lunedì 30 novembre 2015

La mala condotta di un pazzoide: Savonarola raccontato da Baron Corvo

 
Tra le pagine delle “Cronache di casa Borgia” (1901), Frederick Rolfe, in arte Baron Corvo, traccia con abile maestria ed erudizione la triste storia di fra Girolamo Savonarola. Nell’affrontare la parabola umana e politica del celebre domenicano che osò ribellarsi al Papa, lo scrittore inglese accantona il freddo dato storico per lasciare spazio a una descrizione vivace e frizzante, mossa principalmente dall’amore per la verità cattolica.
Lievi e non sostanziali modifiche sono state apportate al testo originale con la scopo di cucire in un articolo omogeneo diversi brani che, nella più recente edizione italiana delle “Cronache”, risultano sparsi su diverse pagine (cfr. Castelvecchi, 2014, pp.117-142).
 
Nel 1493 Firenze, capitale di Toscana e di vecchia data amica della Francia, era in una situazione critica. Lorenzo de’ Medici era morto da poco e gli era successo il figlio Piero. Il grande Lorenzo era stato indotto dal suo genio a mascherare il proprio potere, ma quando lo scettro cadde nelle sue giovani mani inesperte, Piero dimenticò il consiglio paterno.
Quando il re di Francia cominciò a interferire nella politica italiana, Piero de’ Medici e Firenze, legati al Regno, declinarono l’offerta di un’alleanza francese. Il Re cristianissimo replicò bandendo i mercanti fiorentini dalla Francia e ciò diede occasione ai nemici di imprecare sui mali della tirannide e sui vantaggi della repubblica.
Girolamo Savonarola, frate della Religione di San Domenico, diventò un personaggio eminente in questo frangente. Ecclesiasticamente soggetto alla Congregazione domenicana di Lombardia, egli si indusse a desiderare l’indipendenza e una base a Firenze. Il 22 maggio la bolla di separazione fu emessa da Alessandro VI. Fra Girolamo Savonarola passò così alla nuova congregazione toscana, fu eletto priore di San Marco e vicario generale e divenne signore assoluto dei domenicani di Firenze, soggetto soltanto al generale dell’ordine e al pontefice, a Roma.
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Era un uomo sinceramente pio, di dura tempra ascetica e molto autoritario. Rifiutava qualsiasi compromesso; voleva che si servisse interamente Dio, e non tollerava patteggiamenti con Mammona. Sputava sul mondo e lo sfidava. Bruciava ogni leggiadro oggetto mondano.
Nel frattempo Firenze era turbata dall’attesa dell’invasione francese, che, diceva fra Girolamo – nel frattempo diventato un noto predicatore – era il Flagello di Dio per la purificazione della Chiesa. Aveva delle visioni e le esprimeva in parabole. Il successo, il potere crescente, producevano in lui un effetto come di ebbrezza. Tornò sul pulpito di San Marco e tuonò come un profeta, come un veggente; non più parole sue, adesso, ma “Così diceva il Signore”. Vantava l’afflato divino, l’Ispirazione. Umanamente parlando, era uscito di senno.
L’eccitazione di Firenze diventò frenesia. «Ecco» declamava tremendo fra Girolamo, «ecco io porto le acque del diluvio sulla terra!». E nel 1494 l’esercito francese entrò in Italia.
A seguito della vergognosa resa di Piero a Carlo VIII, Firenze tumultuò costringendo i Medici alla fuga. I fiorentini si diedero allora a spogliare Palazzo Medici, saccheggiando la sua inestimabile biblioteca di manoscritti.
Questa rivolta era opera di fra Girolamo Savonarola. Il frate domenicano aveva risvegliato in Firenze quelle aspirazioni morali che i Medici avevano sopito e atrofizzato; e gli spregevoli errori di Piero avevano portato l’esasperazione all’estremo. La neocostituita Repubblica collocò la statua della Giuditta di Donatello, con la testa di Oloferne, su un piedistallo davanti a Palazzo Vecchio, con la seguente iscrizione a monito dei despoti: EXEMPLUM SALUTIS PUBLICAE CIVES POSUERE MCCCCXCV.
Mentre Carlo VIII, qualche tempo dopo, veniva costretto a una fuga precipitosa dalla lega antifrancese appoggiata dal Papa, raggiungendo la Francia con le sue forze avvilite e in disordine, a Firenze fra Girolamo non cessava di adoperarsi a favore del Re cristianissimo. Dal pulpito del pastore egli era passato al podio del politico.
Alessandro VI lo convocò con un breve benevolo e paterno a Roma; dicendo che voleva ascoltarlo personalmente, e conferire con lui sui metodi da lui propugnati. Se la condotta successiva di Rodrigo Borgia merita di essere detta male avvisata, non è a lui che bisogna farne colpa, ma a fra Girolamo Savonarola, che con incongrui pretesti eluse la convocazione e persistette nelle sue proditorie macchinazioni contro la pace del suo Paese, in sfida alla legge e in spregio ai poteri costituiti.
Da Roma partì un ordine che gli vietava di predicare in pubblico e sottoponeva nuovamente il convento di San Marco al governo della congregazione lombarda. Allora fra Girolamo professò pronta obbedienza al Papa; ma pregò che fosse mantenuta l’indipendenza del suo convento. Man mano il frate tessé intrighi con Ferrara, e guadagnò dalla sua e coltivò molti fiorentini influenti; finché la Signoria fece propria la sua causa e si appellò formalmente a Roma perché fosse annullato il divieto di predicazione.
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Nonostante questo, quel frate incontinente predicò un quaresimale difendendosi, denunciando violentemente Roma, attribuendole come suoi particolari vizi diffusi ovunque. Era in aperta rivolta, non contro la fede cattolica, ma contro le leggi del suo Paese e contro la Regola della Religione di San Domenico a cui volontariamente aveva giurato fedeltà. Per facilitargli le cose, Sua Santità propose di istituire una nuova Congregazione domenicana a cui egli poteva essere disposto a obbedire, sotto il Cardinale Carafa che già aveva dato prove di simpatia per il frate. Ma Girolamo rifiutò, intrattabile, di ascoltare; e bisogna dire che il tono minaccioso e violento con cui egli attaccava i superiori fu un amaro contrasto con la pazienza e la moderazione mostrategli da Alessandro VI, e questo – si noti – nonostante la vergognosa stravaganza e infedeltà del domenicano.
Nel 1497, dopo oltre quattro anni di tolleranza, mentre i partigiani di Savonarola disonoravano la Toscana Città del giglio, il frate venne scomunicato.
Il contegno di Savonarola verso la sentenza di scomunica lanciata contro di lui si dimostrò incorreggibile. Nel giorno di Natale egli cantò tre messe solenni a San Marco e annunciò la ripresa dei suoi frenetici discorsi. La chiave della mala condotta di questo pazzoide sta nella sua fisionomia, di stampo fra umano e animalesco. Il posto adatto per lui non era il convento di san Marco a Firenze, ma l’ospedale di Santo Spirito a Roma, dove erano ricoverati i schizofrenici.
Il 1498 fu inaugurato da una fiera predicazione del frate in difesa della propria disobbedienza al divieto e alla sentenza di scomunica; e assalendo freneticamente il clero romano, contrapposto al toscano.
Da diversi anni fra Savonarola predicava il dovere e l’obbedienza, e non voleva praticarla. Era affatto insensibile alla molta benignità dimostratagli; e aveva risposto elusivo o insolente a tutte le offerte di pace. Egli era dopotutto un uomo soggetto a un’autorità, un’autorità a cui aveva volontariamente votato, e poi rifiutato, sottomissione, pur ammettendo il diritto di tale autorità di pretenderla: una posizione anomala, illogica, scandalosa; la posizione di un pazzo.
Papa Alessandro VI diresse un breve ingiungente di cessare ogni appoggio al frate scomunicato; minacciando Firenze d’interdetto, ma offrendo allo stesso tempo di assolvere il figlio ribelle di San Domenico. Qui fra Girolamo commise il suo peccato finale. Intonò il vieto appello alle potenze europee per la convocazione di un Concilio generale; e raddoppiò i suoi intrighi proditori col cristianissimo Re Carlo VIII, portando al culmine l’esasperazione di Papa Alessandro VI.
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Le cose precipitarono. Sfidando i comandi del suo superiore riconosciuto, il pontefice, e così pure le ingiunzioni della Signoria, il frate cadde in discredito e la sua influenza su Firenze andò svanendo. Il frate, ora circondato da accusatori, replicò domandando la prova del fuoco: offrendosi di camminare in una fornace ardente con uno dei tanti che lo avversavano. Quello dei due che uscisse indenne dalla prova sarebbe stato ritenuto innocente, e sotto la speciale protezione di Dio. Fra Francesco di Puglia, minorita, accettò la sfida. Disse di sapere che entrambi sarebbero morti bruciati; ma era meglio questi anziché permettere che un eresiarca fosse libero di persistere nei suoi tradimenti verso la Chiesa. Girolamo cercò una scappatoia e rifiutò.
La misura era ormai colma: il popolo si sollevò e catturò il frate che nel frattempo aveva cercato rifugio tra le mura di San Marco. Dopo che furono giunti i commissari da Roma, Savonarola fu sottoposto a processo e condannato all’impiccagione, con bruciamento del corpo dopo la morte. All’ultimo momento, per comando espresso del Papa, fu offerta al condannato l’indulgenza plenaria in articulo mortis, con liberazione di tutte le censure canoniche e scomuniche. Fu accettata con gratitudine; e il prigioniero subì la punizione per i suoi delitti.
 
