giovedì 28 gennaio 2016

Come Hitler salvò l’economia (qualche idea per oggi) – Prima parte

hitler

di Maurizio Blondet

L’alluvione di capitali dagli Usa in Germania si era, nel 1933, già prosciugata. La crisi del ’29 a Wall Street, il brutale arretramento dell’economia americana, il tracollo della produzione industriale il gelo del commercio internazionale, segnarono la fine della “prima globalizzazione” finanziaria. Non solo gli Usa a la Gran Bretagna, la potenza missionaria del vangelo liberista, adotta il protezionismo, e impone forti dazi sulle importazioni;   nello stesso tempo, rinuncia al ruolo di fornitore internazionale di capitali. Passati i tempi in cui le imprese (e stati) esteri erano incoraggiati a chiedere prestiti sul mercato finanziario di Londra; dal ’31, in forma non ufficiale, si mette in vigore un embargo sulle emissioni titoli esteri in Inghilterra: il ‘mercato finanziario globale’ prima esaltato viene ridefinito ‘fuga di capitali”,osteggiato e punito.
L’Inghilterra si ritira dal mondo. Si ritira, intendiamoci, nel vasto e confortevole mercato asservito del suo impero coloniale: e fra le sue colonie vi sono i maggiori produttori mondiali di oro, il cui potere d’acquisto si rinforza col calo dei prezzi globali. Grande importatore di materie prime (è ancora una potenza industriale) il Regno Unito beneficia del crollo mondiale dei prezzi di queste. Dunque è doppiamente favorito: compra a poco con oro rivalutato. 7
La deflazione fa sì che in Gran Bretagna il costo della via ribassi, fra il 1924 e il ’36, di 16 punti,  mentre i salari calano solo di 2 punti: sembra  una situazione felice rispetto al resto del mondo, tanto più che il governo di Londra inaugura una politica di credito facile (bisogna pur usare i capitali abbondanti rientrati, che non possono più andare all’estero), che stimola (o simula) una sorta di ripresa, basata sui “consumi interni”. E tuttavia la disoccupazione resta ostinata al disopra del 10% fino al 1939,  quando la guerra innescherà il suo truce modello di pieno impiego.
Nella ricca America, il New Deal di Roosevelt non otterrà effetti migliori, a parte di grande successo propagandistico. Un totale e severo dirigismo, grandi opere pubbliche pagate in deficit dallo Stato, aumento dei salari minimi, confisca dell’oro in mani private – non riescono ad aver ragione della crisi. Nel 1936, il potere d’acquisto degli agricoltori americani è quasi il 30 per cento in medo di quello del 1929; la disoccupazione generale, che era del 3% prima del 1929, resta attestata al 19 per cento fino al 1938. Anzi, dall’ottobre del 1937 l’economia Usa ricade in una severissima recessione, ed altri 4,5 milioni di lavoratori finiscono   sul marciapiede.  “L’economia americana non riesce a riprendersi con le sue sole forze, essa resta dipendente dalla iniezioni costanti di potere d’acquisto alimentato dai deficit di bilancio”, riconosce lo storico francese Jacques Nèré (La Crise de 1929, Parigi 1973, p.163).
In Francia il Fronte Popolare decreta un aumento generale dei salari del 10-15%, accorcia la settimana lavorativa da 48 a 40 ore   (“lavorare meno per lavorare tutti” sembrò una buona idea, a sinistra)  insomma applica le demagogie socialiste, senza riportare un alito di vita alla profonda stagnazione economica. L’URSS applica fino in fondo, con la nota ferocia ideologica, l’economia di piano, con i noti risultati disastrosi che sappiamo: carestia e GuLag.
Tutti gli esperimenti dirigisti in qualche modo falliscono. Salvo uno.
Quando Hitler sale al potere, la Germania soffre di una crisi industriale paragonabile a quella americana, con disoccupazione alle stelle. Ma a differenza degli Usa, per di più è gravata da debiti esteri schiaccianti: non solo il debito pltiico – il peso delle “riparazioni” ; anche il debito commerciale pauroso. Le sue riserve monetarie sono ridotte a zero o quasi. S’è prosciugato il flusso di capitali esteri ritenuto necessario per la sua rinascita economica. La Germania insomma non ha denaro, ha pesro i suoi mercati d’esportazione, è forzatamente isolata (dalla recessione globale) dai mercati internazionali. Costretta ad una economia a circuito chiuso, nei suoi limitati confini.
Ma proprio da lì comincia a rinascere. Come? Secondo Rauschning, i nazisti “s’erano creati una teoria monetaria che suonava pressappoco così: le banconote si possono moltiplicare e spendere a volontà, purché si mantengano costanti i prezzi”. Hitler era brutalmente esplicito: “Dopo l’eliminazione degli speculatori e degli ebrei, si dispone di una sorta di moto perpetuo economico, il cui meccanismo on si arresta mai. Il solo motore necessario è la fiducia. Basta creare questa fiducia, o con la suggestione o con la forza o entrambe”.
Sono idee assurde secondo la teoria economica: creare inflazione stampando moneta senza far salire i prezzi? E senza ricorrere al razionamento, alle tessere del pane come stava facendo Stalin in quegli anni. Eppure, funzionarono.
A causa del suo grande indebitamento estero, la Germania non può svalutare la sua moneta: le sue merci sarebbero più competitive, ma il peso del debito crescerebbe. Fra le prime misure del Terzo Reich c’è dunque il riequilibro del commercio, perché il deficit non può più essere finanziato come in tempi normali. Di fatto, la libertà di scambio viene sostituita da Hitler da meccanismi inventivi. I creditori della Germania vengono pagati in marchi (moneta di Stato, non bancaria), che però dovevano essere spesi in Germania. Per comprare merci tedesche: di cui l’industria germanica poteva fornire, per così dire, un quasi infinito catalogo: motori e vernici, giocattoli e prodotti chimici, medicinali, strumenti musicali e apparecchi radio, casalinghi… Ben presto questo sistema sviluppò quasi spontaneamente accordi internazionali di scambio per baratto: la Germania non aveva più bisogno di valuta estera (dollari o sterline) per comprare le materie prime di cui mancava, perché propriamente non vendeva né comprava più. Per il grano argentino, dava in cambio i suoi pregiati prodotti industriali; Rockefeller, per vendere i greggio della sua Standard Oil, si dovette contentare di un pagamento in armoniche a bocca ed orologi a cucù.   Tanto che dopo la fine della guerra dovette giustificarsi di avere “finanziato Hitler” davanti al Senato. Ma le condizioni di gelo del mercato globale non consentivano ai Rockefeller di fare i difficili: prendere o lasciare.
Per le poche importazioni con esborso di valuta, il Reich impose agli importatori tedeschi un’autorizzazione della Banca centrale all’acquisto di divise. Il tutto fu presto facilitato da accordi con gli esportatori, che disponevano di quelle valute e le mettevano a disposizione. I negozi sui cambi avvenivano dunque, “dopo l’eliminazione degli speculatori e degli ebrei”, senza dover pagare il tributo ai banchieri internazionali – moderni cambiavalute.

