lunedì 30 novembre 2015

La mala condotta di un pazzoide: Savonarola raccontato da Baron Corvo

 
Tra le pagine delle “Cronache di casa Borgia” (1901), Frederick Rolfe, in arte Baron Corvo, traccia con abile maestria ed erudizione la triste storia di fra Girolamo Savonarola. Nell’affrontare la parabola umana e politica del celebre domenicano che osò ribellarsi al Papa, lo scrittore inglese accantona il freddo dato storico per lasciare spazio a una descrizione vivace e frizzante, mossa principalmente dall’amore per la verità cattolica.
Lievi e non sostanziali modifiche sono state apportate al testo originale con la scopo di cucire in un articolo omogeneo diversi brani che, nella più recente edizione italiana delle “Cronache”, risultano sparsi su diverse pagine (cfr. Castelvecchi, 2014, pp.117-142).
 
Nel 1493 Firenze, capitale di Toscana e di vecchia data amica della Francia, era in una situazione critica. Lorenzo de’ Medici era morto da poco e gli era successo il figlio Piero. Il grande Lorenzo era stato indotto dal suo genio a mascherare il proprio potere, ma quando lo scettro cadde nelle sue giovani mani inesperte, Piero dimenticò il consiglio paterno.
Quando il re di Francia cominciò a interferire nella politica italiana, Piero de’ Medici e Firenze, legati al Regno, declinarono l’offerta di un’alleanza francese. Il Re cristianissimo replicò bandendo i mercanti fiorentini dalla Francia e ciò diede occasione ai nemici di imprecare sui mali della tirannide e sui vantaggi della repubblica.
Girolamo Savonarola, frate della Religione di San Domenico, diventò un personaggio eminente in questo frangente. Ecclesiasticamente soggetto alla Congregazione domenicana di Lombardia, egli si indusse a desiderare l’indipendenza e una base a Firenze. Il 22 maggio la bolla di separazione fu emessa da Alessandro VI. Fra Girolamo Savonarola passò così alla nuova congregazione toscana, fu eletto priore di San Marco e vicario generale e divenne signore assoluto dei domenicani di Firenze, soggetto soltanto al generale dell’ordine e al pontefice, a Roma.
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Era un uomo sinceramente pio, di dura tempra ascetica e molto autoritario. Rifiutava qualsiasi compromesso; voleva che si servisse interamente Dio, e non tollerava patteggiamenti con Mammona. Sputava sul mondo e lo sfidava. Bruciava ogni leggiadro oggetto mondano.
Nel frattempo Firenze era turbata dall’attesa dell’invasione francese, che, diceva fra Girolamo – nel frattempo diventato un noto predicatore – era il Flagello di Dio per la purificazione della Chiesa. Aveva delle visioni e le esprimeva in parabole. Il successo, il potere crescente, producevano in lui un effetto come di ebbrezza. Tornò sul pulpito di San Marco e tuonò come un profeta, come un veggente; non più parole sue, adesso, ma “Così diceva il Signore”. Vantava l’afflato divino, l’Ispirazione. Umanamente parlando, era uscito di senno.
L’eccitazione di Firenze diventò frenesia. «Ecco» declamava tremendo fra Girolamo, «ecco io porto le acque del diluvio sulla terra!». E nel 1494 l’esercito francese entrò in Italia.
A seguito della vergognosa resa di Piero a Carlo VIII, Firenze tumultuò costringendo i Medici alla fuga. I fiorentini si diedero allora a spogliare Palazzo Medici, saccheggiando la sua inestimabile biblioteca di manoscritti.
Questa rivolta era opera di fra Girolamo Savonarola. Il frate domenicano aveva risvegliato in Firenze quelle aspirazioni morali che i Medici avevano sopito e atrofizzato; e gli spregevoli errori di Piero avevano portato l’esasperazione all’estremo. La neocostituita Repubblica collocò la statua della Giuditta di Donatello, con la testa di Oloferne, su un piedistallo davanti a Palazzo Vecchio, con la seguente iscrizione a monito dei despoti: EXEMPLUM SALUTIS PUBLICAE CIVES POSUERE MCCCCXCV.
Mentre Carlo VIII, qualche tempo dopo, veniva costretto a una fuga precipitosa dalla lega antifrancese appoggiata dal Papa, raggiungendo la Francia con le sue forze avvilite e in disordine, a Firenze fra Girolamo non cessava di adoperarsi a favore del Re cristianissimo. Dal pulpito del pastore egli era passato al podio del politico.
Alessandro VI lo convocò con un breve benevolo e paterno a Roma; dicendo che voleva ascoltarlo personalmente, e conferire con lui sui metodi da lui propugnati. Se la condotta successiva di Rodrigo Borgia merita di essere detta male avvisata, non è a lui che bisogna farne colpa, ma a fra Girolamo Savonarola, che con incongrui pretesti eluse la convocazione e persistette nelle sue proditorie macchinazioni contro la pace del suo Paese, in sfida alla legge e in spregio ai poteri costituiti.