a cura di Luca Fumagalli

venerdì 27 novembre 2015

[DA ASCOLTARE] Opus Dei: luci e OMBRE

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Eccovi in anteprima la registrazione della 356° conferenza
di formazione militante a cura della Comunità Antagonista Padana
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore:
parla Kevin Chan (con la collaborazione di Piergiorgio Seveso)
La conferenza è stata tenuta il 19 novembre 2015
Buon Ascolto!

[DA ASCOLTARE] Benedetto XV: un Papa cattolico integrale

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Eccovi in anteprima la registrazione della 352° conferenza
di formazione militante a cura della Comunità Antagonista Padana
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore:
parla Kevin Chan (con la collaborazione di Piergiorgio Seveso)
La conferenza è stata tenuta il 21 settembre 2015
Buon Ascolto!

Massoneria, P2, Mafia e ‘Ndrangheta: intervista all’ex Gran Maestro Di Bernardo

-di Davide Consonni- (Fonte: http://www.radiospada.org/ )
 
Pubblichiamo questa interessante intervista, apparsa in tre puntate sul Sole24Ore, cui s’è prestato l’ex Gran Maestro Giuliano di Bernardo. I temi affrontati sono molteplici e spesso scottanti, il massone settario, furiosamente anticattolico, Di Bernardo celebre per i colpi di scena istituzionali in seno alle sette non delude nemmeno questa volta. Per inquadrare il soggetto Di Bernardo basti citare un episodio del 1991. Wojtyla, nonostante accogliesse in Vaticano massonerie ebraiche, in un’allocuzione mise in guardia dal diffondersi di centri di potere occulto dediti alla ritualità esoterica, il Di Bernardo che allora era Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, tuonò e lanciò un ultimatum: “Se il Papa non intendeva riferirsi a noi, rettifichi; se invece ce l’aveva con la massoneria, allora si assuma le responsabilità di riaprire una disputa vecchia di 250 anni, ma se pensa che non siamo in grado di regire si sbaglia, noi cominceremo a preparare le nostre armi e i nostri eserciti” [cit. La Stampa, 23 marzo 1991, p.8]
 