 
Lui e il suo banchiere centrale
Lui e il suo banchiere centrale
Il controllo sui cambi è praticato anche in Urss con atroce durezza –  e risultati devastanti. Invece, dovrà riconoscere uno storico, il controllo nazista sul commercio estero “dà alla politica economica tedesca una nuova libertà”. Anzitutto perché il valore interno del marco (il suo potere d’acquisto per i salariati) è   stato svincolato dal suo prezzo estero, quello fissato dai mercati valutari angloamericani. Lo Stato tedesco può  stampare moneta per i salari sena essre immediatamente “punito” dai mercati mondiali dei cambi, governati da “speculatori ed ebrei”, con una perdita del valore del marco rispetto al dollaro. E il pubblico tedesco non riceve quel segnale di sfiducia mondiale che consiste nella svalutazione del cambio della propria moneta.
Così, Hitler – attentissimo al favore della sua opinione pubblica, e convinto di costruire davvero uno “stato socialista dei lavoratori” – può stampare marchi nella misura che desidera per raggiungere il suo scopo primario: il riassorbimento della tragica disoccupazione. Grandi lavori pubblici, autostrade e solo dopo vari anni il riarmo, forniscono salari a un numero crescente di occupati. I risultati sono, dietro le fredde cifre, spettacolari per ampiezza e rapidità.
Nel gennaio 1933, quando Hitler sale al potere, i disoccupati sono oltre 6 milioni. A gennaio 1934, solo un anno dopo, sonocalati a 3,7. A giugno, sono ormai 2,5 milioni. Nel 1936 calano ancora: 1,6 milioni. Nel 1938 sono solo 400 mila, il 2,1 per cento della forza lavoro. Per confronto, si pensi che nell’America del New Deal la disoccupazione era ancora del 13,2 per cento, e saliva al 19,8 un anno dopo. Vero è che il regime rende il lavoro obbligatorio:   chi rifiuta l’impiego che gli viene offerto è punito; ma è un “obbligo” che non pesa ad un popolo che ha conosciuto l’umiliazione della disoccupazione di massa.
E non sono le industrie di armamento ad assorbire la manodopera, come sostiene una propaganda dei vincitori. Fra il 1933 e il ’36,è l’edilizia ad assorbirne di più (più 209%), seguita dall’industria automobilistica ( +117%); la metallurgia ne occupa relativamente meno ( + 83%).
Nei fatti, la stampa di moneta viene evitata (o dissimulata) con geniali tecnicismi. Nel sistema bancario occidentale – speculativo – le banche creano denaro dal nulla aprendo dei fidi agli imprenditori; costoro poi successivamente, “servendo” il debito (anzitutto pagando gli interessi alla banca) riempiono quel nulla di vera moneta, ossia ricchezza prodotta, – da cui la banca si trattiene il suo profitto, il tradizionale tributo che il banchiere estrae dal lavoro umano. Ma naturalmente questo metodo genera inflazione in un’economia ce cresce, perché fa’ circolare moneta aggiuntiva; e Hitler deve risparmiare al suo popolo, che ha conosciuto l’iper-inflazione del 1922-23, una replica della tragedia.
Nel sistema hitleriano, è direttamente la Banca Centrale di Stato (Reichsbank) a fornire agli industriali i capitali di cui hanno bisogno. Non lo fa’ aprendo a loro favore dei fidi; lo fa’ autorizzando gli industriali ad emettere della cambiali garantite dallo Stato. Più precisamente sono promesse di pagamento emesse da una ditta metallurgica    fittizia, laMetallurgische Forschungsgesellschaft“, da cui il loro nome: “Effetti MeFo”.E’ con queste promesse di pagamento che gli imprenditori pagano i fornitori. In teoria questi possono scontarle presso a Reichsbank e qui sta il rischio: se gli effetti MeFo venissero presentati massicciamente all’incasso, la banca centrale dovrebbe pagarli   stampando banconote – e ricadrebbe nella iper-inflazione.
Di fatto, ciò non avviene nel Terzo Reich: anzi, gli imprenditori si servono degli effetti MeFo come mezzo di pagamento fra loro, senza mai portarli all’incasso, risparmiandosi  tra l’altro la decurtazione dello sconto-cambiali, non piccolo vantaggio. Insomma gli effetti MeFo divennero una moneta, esclusivamente per uso delle imprese, a circolazione fiduciaria.