Da Roma partì un ordine che gli vietava di predicare in pubblico e sottoponeva nuovamente il convento di San Marco al governo della congregazione lombarda. Allora fra Girolamo professò pronta obbedienza al Papa; ma pregò che fosse mantenuta l’indipendenza del suo convento. Man mano il frate tessé intrighi con Ferrara, e guadagnò dalla sua e coltivò molti fiorentini influenti; finché la Signoria fece propria la sua causa e si appellò formalmente a Roma perché fosse annullato il divieto di predicazione.
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Nonostante questo, quel frate incontinente predicò un quaresimale difendendosi, denunciando violentemente Roma, attribuendole come suoi particolari vizi diffusi ovunque. Era in aperta rivolta, non contro la fede cattolica, ma contro le leggi del suo Paese e contro la Regola della Religione di San Domenico a cui volontariamente aveva giurato fedeltà. Per facilitargli le cose, Sua Santità propose di istituire una nuova Congregazione domenicana a cui egli poteva essere disposto a obbedire, sotto il Cardinale Carafa che già aveva dato prove di simpatia per il frate. Ma Girolamo rifiutò, intrattabile, di ascoltare; e bisogna dire che il tono minaccioso e violento con cui egli attaccava i superiori fu un amaro contrasto con la pazienza e la moderazione mostrategli da Alessandro VI, e questo – si noti – nonostante la vergognosa stravaganza e infedeltà del domenicano.
Nel 1497, dopo oltre quattro anni di tolleranza, mentre i partigiani di Savonarola disonoravano la Toscana Città del giglio, il frate venne scomunicato.
Il contegno di Savonarola verso la sentenza di scomunica lanciata contro di lui si dimostrò incorreggibile. Nel giorno di Natale egli cantò tre messe solenni a San Marco e annunciò la ripresa dei suoi frenetici discorsi. La chiave della mala condotta di questo pazzoide sta nella sua fisionomia, di stampo fra umano e animalesco. Il posto adatto per lui non era il convento di san Marco a Firenze, ma l’ospedale di Santo Spirito a Roma, dove erano ricoverati i schizofrenici.
Il 1498 fu inaugurato da una fiera predicazione del frate in difesa della propria disobbedienza al divieto e alla sentenza di scomunica; e assalendo freneticamente il clero romano, contrapposto al toscano.
Da diversi anni fra Savonarola predicava il dovere e l’obbedienza, e non voleva praticarla. Era affatto insensibile alla molta benignità dimostratagli; e aveva risposto elusivo o insolente a tutte le offerte di pace. Egli era dopotutto un uomo soggetto a un’autorità, un’autorità a cui aveva volontariamente votato, e poi rifiutato, sottomissione, pur ammettendo il diritto di tale autorità di pretenderla: una posizione anomala, illogica, scandalosa; la posizione di un pazzo.
Papa Alessandro VI diresse un breve ingiungente di cessare ogni appoggio al frate scomunicato; minacciando Firenze d’interdetto, ma offrendo allo stesso tempo di assolvere il figlio ribelle di San Domenico. Qui fra Girolamo commise il suo peccato finale. Intonò il vieto appello alle potenze europee per la convocazione di un Concilio generale; e raddoppiò i suoi intrighi proditori col cristianissimo Re Carlo VIII, portando al culmine l’esasperazione di Papa Alessandro VI.
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Le cose precipitarono. Sfidando i comandi del suo superiore riconosciuto, il pontefice, e così pure le ingiunzioni della Signoria, il frate cadde in discredito e la sua influenza su Firenze andò svanendo. Il frate, ora circondato da accusatori, replicò domandando la prova del fuoco: offrendosi di camminare in una fornace ardente con uno dei tanti che lo avversavano. Quello dei due che uscisse indenne dalla prova sarebbe stato ritenuto innocente, e sotto la speciale protezione di Dio. Fra Francesco di Puglia, minorita, accettò la sfida. Disse di sapere che entrambi sarebbero morti bruciati; ma era meglio questi anziché permettere che un eresiarca fosse libero di persistere nei suoi tradimenti verso la Chiesa. Girolamo cercò una scappatoia e rifiutò.
La misura era ormai colma: il popolo si sollevò e catturò il frate che nel frattempo aveva cercato rifugio tra le mura di San Marco. Dopo che furono giunti i commissari da Roma, Savonarola fu sottoposto a processo e condannato all’impiccagione, con bruciamento del corpo dopo la morte. All’ultimo momento, per comando espresso del Papa, fu offerta al condannato l’indulgenza plenaria in articulo mortis, con liberazione di tutte le censure canoniche e scomuniche. Fu accettata con gratitudine; e il prigioniero subì la punizione per i suoi delitti.
 
a cura di Luca Fumagalli