Fonti Sole24Ore: 1#  2#  3#
 
Alla fine del 2014, sull’onda di una serie di eventi che hanno chiamato in causa, più o meno propriamente, la massoneria italiana e sulla scia di una serie di indagini della magistratura sul ruolo della stessa in passate o più vicine vicende (dalla Procura di Reggio Calabria a Palermo, da Roma a Catanzaro) ho (senza tante speranze) contattato l’ex Gran Maestro del Goi (Grande Oriente d’Italia, dal ’90 al ‘93) e della Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri, successivamente fino al 2002), Giuliano Di Bernardo. Visto il suo profilo mi incuriosiva conoscere le sue verità e le sue esperienze su alcune vicende che, nel recente passato, hanno attraversato, incrociato o lambito la massoneria. Senza passato è impossibile conoscere il presente.
E’ Di Bernardo, infatti, che, nel giro di pochi mesi, nel 2014 è stato prima chiamato dalla Procura di Reggio Calabria e poi da quella di Palermo, a rispondere alle domande dei magistrati su alcune delicatissime vicende storiche i cui contorni sono ancora nebulosi e senza la cui chiarezza è di fatto impossibile capire quanto sta accadendo oggi in Italia. Di Bernardo, ad esempio, ha attraversato il periodo delle stragi mafiose in Italia e la fase immediatamente precedente e successiva, viste da osservatori privilegiati.
Con mia sorpresa, a seguito di una serie di domande inviate alla sua attenzione (non certo esaustive e di fatto limitate dalla fallibilità di un giornalista lontano anni luce dalla massoneria, come sempre rigorosamente super partes nel momento in cui scrive) pochi giorni fa ho ricevuto le risposte definitive, nel corso delle quali scoprirete anche il suo percorso massonico attuale.
Ne è uscita un’intervista credo interessante, anche se ho l’impressione che alcune cose sono rimaste in punta di risposta (verosimilmente anche per il doveroso e sacrosanto rispetto delle indagini giudiziarie), altre, forse per un riflesso incondizionato, appaiono estremamente generose e assolutorie su un ruolo non sempre condivisibile avuto dalla massoneria in questi anni, in altre ancora ho la sensazione che la diplomazia abbia prevalso sull’opportunità di condividere la conoscenza.
Ho cercato di seguire un filo logico nelle domande ma chiedo venia, fin da ora, se qualche involontaria e inconsapevole deviazione logica c’è stata. L’abbrivio era quasi obbligato: la P2 di Licio Gelli dietro la quale ancora troppi misteri si celano che, a mio modesto avviso, mai saranno chiariti nonostante gli straordinari sforzi di pm che, anche per questo, vengono regolarmente sottoposti al rischio di delegittimazione da quei poteri marci che costituiscono sangue e linfa dei sistemi criminali
Buona lettura con questa prima puntata.
Cosa rappresentava la P2: massoneria o altro?
La P2 è stata una loggia regolare del Grande Oriente d’Italia. I Gran Maestri Salvini e Battelli hanno firmato i tesserini che Gelli rilasciava agli affiliati. Se il Grande Oriente d’Italia è massoneria, allora lo è anche la P2.
E’ vero, come vocifera qualche autorevole personaggio politico, che la cosiddetta “legge Anselmi” fu scritta o suggerita da parlamentari e tecnici massoni che riuscirono così a guidare i propositi dell’inconsapevole onorevole Tina Anselmi? Ed è vero, in caso di risposta affermativa, che il risultato sul campo è quello dell’ inapplicabilità o della difficile applicabilità da parte di pm e giudici?
Non è questa la sede per entrare nel merito della “legge Anselmi”. A me risulta che alla sua formulazione partecipò il professor Paolo Ungari (trovato morto a 66 anni il 6 settembre 1999 per la caduta nella tromba dell’ascensore, avvenuta nel fine settimana precedente, al terzo piano del palazzo in piazza dell’Ara Coeli a Roma in cui aveva sede una delle riviste cui collaborava; la Procura di Roma ha proposto decreto di archiviazione dopo le indagini ma questo non è servito a fugare i sospetti e i dubbi sul decesso, ndr), il quale mi confidò che tale legge tutelerebbe lo Stato dalle trame delle società segrete solo in apparenza, poiché la sua applicazione a casi reali è quasi impossibile. In quegli anni ero Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia e il professor Ungari era molto vicino a me sia come collega universitario sia come massone.
Commentatori, giornalisti, politici e classe dirigente distinguono, doverosamente, tra “massoneria” e “massoneria deviata”. Esiste anche a suo avviso questa differenza e, nel caso di risposta negativa, come giustifica l’esistenza della distinzione, anche atteso il fatto che lei, ancora oggi, è un massone di rilevanza internazionale? Sarebbe, dunque, “deviato” anche lei?
Sulla distinzione tra “massoneria” e “massoneria deviata” esiste la più grande confusione. E’ importante, perciò, definirla. “Deviare”, in tutte le possibili accezioni, significa “allontanarsi da qualcosa (un fine, un principio, una norma)”. Riferita alla massoneria, è deviata quella massoneria che si allontana dal fine da essa dichiarato. Un esempio tipico di massoneria deviata è la loggia P2, poiché, pur essendo una loggia regolare del Grande Oriente d’Italia, ha perseguito fini che si sono allontanati (hanno deviato) dai fini del Goi.  Da ciò segue che è lecito e logico parlare di “loggia deviata” se, e solo se, tale loggia appartiene a una Obbedienza massonica. Al di fuori dell’Obbedienza, non può esistere una loggia deviata. Parlare di una singola loggia come “loggia deviata” è semplicemente insensato.
Per quel che mi riguarda, è vero che mantengo relazioni massoniche internazionali, ma la mia missione è quella di rifondare la massoneria originaria e autentica, al di sopra di tutte le deviazioni storiche ed esoteriche che sono state prodotte in tempi recenti.
Potrebbe chiarire che cosa si intende per massoneria ufficiale?
Definire la “massoneria ufficiale” in Italia è impresa ardua, poiché dipende dal punto di vista che assumiamo. Una convenzione, generalmente condivisa e operante fin dalle origini moderne della massoneria, stabilisce che è regolare e “ufficiale” in un Paese quella, e soltanto quella, che è stata riconosciuta dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. In Italia oggi, l’unica massoneria riconosciuta dall’Inghilterra è la Gran Loggia Regolare d’Italia, da me fondata nel 1993, di cui sono stato Gran Maestro fino al 2002. Da ciò segue che tutte le altre massonerie, inclusa il Grande Oriente d’Italia, non sono regolari. Con questo punto di vista, che privilegia il riconoscimento inglese, solo la Gran Loggia Regolare d’Italia è “ufficiale”. Tutte le altre non lo sono. Preciso che l’Inghilterra, sulla base delle sue Costituzioni, può riconoscere, in Italia e negli altri paesi del mondo, una sola massoneria.
Il Goi è riconosciuto, tuttavia, dalle Gran Logge statunitensi, che non riconoscono la Gran Loggia Regolare d’Italia. Possiamo dire che anche il Goi è massoneria “ufficiale”? E cosa dire delle altre massonerie che non sono riconosciute né dall’Inghilterra né dagli Stati Uniti d’America? Sono anche loro massonerie ufficiali? Poiché ogni Obbedienza cerca di privilegiare il criterio che l’avvantaggia, la confusione regna sovrana.
Il 3 novembre il gup di Roma, Paola Della Monica ha rinviato a giudizio il senatore di Forza Italia Denis Verdini nell’ambito della cosiddetta P3, una presunta associazione segreta caratterizzata, come hanno scritto i pm, “dalla segretezza degli scopi, dell’attività e della composizione del sodalizio e volta a condizionare il funzionamento di organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nonché apparati della pubblica amministrazione dello Stato e degli enti locali”. Insieme a Verdini è stato rinviato a giudizio anche l’ex sottosegretario all’Economia dell’ultimo governo Berlusconi, Nicola Cosentino.
E’ ridicolo parlare di P3, P4 e via di questo passo, sono insomma invenzioni giornalistiche, oppure è ancora legittimo e reale il rischio (o la concretezza) di associazioni segrete che condizionino lo Stato? E quanto è concreto e reale il rischio?
Ho presentato la P2 come esempio tipico di loggia deviata. Una caratteristica essenziale che la distingue è la sua appartenenza al Grande Oriente d’Italia. Quando si parla di P3 e di P4, è necessario confrontarle con la P2 e chiedersi a quale obbedienza esse appartengono. Se non si può connetterle a Obbedienze massoniche, queste lobby non hanno proprio nulla a che fare con la massoneria. Sono semplicemente un’invenzione giornalistica, accattivante ma insensata. Anche se i membri di tali presunte logge si riunissero in un tempio, indossassero grembiuli e recitassero rituali, la loro estraneità alla massoneria sarebbe ancora più evidente. L’abito non fa il monaco.