MANFESTOSi sono sospettate pressioni dello Stato nazista, magari tramite la Gestapo, per mantenere il corso forzoso d questa cambiale. Ma nessuna coercizione fu esercitata; anzi c’era un premio, gli effetti MeFo fruttavano un interesse del 4% –  pagato dallo Stato – il che li rendeva   simili a buoni del Tesoro. La fiducia, l’immensa fiducia che il regime “socialista nazionale” riscuoteva, ha fatto il resto. Non si sottovaluti il fatto, apparentemente paradossale, che   la dittatura fu vissuta come una liberazione di massa. Lo stato precedente, nobiliare, ingessato, gerarchico, fu spazzato via; l’ascensore sociale su messo in moto, da umili origini si poteva salire a grandi responsabilità nel Partito e fuori; vivaci risorse umane furono scoperte e utilizzate.
Con l’invenzione degli effetti MeFo, si disse che il banchiere centrale, Hjalmar Schacht, aveva “reso invisibile l’inflazione”: i MeFo erano un circolante parallelo che il grande pubblico non vedeva e di cui nemmeno forse aveva conoscenza, e dunque privo di effetti psicologici. Essi contribuirono potentemente ad attivare l’energia, la voglia di lavorare, la capacità attiva de popolo.
Schacht, da finanziere ebreo, conosceva bene la frode fondamentale su cui si basa il credito, e i lucri che consentono l’abuso della fiducia dei risparmiatori e dei produttori reali, che col loro lavoro riempiono di denarovero i conti di denaro vuoto, contabile, che la banca crea ex nihilo. Per una volta nella storia, un ebreo fece funzionare la frode a vantaggio dello Stato – senza lucro – e del popolo. Non a caso, e senza alcuna intenzione sarcastica, Hitler gratificò Schacht del titolo di “ariano d’onore”


