in disaccordo con la decisione del Magistero.
Perciò, se questi autori fossero messi di fronte a un “pericolo prossimo per la fede” (San Tommaso), possiamo essere assolutamente certi che, seguendo le orme dell’Angelo della Scuola, per non parlare di quelle di San Paolo, autorizzerebbero una resistenza pubblica. Se si trovassero di fronte a una “aggressione alle anime” (San Roberto Bellarmino) o a uno “scandalo pubblico” (cfr. Cornelio a Lapide) in materia dottrinale, oppure ad un Papa “che si fosse allontanato dalla retta strada” (Sant’Agostino) con i suoi insegnamenti erronei e ambigui; o ad una “colpa pubblica” che costituisse un pericolo per la fede di molti (San Tommaso) come potrebbero negare il diritto alla resistenza e, occorrendo, alla resistenza pubblica?
A nostro modo di vedere sarebbe assolutamente insufficiente e perfino errata la spiegazione (che potrebbe venire in mente a qualcuno) che su questo punto il disaccordo tra gli autori citati potrebbe risolversi con la distinzione tra decisioni disciplinari e dottrinali onde alle prime sarebbe lecito resistere, alle seconde no. Tale soluzione ci sembra falsa per due ragioni principali.
1. Gli argomenti addotti dal primo gruppo di autori citati valgono per decisioni sia dottrinali sia disciplinari. Tutte possono, per esempio, comportare quel “pericolo prossimo per la fede” su cui San Tommaso fonda il suo ragionamento. E, d’ altro canto, anche le tesi del secondo gruppo di autori valgono tanto per le decisioni disciplinari quanto per quelle dottrinali. Se, per esempio, il “rispetto dovuto alla sacra autorità” esige un silenzio assoluto di fronte alle decisioni dottrinali erronee, perché non lo esigerebbe di fronte a decreti disciplinari ingiusti?
2. Se si ammette la possibilità di errore dottrinale in documenti del Magistero (possibilità che non si vede come possa essere esclusa in via di principio)[77] è fuor di dubbio che anche sul terreno dottrinale si possano porre casi di coscienza gravi, che renderebbero lecita o perfino obbligatoria l’opposizione del fedele. Sostenere il contrario significherebbe misconoscere o negare il ruolo fondamentale della fede nella vita cristiana.
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[51] Dom Prosper Guèranger, L’ Année Liturgique, Mame, Tours 1922, 15a ed., pp. 340-341.
[52] J. M. Hervé, Manuale Theologie Dogmaticae, Berche et Pagis, Parigi 1954, vol. III, p. 305.
[53] Sulla resistenza privata a decisioni papali o delle Congregazioni Romane si possono vedere: San Tommaso d’Aquino, Commentum in IV Librum Sententiarum Magistri Petri Lombardi, in Opera omnia, Vivès, Parigi 1889, vol. X disp. 19, q. 2 a. 2; Summa Theologiae, Marietti, Torino-Roma 1948, II-II, 33, 4; Franciscus Suarez S. J., Defensio Fidei Catholicae, in Opera omnia, Vivés, Parigi 1859, tomo XXIV, lib. IV, cap. VI, nn. 14-18; Christianus Pesch S. J., Praelectiones Dogmaticae, Herder, Friburgo in B. 1898, tomo I, pp. 314-315; D. Bouix, Tractatus de Papa, Lecoffre, Parigi-Lione 1869, tomo II, pp. 635 ss.; H: Hurter S. J., Theologiae Dogmaticae Compendium, Wagneriana-Bloud et Barral, Innsbruck-Parigi 1883, tomo I. pp. 491-491; Antonius Peinador C. M. F., Cursus Brevior Theologiae Moralis, Coculsa, Madrid 1950, tomo II, vol. I, pp. 286-287; Ioachim Salaverri S. J., De Ecclesia Christi, in Sacrae Theologiae Summa, BAR, Madrid 1958, vol. I, pp. 725-726.
[54] San Tommaso d’Aquino,  Summa Theologie, cit., II-II 33, 4, 2.
[55] Idem, Super Epistolam ad Galatas Lectura, in Super Epistolas, S. Pauli Lectura, Marietti, Torino-Roma 1953, vol. I, 2, 11-14, lect. III, nn. 83-84.
[56] Idem, ibidem, lect. III, n. 77.
[57] Franciscus De Vitoria O.P., Obras de Francisco de Vitoria, BAC, Madrid 1960, pp. 486-487.
[58] Franciscus Suarez S. J., De Fide, in Opera omnia, cit., Parigi 1858, tomo XII, disp. X, sect. VI, n. 16.
[59] San Roberto Bellarmino, De Romano Pontifice, in Opera omnia, Battezzati, Milano 1857, vol. I, lib. II, c. 29.
[60] Cornelius A Lapide S. J., Comunentaria in Scripturam Sacram, Vivès, Parigi 1876, tomo XVIII, ad Gal., 2, 11.