Che queste lobby rappresentino un rischio e un pericolo concreto per lo Stato è chiaro ed evidente, a prescindere dalla loro collocazione, dentro o fuori la massoneria.
LE OBBEDIENZE
Può raccontare perché decise di lasciare (o lasciò) il vertice del Goi?
La risposta presuppone alcune premesse. Io sono stato il primo e forse l’ultimo Gran Maestro filosofo. Coloro che mi hanno preceduto e seguito avevano altri interessi. Per me la massoneria significa condividere una concezione dell’uomo e della vita, come avevo scritto nel mio volume Filosofia della massoneria. Dalla mia iniziazione avvenuta nel 1961, non ho mai cercato cariche e privilegi. Dopo la mia elezione a Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia nel 1990, ho cercato di realizzare quel modello di massoneria in cui credevo. Ero al vertice della più potente massoneria italiana, ma ne ignoravo l’organizzazione e la qualità degli uomini. Convinto che il Goi dovesse essere portato fuori dalle nebbie del passato, diedi inizio all’operazione “trasparenza”, che subito mi portò le prime delusioni. Molti dei massoni alla mia obbedienza non capivano la necessità del cambiamento e restavano ancorati a ciò che credevano fossero antichi privilegi.
Il confronto con la massoneria inglese, da me sempre ritenuta la più alta espressione della regolarità massonica, mi faceva avvertire l’arretratezza del Goi, almeno per quanto riguarda l’esoterismo e il fondamento iniziatico. La mia delusione cresceva a mano a mano che ne diventavo sempre più consapevole.
Quando ebbe inizio l’indagine contro la massoneria del procuratore Agostino Cordova nel 1992, mi resi definitivamente conto che la massoneria che governavo era in gran parte estranea all’idea che di massoneria mi ero fatto nel corso della mia vita.
Incontrai i vertici della massoneria inglese, espressi loro le mie preoccupazioni e chiesi che cosa avrei dovuto fare. La risposta fu semplice: dimettiti dal Grande Oriente d’Italia e fonda una nuova massoneria, che noi riconosceremo. Così è stato. Il resto è storia.
Se io mi fossi semplicemente dimesso, la maggioranza dei massoni del Goi avrebbe salutato la mia uscita con un sospiro di sollievo. Ma non fu così perché le mie intenzioni non erano quelle di tornare a insegnare Filosofia della scienza nell’università di Trento. In realtà, io volevo introdurre in Italia, per la prima volta, il modello della massoneria inglese. Per fare questo avrei dovuto difendermi dal Goi che non voleva perdere il riconoscimento inglese. Preciso che la Gran Loggia Unita d’Inghilterra non può riconoscere, nello stesso paese, due o più massonerie. Quindi, doveva scegliere tra il Goi e la Glri. Anche questa è storia: l’8 agosto del 1993 la Gran Loggia Unita d’Inghilterra ritira il riconoscimento al Goi e lo dà, l’8 dicembre dello stesso anno, alla Gran Loggia Regolare d’Italia, la massoneria che avevo appena fondato.
Il Grande Oriente d’Italia così perdeva il tanto agognato riconoscimento inglese, che aveva ottenuto nel 1972, 110 anni dopo che il Gran Maestro Costantino Nigra ne aveva fatto richiesta.
Questa è la sorgente dell’odio che si scatenò contro di me e che ancora perdura.
Oltre e indipendentemente dalla sua risposta sul punto: alcuni commentatori del blog nel recente passato hanno fatto riferimento a risvolti poco chiari sulla sua uscita dal Goi. Quali furono (se ci furono) questi risvolti poco chiari sulla sua uscita dal Goi secondo la sua ricostruzione dei fatti? Ci furono anche strascichi giudiziari per la sua uscita?
Ero diventato il “traditore” che doveva essere abbattuto con tutti i mezzi, legali e diffamatori.
Sul piano legale fui querelato per diffamazione da Augusto De Megni, Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico e Accettato, e da Licio Gelli. Fui assolto, in entrambi i casi, perché il fatto non sussisteva.
Le diffamazioni, che tendevano a offuscare la mia onorabilità, furono di vario genere: dall’accusa di essere un emissario dell’Opus Dei all’espulsione dall’università di Trento per condotta indegna, al ripudio da parte di mia moglie per infedeltà. Nessuna accusa per traffici vari e tangenti perché non sarebbero stati credibili. Solo il Goi dichiarò che avevo ricevuto dal suo Tesoriere una somma non dovuta. Il mio commercialista dimostrò che avrei dovuto ancora avere dal Goi sette milioni di lire. Li sto ancora aspettando.
Ancora oggi capita che qualcuno, per sentito dire, mi rivolge accuse infamanti. A costoro io chiedo di accusarmi formalmente e alla luce del sole, così tutti potranno capire la verità.
In che rapporti è, oggi, con il Goi e con le altre obbedienze massoniche?
Con il Grande Oriente d’Italia, dalle mie dimissioni a oggi, non esistono rapporti di alcun tipo. Restano i rapporti personali con quei fratelli che avevano compreso la necessità e l’urgenza della mia riforma della massoneria italiana. Continuano ancora a sognarla.
Quanti sono i massoni oggi in Italia delle varie comunioni?
Le voci meglio informate dicono che i massoni italiani sono circa 100.000. Per fare che cosa? La massoneria è entrata in crisi quando, da comunione elitaria, si è trasformata in società di massa. Se in Italia vi fossero 300 massoni, espressione delle élite lungimiranti e carismatiche, con il loro indubitabile sostegno alle istituzioni dello Stato, la vita sociale, economica e culturale degli italiani sarebbe migliore.
RISORSE FINANZIARIE E DIGNITY
Con quali risorse nacque il Goi e grazie a quali risorse, che risulterebbero essere ingentissime se non altro alla luce delle proiezioni persino extraparlamentari che  sembrerebbero aver pervaso alcuni affiliati in determinati periodi storici, vivono e prosperano oggi le logge massoniche? Chi, parlando in altri termini, ha messo i soldi per far diventare così grande il Goi e chi continua a metterli nelle obbedienze?
Se riferita al Goi, la domanda prende in considerazione un periodo di tempo di circa 150 anni (dalle origini ai nostri giorni). Fino all’avvento del Fascismo, il Goi ha controllato la vita italiana in tutti i suoi più importanti aspetti. Il problema di chi finanziasse non aveva alcun senso, poiché esso poteva avere tutto da tutti.
Durante il Fascismo (dalle leggi contro le società segrete del 1925 alla sua caduta) il Gran Maestro Domizio Torregiani ha vissuto in esilio e l’attività delle logge è stata quasi inesistente.
Dopo la seconda guerra mondiale, l’intervento degli Stati Uniti d’America è stato determinante per la rinascita della massoneria in Italia. La maggior parte dei finanziamenti proveniva proprio da loro.
Con la frantumazione della massoneria in diverse Obbedienze, iniziano percorsi e finanziamenti particolari, nonostante la volontà degli americani di riunire tutte le obbedienze in una sola massoneria.
Per quanto riguarda la mia esperienza di Gran Maestro del Goi, dal 1990 al 1993, i finanziamenti provenivano dalle capitazioni (quote annuali) e da contributi straordinari di fratelli benestanti.
Se il Goi è diventato grande, le ragioni vanno ricercate nel suo ruolo politico ed economico nella società italiana. Le risorse e i finanziamenti hanno certamente influito ma non in maniera determinante. Dalle mie dimissioni del 1993 a oggi, non ho conoscenza di come avvenga il recupero delle risorse finanziarie, né nel Grande Oriente d’Italia né nella Gran Loggia Regolare d’Italia.
Cosa è il Dignity Order il cui vertice Lei presiede? Un enigma, un mistero, una certezza massonica? Cosa è e quanto potente è la sua influenza? Quali sono le risorse con le quali esercita la sua missione e quanti e chi sono, se è lecito sapere, gli iscritti?
Nel 2002 avviene il mio ritiro definitivo dalla massoneria. Alla base di tale decisione vi è la convinzione che la massoneria, faro luminoso dell’Occidente, stia perdendo irrimediabilmente la forza propulsiva che ha fatto di essa una guida saggia dell’umanità.
Non perché i suoi principi e il fondamento iniziatico che li sorregge abbiano perso la loro rilevanza, quanto, piuttosto, per l’incapacità dei massoni a interpretarli nel senso autentico. La stessa massoneria inglese, madre di tutte le massonerie regolari del mondo, mostrava segni di una profonda crisi che preannunciava scismi e conflitti.