Continua…

Fonte (http://www.radiospada.org/)

martedì 26 gennaio 2016

Le poco onorevoli imprese della Legione Cispadana nel 1797, tali da disgustare persino Napoleone, ma non Napolitano.

Oscar Sanguinetti.

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la bandiera lorda di sangue dei veneti
e degli insorgenti italiani.
Il 7 gennaio 2011, il Presidente della Repubblica ha dato inizio da Reggio Emilia alle solenni celebrazioni del 150° dell’Unità. E lo ha fatto rievocando come la memoria nazionale annovera fra i suoi cardini proprio la nascita dell’attuale bandiera italiana dai tre colori, bianco, rosso e verde, adottata per la prima volta a Reggio, nel gennaio del 1797, dalla neonata Repubblica Cispadana.
E quel vessillo fu innalzato ancora prima dalle forze armate della «repubblica sorella». Infatti, il Congresso costitutivo, tenutosi nell’ottobre dell’anno precedente, aveva deliberato anche la creazione di una Legione, che fiancheggiasse i francesi nella guerra contro l’Austria al tempo della Prima Coalizione. E che «[…] la […] Legione Italiana [dovesse] avere come bandiera il vessillo bianco, rosso e verde adorno degli emblemi della libertà».
La Legione Cispadana, composta da sette coorti di sette centurie di militi ferraresi, bolognesi, modenesi e reggiane, non è infatti un fulgido esempio d’italianità, nonostante abbia marciato per prima sotto il tricolore.Nei suoi pochi mesi di vita — confluirà nel giugno del 1797 nella Legione Cisalpina — la legione venne impiegata soprattutto contro gl’insorgenti — ovvero contro altri italiani, che combattevano in difesa della propria libertà, e per l’onore del loro duca e del Papa-re — e in non poche operazioni si segnalò per abusi e violenze, che ricordano tutt’altra e più recente stagione.
Trascrivo qualche passo dall’accurata Storia militare dell’Italia giacobina. Dall’armistizio di Cherasco alla pace di Amiens. 1796-1802 (Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, Roma 2001, vol. I, pp. 425-429) di Virgilio Ilàri, Piero Crociani e Ciro Paoletti.
«La coorte ferrarese rimase di guarnigione a Milano fino al gennaio 1797, trasferendosi poi a Lecco e ai primi di febbraio a Bergamo, ancora soggetta al governo veneziano. Il suo primo servizio fu trasportare a braccia i cannoni sulle colline circostanti. […] Finalmente […] Rusca [il generale francese che comandava la legione] potè marciare in Garfagnana, seguendo però la strada di Lucca e Gallicano, essendo le altre interrotte dagli insorgenti. I modenesi rimasero di presidio a Livorno, Castelnuovo e Monte Alfonso, mentre il 6 gennaio 1797, compiuta la “pacificazione”, i reggiani tornarono a Modena con Rusca. Scendendo verso Bologna [lungo la vecchia strada della Futa], nel tratto tra Barberino e Loiano, un centinaio di questi facinorosi si dette al saccheggio, con particolare ferocia a Santa Maria dei Boschi [frazione di Monghidoro, dove esiste un antico santuario]. Il generale Berruyer, subentrato a Rusca, li fece processare dall’uditore Finucci.