[61] Ibidem
[62] Franciscus Vidal Wernz. S. J. – Petrus Vidm. S. J., Ius Canonicum, Gregoriana, Roma 1943, tomo II, p. 520.
[63] Antonius Peinador C. M. F., Cursus Brevior Theologiae Moralis, cit., p. 287. Per approfondire maggiormente l’argomento si possono vedere anche: San Tommaso d’Aquino, Commentum in IV Librum Sententiarum Magistri Petri Lombardi, cit. d. 19 q. 2, a. 2, ql. 3, sol. et ad 1; Franciscus Suarez S. J., De Legibus, in Opera omnia, cit., Parigi 1856, tomo V, lib. IX, cap. XX, nn. 19-29; Idem,Defensio Fidei Catholicae, cit., lib. IV, cap. VI, nn. 14-18; Anacletus Reiffenstuei O. F. M., Theologia Moralis, Bortoli, Venezia 1704, tract. IV, dist. VI, q.5, nn. 51-54, pp. 162-163; Joseph Mayol O. P.,Praeambula ad Decalogum, in Theologiae Cursus Completus, Migne, Parigi 1858, tomo XIII, q. 3, a. 4, col. 918; Joannes Petrus Gury S. J. – Antonius Ballerini S. J., Compendium Theologiae Moralis, Civiltà Cattolica – Marietti, roma-Torino 1866, tomo I, pp. 222-227; Card. Camillus Mazzella, De Religione et Ecclesia, Typ. Polygl., Roma 1880, pp. 747-748; Teofilo Urdanoz O. P., Commento alle Relecciones Teologicas de Francisco de Vitoria, in Obras de Francisco de Vitoria, cit., pp. 426-429.
[64] Cfr. Arnaldo Vidigal Xavier dA Silveira, Può esserci errore in documenti del Magistero?, inCatolicismo, n. 222, luglio n. 1969, v. sì sì no no, 15 ottobre 2010..
[65] Cfr. Idem, Qual è l’autorità dottrinale dei documenti pontifici e conciliari, in Catolicismo, n. 202, ottobre 1967; v. sì sì no no 31 ottobre 2010.
[66] Antonius Straub S. J., De Ecclesia Christi, Pustet, Innstrbuck 1912, vol. II, par. 968; cfr. Ioachim Salaverri S. J., De Ecclesia Christi in Sacrae Theologiae Summa, cit., vol. I, p. 725.
[67] Benedictur Henricus Merkelbach O. P., Summa Theologiae Moralis, Désclée, Parigi 1931, tomo I, p. 601.
[68] Iosephus Mors S. J., Institutiones Theologiae Fundamentalis, Vozes, Petropolis 1943, tomo II, p. 187.
[69] Ibidem.
[70] Marcellino Zalba S. J., Theologiae Moralis Compendium, BAC, Madrid 1958, vol. II, p. 30, nota 21. Nello stesso senso si pronunciano anche: Ad. Tanqueray, Synopsis Theologiae Dogmaticae, Désclée, Parigi-Tours-Roma 1959, tomo I, p. 640; Lucien Choupin S. J., Valeur des Décisions Doctinales et Disciplinares du Saint-Siège, Beauchesne, Parigi 1928, p. 91 ; Sisto Cartechini S. J.,Dall’ Opinione al Domma, La Civiltà Cattolica, Roma 1953, p. 154.
[71] Sant’Ambrogio, De Officiis, lib. I, c. 28, cit. in Victor Cathrein S. J.,  Philosophia Moralis, Herder, Barcellona 1945, n. 457.
[72] Cfr. Victor Cathrein S. J., op. cit. ibid.
[73] Cfr. Idem. ibid.; M._B. Schwalm, voce Communisme, in Dictionnaire de Théologie Catholique, tomo III, coll. 579 ss. ; Teofilo Urdanoz O. P., Commento alla Suma Teologica di San Tommaso d’Aquino, in Suma Teologica, BAC, Madrid 1956, tomo VIII, p. 480.
[74] Cfr. Victor Cathrein S. J., op. cit., ibid.; M. B. Schwalm voce cit., coll. 585-586; Antonius Peinador C.M.F., op. cit., tomo II, vol. I, par. 264, nota 27; Teofilo Urdanoz O. P., op. cit., pp. 479-481.
[75] San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, cit., II-II, 78, 1, c.
[76] Cfr. Idem, op. cit., pp. 344-351; Ad. Tanquery, Synopsis Theologiae Moralis et Pastoralis, Desclée, Parigi-Tours-Roma, 1948, tomo III, pp. 445-448; Henri Du Passage, voce Usure, inDictionnaire de Théologie Catholique, tomo XV, coll. 2382-2390 ; Antonius Peinador C. M. F., op. cit., tomo II, vol. II, pp. 266 ss. ; Teofilo Urdanoz O. P., op. cit., p. 688.
[77] Cfr. Arnaldo Vidigal Xavier Da Silveira, Vi può  essere errore in documenti del Magistero?, cit.