Abbandonavo quella massoneria, cui ero stato iniziato nel lontano 1961 e che era stata una guida sicura della mia vita, per fondare l’Accademia Internazionale degli Illuminati. Il mio scopo era quello di riformare la massoneria, ritornando alle sue origini settecentesche, governata dalle élite pensanti. L’Accademia degli Illuminati si ispira, infatti, alla Royal Society inglese.
L’Accademia ha successo e si diffonde anche all’estero. Intanto comincia a intravedersi una crisi mondiale non solo economica e finanziaria ma anche morale. La società reale accusa i primi colpi di questa crisi, che si annuncia lunga e dolorosa. Gli Illuminati non bastano più. E’ arrivato il tempo degli Operativi, profondi conoscitori dei livelli concreti  della società. Dal connubio tra Illuminati speculativi e Illuminati operativi, si gettano le fondamenta di un nuovo Tempio dell’umanità, per affrontare le nuove sfide che già si preannunciano all’orizzonte.
Nasce così nel 2011 “Dignity. Ordine per la difesa della dignità dell’uomo”. Le principali differenze tra Dignity e la massoneria sono le seguenti.
1.   Dignity è composta da élite, la massoneria da masse.
2.   Dignity ammette le donne, la massoneria le esclude.
3.   Dignity è internazionale, la massoneria è nazionale. La sede internazionale di Dignity è a Vienna, dove si riunisce il Consiglio del Gran Maestro. Dignity nasce in Italia e si diffonde anche all’estero.
4.   Il Rituale di Dignity si ispira alla filosofia, i Rituali della massoneria si ispirano alla religione (Emulation inglese) o a fatti storici (il Goi).
5.   Dignity e la massoneria hanno in comune il riferimento alla Tradizione esoterica dell’umanità, che inizia nel VI secolo a.C. in Grecia con i Misteri orfici. Ne fanno anche parte la Confraternita dei Rosacroce e l’Ordine degli Illuminati.
L’Ordine Dignity nasce e si sviluppa nella più completa trasparenza. Le Associazioni che la governano sono state legalmente costituite e registrate secondo le leggi dei Paesi che le ospitano (Italia e Austria). Essa è, quindi, una certezza esoterica.
Le risorse con cui esercita la sua missione sono le quote annuali (ordinarie e straordinarie) e le donazioni.
Gli adepti in Italia sono circa cento.
Le riunioni dell’Ordine, denominate “Conventi” (locali, nazionali, internazionali), si svolgono in luoghi non riservati: il Convento internazionale di Primavera-Estate si è svolto all’Hotel Miramonti di Cortina d’Ampezzo, mentre il Convento internazionale d’Autunno ha avuto luogo all’Hotel Royal di San Remo. Ospiti e autorità sono stati invitati alla cena di gala. Nessuno si è nascosto. Tutti hanno mostrato i simboli dell’Ordine.
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Collaboratori di giustizia (cito per tutti il calabro-milanese Antonino Belnome) e uomini di  ‘ndrangheta (cito tra tutti Pantaleone Mancuso) hanno detto o fatto riferimento al fatto che oltre la ‘ndrangheta c’è la massoneria. Come interpreta queste affermazioni? Cosa vogliono dire? Anche alla luce del fatto che già nell’indagine “Sistemi criminali” del ’98 dell’allora pm Roberto Scarpinato, risultava, da dichiarazioni di pentiti, che la massoneria calabrese era la più potente del Sud e tra le più potenti d’Italia.
Direi che ‘ndrangheta e massoneria si trovano a condividere una rappresentazione verticistica del potere, con modalità esoteriche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta o l’iniziazione alla massoneria segue un rituale che, oltre le specificità storiche e contingenti, ha molte analogie. L’affiliato alla ‘ndrangheta è perciò predisposto a essere massone. Questo spiega, al di sopra degli interessi materiali, l’enorme affluenza nelle logge calabresi. Con questo non voglio dire che essi siano affiliati della ‘ndrangheta, ma che esiste la possibilità teorica che lo siano.
Il maggior potere della massoneria calabrese, rispetto alle altre regioni d’Italia, mi sembra un dato acquisito che potrei confermare.
Recentemente la loggia Rocco Verduci di Gerace (Reggio Calabria) è stata dapprima “sospesa” per rischio di infiltrazioni della ‘ndrangheta e poi riammessa dallo stesso Goi nel mese di giugno. Partendo da questo dato puramente di cronaca, a suo giudizio quanto, come e perché sono infiltrate le logge massoniche (indipendentemente dall’obbedienza o comunione alla quale appartengono), della Calabria, della Sicilia, della Campania e, in genere del Sud?
Delle vicende della loggia Rocco Verduci di Gerace so quello che hanno scritto i giornali. Non avendo una conoscenza diretta e personale non esprimo alcun giudizio.
Sull’infiltrazione nelle logge massoniche, non dovrebbe ormai esistere alcun dubbio, anche se, nel concreto, è molto difficile documentarne il “peso”.
Esiste una differenza  – da questo punto di vista – tra rischio di una permeabilità criminale al Nord, al Centro e al Sud?
Agli inizi degli anni ’90, tale permeabilità esisteva anche se sporadica e limitata. L’inchiesta del dott. Agostino Cordova, procuratore di Palmi, ha avuto inizio con la constatazione che, in molti reati avvenuti in Calabria, erano coinvolti massoni di diverse Obbedienze. A quel tempo, ero Gran Maestro del Goi. Nel 1992, ricevetti a Villa Medici del Vascello, sede nazionale del Goi, la richiesta formale e ufficiale, da parte della Procura di Palmi, di consegnare l’elenco dei massoni calabresi. Essendo impossibile non adempiere la richiesta del magistrato, autorizzai la consegna dell’elenco, sperando che tutto finisse lì.
Ma non fu così. Dopo breve tempo, ricevetti un’altra richiesta che riguardava però la consegna dell’elenco di tutti i massoni italiani del GOI, con la motivazione che si voleva verificare le relazioni dei massoni calabresi con i massoni di altre ragioni. Il dott. Cordova sospettava che la massoneria fosse il tramite per favorire attività vietate dalla legge in tutte le regioni italiane. Compresi allora che si stava mettendo sotto inchiesta il Goi e le altre Obbedienze massoniche.
Poiché la richiesta non era supportata da un mandato formale, mi rifiutai di consegnare gli elenchi. Come reazione, la Procura di Palmi suggellò il computer e vi mise un agente di guardia, in attesa di procurarsi il mandato per il sequestro. Si parlò dell’”imbavagliamento del computer”.
Con un mandato formale di sequestro, null’altro avrei potuto fare per impedirlo. La Procura acquisì gli elenchi e iniziò una farsa all’italiana che si concluse alcuni anni dopo con l’archiviazione dell’inchiesta per decorrenza dei tempi.
L’infiltrazione è continuata in quasi tutte le regioni d’Italia. Da quel che dicono i mezzi di comunicazione di massa, sembra che essa abbia raggiunto i vertici delle istituzioni dello Stato. La permeabilità oggi non è un rischio ma una realtà.
In Calabria, un procedimento penale in corso, che corre parallelamente anche a Milano (cosiddetta indagine Breakfast) ipotizza una superloggia calabrese segreta, con forti addentellamenti e radici oltrefrontiera, in grado di condizionare la vita amministrativa, organi dello Stato, economia e finanza, in strettissimo legame con la potente cosca De Stefano. E’ uno scenario possibile a suo giudizio?
Da quanto ho detto in precedenza, lo scenario è possibile.
Può raccontare, di conseguenza, cosa accadde e quali conseguenze ebbe sul Goi e sulla sua personale vita massonica il viaggio nel Regno Unito a confronto con i vertici della massoneria, a partire dal Duca di Kent, massima autorità massonica, per segnalargli il rischio di ingerenze criminali legate a mafia e ‘ndrangheta? Un incontro, se non erro, che portò quest’ultimo a revocare il riconoscimento al Grande Oriente d’Italia?
L’inchiesta della Procura di Palmi aveva dato l’avvio a una serie di eventi che mi convinsero a ritenere conclusa la mia esperienza massonica nel Goi. Fu una decisione sofferta dopo 42 anni di appartenenza. Il dado era tratto. Chiesi un incontro con i vertici della massoneria inglese ed esposi la situazione così come l’avevo conosciuta. Chiesi loro cosa avrei dovuto fare. Mi risposero che erano già a conoscenza di quanto contenuto nel mio rapporto (alla Gran Loggia Unita d’Inghilterra non mancano le fonti d’informazioni) e mi fecero intendere la possibile soluzione: dimettermi dal Goi, fondare una nuova Gran Loggia che avrebbe avuto il loro riconoscimento, dopo averlo ritirato al Goi.
Tutto si compì in otto mesi: le mie dimissioni formali dal Goi (15 aprile 1993), la fondazione della Gran Loggia Regolare d’Italia (16 aprile 1993), il ritiro del riconoscimento al Goi (8 agosto 1993), il riconoscimento della Gran Loggia Regolare d’Italia (8 dicembre 1993).
Ancora oggi la Gran Loggia Regolare d’Italia, di cui sono stato Fondatore e Gran Maestro fino al 2002, detiene il riconoscimento della Gran Loggia Unita d’Inghilterra.
Il Grande Oriente d’Italia, che l’aveva perso nel 1993, non l’ha più riavuto.
COSA NOSTRA
Veniamo all’indagine, che corre parallela a quella di Reggio Calabria, di Palermo, nella quale, nel processo sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra i pm sono tornati a rievocare il ruolo della massoneria deviata, della stessa P2, in quel vero o presunto disegno che voleva portare a un nuovo ordine politico, compresa l’eventuale secessione o frammentazione dell’Italia in macroregioni: cosa sa di quanto avvenne in quel periodo ad opera della massoneria deviata in quel progetto folle e allo stesso tempo ambizioso?
I magistrati che indagano sulla trattativa fra Stato e Cosa nostra hanno deciso di riascoltarmi poiché ritengono che oggi in Italia si stia ripresentando la stessa situazione del ’92, che io ho vissuto in prima linea. Chiedendomi di spiegare ulteriormente quegli eventi, essi pensano, per analogia, di comprendere meglio ciò che sta accadendo ai nostri giorni.
Io condivido questa loro impostazione dell’indagine. Sulla base delle mie esperienze personali e delle conseguenze che traggo induttivamente dagli eventi, ritengo che oggi la situazione sia più grave di allora, poiché le deviazioni che in quel tempo esistevano non sono state corrette, sia in massoneria sia nelle istituzioni statali.
Per quanto riguarda il presunto progetto della P2 per creare un nuovo ordine politico in Italia, vorrei dire quel che penso.
Nella P2, contrariamente a quel che generalmente si pensa, non vi è stato il progetto di dare un nuovo assetto allo Stato italiano, semplicemente perché non rientrava nei suoi interessi fondamentali. Gelli, tuttavia, si era impegnato con il governo statunitense a fare tutto il possibile per impedire che in Italia si realizzasse il sorpasso dei comunisti. Per raggiungere questo scopo, esso aveva dato a Gelli aiuti di ogni tipo, che lo avevano trasformato in un uomo con un potere così grande che nessun altro aveva mai avuto prima. Si aspettavano da lui un progetto, da attuare in tempi brevi, che li facesse dormire con sogni tranquilli. Pressato dai vertici del governo statunitense, Gelli ha improvvisato quel progetto di cui ancora si parla ma sempre più a sproposito. Quando non si riesce a comprendere le ragioni che guidano il mondo in cui si vive, si scambiano di sovente le lucciole per lanterne: così Gelli appare come il Grande vecchio, che tutto vede e tutto comanda. Se si avesse la volontà e la pazienza di entrare dentro questi eventi per conoscerli nella loro realtà, si vedrebbe che essi poggiano sulla palude o sul nulla.
A quanto le risulta c’è il rischio concreto che si riproponga quella oscura stagione con la presenza, ancora una volta di ambienti deviati della massoneria?
Il rischio c’è ed è grande, ma non solo per l’intervento della massoneria deviata (da intendere però nel senso che ho già spiegato).
C’è il rischio concreto che la vita di pm e giudici, da Palermo a Caltanissetta, da Catania a Reggio Calabria (solo per citare alcune procure che stanno lavorando sulla stagione delle strage mafiose) sia legata alle decisioni prese da sistemi criminali nei quali le cosche e i clan di mafia sono una quota parte e il resto è composto da pezzi infedeli dello Stato e pezzi deviati della massoneria?
Il rischio che corrono i difensori della legalità dello Stato è grande, non soltanto per le decisioni prese da clan della mafia (il significato di questo termine esce sempre più dal contesto storico e tradizionale per diventare uno “stile di vita”, che ispira i balordi che stanno occupando i luoghi del potere delle nostre città), dalla massoneria deviata (nel senso da me specificato), da rappresentanti infedeli dello Stato. Ma anche per il manifestarsi di un fenomeno sociale nuovo, spesso sottovalutato ma gravido di tremende conseguenze.
Lo scenario “classico” della criminalità è stato messo in crisi da una dilagante “anarchia” che si manifesta in tutti i livelli della società italiana. Ne sono coinvolti non solo gli operatori del denaro ma anche i rappresentanti della cultura. Se ci chiediamo dove sta andando il nostro paese, la risposta non può che essere una e soltanto una: verso l’anarchia. Le regole e le leggi che governano la società italiana vengono sempre più disattese. Si sta scivolando, lentamente ma inarrestabilmente, verso lo stato sociale di guerra di tutti contro tutti, descritto dal filosofo Thomas Hobbes nel suo Leviatano.
E’ proprio questa dilagante anarchia che fa emergere e dà potere a un livello di criminalità “anonima” che sta devastando la nostra società. Essa sfugge a qualsiasi definizione poiché non ha né regole né un’organizzazione gerarchica del potere. E’ come una nebbia che sale verso l’alto e offusca tutto. Se lo Stato non interverrà per reprimere questa nascente anarchia, rischiamo di vivere in una società senza quei valori che hanno consentito la nascita e lo sviluppo delle civiltà millenarie. Paradossalmente, in quel tempo sempre più prossimo, le organizzazioni criminali che oggi ci preoccupano (mafia, ‘ndrangheta, camorra, massoneria deviata ecc.) potrebbero apparire come aspetti negativi di un sistema sociale tutto sommato vivibile. E forse ne avremo nostalgia.
Eppure non mancano, nel nostro Paese, autorevoli personalità che preconizzano l’avvento del tiranno. Se avessero letto Aristotele e analizzato il percorso storico dell’umanità, avrebbero compreso che il tiranno (leviatano) interviene nella società quando lo stato di anarchia è al massimo della sua potenza distruttiva, per riportare l’ordine con tutti i mezzi possibili.
Quanto è alto il rischio di inquinamento delle prove  e di delegittimazione di quanti (pm, giudici, associazioni, giornalisti) sono alla ricerca della verità senza guardare in faccia nessuno?
Coloro che ricercano la verità, anche mettendo a rischio la propria vita, sono stati da sempre considerati idealisti da non prendere in considerazione o persone pericolose da tenere sotto controllo o da eliminare. Nel tempo in cui viviamo, la seconda possibilità è quella più probabile. Se non vi fosse il loro impegno, la nebbia dell’anarchia sarebbe ancora più impenetrabile. Il loro impegno, tuttavia, dovrebbe essere sorretto dalle istituzioni statali per renderlo più sicuro ed efficace.
Non sarà che quel “Patto del Nazareno”che secondo il mio ex direttore Ferruccio de Bortoli, puzza di massoneria stantia, è un atto (mi dica eventualmente Lei quale) di una lunga guerra tra obbedienze massoniche per assumere (o dividersi) quel (poco) potere rimasto oggi in Italia?
La massoneria non ha nulla a che fare con il Patto del Nazareno, che è semplicemente un accordo per far sopravvivere un sistema politico ormai in decomposizione. Come italiano non posso che sperare nel successo di colui che oggi guida il paese. Come conoscitore delle arcane cose, vedo le trappole in cui cercheranno di farlo cadere.
Una domanda finale: ma se la Massoneria è Fratellanza Universale, perché siete così divisi, parcellizzati e, spesso e volentieri, l’un contro l’altro armati?
La massoneria non è più oggi una Fratellanza Universale. Lo è stata quando in Inghilterra c’era solo la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, in Francia solo Le Grand Orient de France, in Italia solo Il Grande Oriente d’Italia. Oggi, in tutti i Paesi ove esiste la massoneria, sono numerose le Obbedienze massoniche. In Italia, si pensa che siano più di ottanta. Continuano a nascere come funghi in un’estate piovosa. In Romania, nel 1993, ho fondato la Gran Loggia Nazionale di Romania: dopo venti anni, le Obbedienze massoniche sono più di dieci, senza contare un numero imprecisato di Riti e Ordini.
Tutte queste massonerie si combattono senza esclusione di colpi (legali e non). Al riguardo, è stata coniata la frase, per intendere i massoni: “Fratelli coltelli”.

mercoledì 25 novembre 2015

Il sistema monetario, il costo della vita, la tassazione, la spesa pubblica nel Regno delle Due Sicilie

(Tratto da: http://www.eleaml.org/)
 
Piastra in argento del 1818
con l'effige di Ferdinando I delle Due Sicilie. 
 
Il 20 aprile del 1818 Ferdinando I emanò una direttiva che uniformava il sistema monetario della parte continentale ed insulare del regno delle Due Sicilie; l’unità di riferimento teorico della moneta duosiciliana, la più solida d’Italia, era il ducato, presente in circolazione come conio di 10 carlini, un carlino equivaleva a sua volta a 10 grana, per cui il grano era un centesimo del ducato; gli “spiccioli” erano rappresentati dal tornese (2 tornesi equivalevano a un grano) e infine dal cavallo (6 cavalli equivalevano ad un tornese) o in Sicilia per l'appunto il picciolo; caddero in disuso l’oncia ed il tarì siciliano. [27]
Usando apposite tabelle di conversione che valutano il potere di acquisto (1 lira del 1861 equivalente a 7.302,1732 lire del 2001), considerato che un ducato corrispondeva a 4 lire e 25 centesimi piemontesi
possiamo stabilire che il valore del ducato, rapportato ai giorni nostri, era di circa 16 € per cui un grano (che ne era il centesimo) valeva 0.16 €.
Le monete erano coniate in oro, argento e rame; esistevano tagli da 3, 6, 15, 30 ducati e multipli del grano e del tornese; i maestri incisori della Regia Zecca a S. Agostino Maggiore erano così rinomati in Europa, per la bellezza delle realizzazioni, che i saggi di conio dell’istituto d’emissione inglese erano spesso inviati a Napoli per un parere tecnico; tutto il sistema nel suo complesso era garantito in oro nel rapporto uno ad uno, la lira piemontese invece era garantita nel rapporto tre ad uno (ogni tre lire erano garantite da una sola lira oro).
La storia numismatica delle Due Sicilie risaliva a 2500 anni prima con le zecche della Magna Grecia, quando in molte parti d’Italia e del mondo era in uso il baratto in natura; ci pensò Garibaldi con il decreto del 17 agosto 1860 a sopprimere il plurimillenario sistema monetario siciliano e successivamente il governo unitario mise fuori corso il ducato con la legge del 24 agosto 1862 .
Le banche (“i banchi”) nel 1700 erano sette (S.Giacomo, del Salvatore, S.Eligio, del Popolo, dello Spirito Santo, della Pietà e dei Poveri) e le loro condizioni si mantennero floridissime fino alla fine del secolo; nel 1803 ci fu il primo accorpamento che fu completato il 12 dicembre del 1816 con la creazione del “Banco delle Due Sicilie” che successivamente si chiamò “Banco di Napoli” nella parte continentale del regno e “Banco di Sicilia” nell’isola; in questi istituti si aprivano conti correnti e si concedevano prestiti a mutuo o su pegni come negli antichi banchi.[28]
Il costo della vita era basso rispetto agli altri stati preunitari e lo si può dimostrare paragonando i salari, che pure non erano certo elevati, con il costo dei generi di prima necessità.
La giornata di lavoro di un contadino era pagata 15-20 grana, quella degli operai generici dai 20 ai 40 grana, 55 per quelli specializzati; 80 grana spettavano ai maestri d’opera; a tali retribuzioni veniva aggiunto un soprassoldo giornaliero di 10-15 grana per il vitto; un impiegato statale percepiva 15 ducati al mese, un tenente di fanteria 23 ducati, un colonnello di fanteria 105 ducati. [29]
Di contro, un rotolo di pane (890 grammi)[30] costava 6 grana , un equivalente di maccheroni 8 grana, di carne bovina 16 grana; un litro di vino 3 grana, tre pizze 2 grana.
Il livello impositivo era il più mite di tutti gli Stati Italiani; per quanto riguarda la contribuzione diretta era in pratica basato solo sull’imposta fondiaria .
 
Tav.1 – Il prelievo fiscale diretto nelle Due Sicilie[31]
 

Imposta fondiaria
Ducati
6.150.000
Addizionali per il debito pubblico
Ducati
615.000
Addizionali per le Province
Ducati
307.500
Esazione
Ducati
282.900
Totale
Ducati
7.355.400
 
Le tasse indirette erano solo quattro.
 
Tav.2 – Gli strumenti fiscali indiretti nelle Due Sicilie [32]
 

Dazi (dogane e monopoli).
Imposta del Registro e bollo.
Tassa postale.
Imposta sulla Lotteria.
 
Sulla tomba di Tanucci, ministro delle finanze per 40 anni, troviamo scritto che non impose nuovi balzelli[33], viceversa nel periodo 1848-1860 il governo piemontese impone ben 22 nuovi tributi. [34]
Le entrate dello Stato erano percentualmente divise in queste proporzioni: ” la fondiaria partecipava per il 30% del totale complessivo; i dazi per il 40%; del rimanente 30% , il 12 era assicurato dalla Sicilia come contributo alle spese generali dello Stato ed il 18% era diviso tra 17 altri capitoli, che concorrevano con percentuali irrisorie, se si escludono le ritenute fiscali le quali, da sole, partecipavano con il 3.2%”.[35]
 “Il bilancio del regno delle Due Sicilie nasce storicamente con un debito pubblico di 20 milioni di ducati ereditato dal governo francese di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat, un peso notevole che era pari ad oltre un’annata di entrate fiscali; l’Austria impose di estinguerlo a breve distanza e le scadenze furono previste sino al 1819; per fare ciò il governo dovette ricorrere al prestito ma non si trovarono banche internazionali disponibili, per cui, ad accollarsi il compito, fu la debole struttura napoletana del credito che, come in molti altri paesi, era frammista a quella mercantile.
Sfortunatamente il costo del denaro nel Mezzogiorno oscillava dal 20 al 30% (a Parigi era del 6%) per cui per avere un prestito 1.000.000 di ducati invece di essercene 60mila di interessi, si arrivava almeno a 200.000.
Per pagarli lo Stato pensò di aumentare le entrate ma questo non fu possibile perchè gli agricoltori erano già oberati dall’imposta fondiaria e l’industria, appena nascente, non poteva sopportare un carico fiscale; a questo bisogna aggiungere la necessità, per permettere alla classe mercantile-bancaria di finanziare il debito pubblico, di confermare l’abolizione dell’imposta personale, già eliminata da Murat; furono anche soppresse le patenti per i professionisti in modo da incentivare il loro contributo al finanziamento del debito pubblico tramite l’acquisto dei titoli di stato (una specie di BOT); da allora queste categorie non furono più colpite dal fisco e la borghesia mercantile meridionale cominciò così la sua ascesa economica.
Impossibilitato, quindi, ad aumentare le entrate, il governo decise, per incrementare i mezzi finanziari, di razionalizzare la spesa pubblica: l’ 85 % di essa fu dirottata sui ministeri delle Finanze, della Guerra (l’odierno ministero della Difesa) e della Marina, dovendo questi provvedere agli stipendi degli impiegati, al debito pubblico e alle forze armate, tre tipi di spese ritenute inderogabili; agli altri ministeri rimase solo il 15%, a quello dei Lavori Pubblici andava un pò più del 5% del totale delle uscite.
Nel 1820 il regno era ormai sull’orlo della bancarotta col debito pubblico salito a 30 milioni di ducati, un colpo quasi mortale fu il costo del mantenimento dell’esercito austriaco venuto a reprimere la svolta costituzionale di quell’anno; esso rimase nelle Due Sicilie fino al 1827 gravando il bilancio per l’astronomica cifra di 50 milioni di ducati e portando il debito a 80 nel 1825 e poi 110 milioni nel 1827.
A correre in soccorso del regno arrivarono gli omnipresenti banchieri Rothschild che permisero allo stato di riprendere fiato ma la mancata estensione della base dei contribuenti impedì che si potesse diminuire il debito pubblico; solo una accuratissima politica di gestione delle spese impedì che questo salisse ancora per cui, nel 1860, era agli stessi livelli del 1827: 110 milioni di ducati.” [36].
 
Note:
 
[27] l'Oncia, circolante in coni da 1 e da 2, e valeva 3 Ducati. Era suddivisa in 30 Tarì, ovvero in 300 Baiocchi. Il Grano (pari a mezzo Baiocco, o a 6 Piccioli) valeva quindi 2 Grana napoletani.
[28] Michele Vocino, “Primati del regno di Napoli”, Mele editore
[29] Boeri, Crociati, Fiorentino; “ L’esercito borbonico dal 1830 al 1861 “, Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 1998
[30] l’unità di peso era il cantaro o cantaio ed equivaleva a 89,100 chili; il rotolo era la centesima parte del cantaro.
[31] Decreto del 10 agosto 1815.
[32] Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860 - Giacomo Savarese - Cardamone - 1862.
[33] Vincenzo Gulì, “Il saccheggio del Sud”, Campania Bella editore
[34] ibidem
[35] Nicola Ostuni, Napoli Comune Napoli Capitale, Liguori ,1999, pag.178
[36] Nicola Ostuni, Napoli Comune Napoli Capitale, Liguori, 1999, in prefazione e conclusione, modif..