le uniformi dei massacratori, verdi, bianche e rosse.
le uniformi dei massacratori,
verdi, bianche e rosse.
Il 26 il promotore venne fucilato a Bologna in piazza Mercato e una ventina di correi condannati a pena detentiva assistettero all’esecuzione incatenati, insieme con l’intera coorte reggiana schierata sui lati della piazza. […] Tre ufficiali di quella modenese, due dei quali francesi, fecero parte del consiglio di guerra che emise 14 condanne a morte (9 in contumacia) di insorgenti garfagnini. […] Non è chiaro quale parte abbiano avuto i cispadani al forzamento del Senio [il fiume romagnolo, dove avvenne il primo scontro tra francesi e pontifici che difendevano i confini dello Stato del Papa Pio VI], il 2 febbraio 1797. […] Dopo la battaglia, lombardi e cispadani rimasero alcuni giorni di presidio in Romagna, commettendo furti di bestiame e rapine contro la popolazione locale e suscitando perciò, il 7 febbraio, un duro richiamo di Bonaparte con minaccia di severe punizioni. […] Il 16 la legione proseguì per Ancona […]. Aggregata alla colonna mobile di Rusca, il 21 la legione raggiunse Macerata e il 23 prese parte al massacro di S. Elpidio (136 vittime, senza contare le successive fucilazioni). Furono i 3 pezzi di Astolfoni a salvare la colonna, che si era lasciata imbottigliare dagli insorti in una strada angusta e infossata alle porte del paese. La legione ebbe 10 morti e 12 feriti, soprattutto fra gli artiglieri […].
Una lettera indirizzata l’11 luglio dall’ispettore Cicognara al comitato centrale cispadano illumina le ragioni del risentimento accumulato dai legionari durante le campagne della Garfagnana e delle Marche. Secondo Cicognara i francesi li avevano usati come manovalanza o carne da cannone contro gli insorgenti, arrivando a cose fatte e riservando solo a sé stessi il diritto di saccheggiare, mentre Rusca e Victor “intascavano e rubavano” i tributi di guerra destinati alle coorti cispadane di guarnigione ad Ancona. […] Il 1° aprile, proprio mentre a Ferrara Rangone vergava questa lettera avvocatesca e servile, il distaccamento di granatieri ferraresi del tenente Vincenzo Rota, aggregato alla colonna Cavalier, partecipava alla strage di Cennati in Val Sabbia [Brescia] (“dove non ne lasciarono vivo nemmeno uno per gridare San Marco!”, si compiacque poi di rapportare Guidetti). Il 2 toccò a Trescore, dove, uccisi tutti i maschi, il villaggio fu dato alle fiamme. Il 3, espugnato l’epicentro di Nembro, quel filosofo di Andreuil offerse il perdono a quelle “bestie”, convinto, secondo Guidetti, che il terrorismo funzionasse soltanto con gli esseri umani (“dilucidare il loro accecamento con un migliaio di morti”). In queste operazioni i ferraresi ebbero 2 morti e 6 feriti, inclusi Rota e il valoroso caporale quindicenne Carlo Traversi».

Oscar Sanguinett

Fonte: http://venetostoria.com/

LA DEFORMAZIONE DELL’IDENTITA’ DEI POPOLI ITALIANI E IL MITO DI NAPOLEONE

OSCAR SANGUINETTI, Le Insorgenze. L’Italia contro Napoleone (1796-1814), 

Napoleone_BonaparteLo lamenta in apertura d’opera proprio Invernizzi quando scrive che “del ventennio napoleonico, nessuno sa niente. Nei programmi scolastici non viene ricordato, la letteratura non ne parla quasi mai, al contrario capita spesso di ascoltare intellettuali italiani parlare bene di Napoleone come il primo vero modernizzatore dell’Europa, e dunque dell’Italia” (p. 7). All’interno poi del corpo sociale cattolico la situazione non di rado è ancora più sconfortante: il giudizio su Bonaparte (1769-1821) varia infatti sensibilmente da un interlocutore a un altro come se il fatto — ineguagliato nella storia della cristianità — di aver tenuto prigionieri due papi — rispettivamente Pio VI (1775-1799) e Pio VII (1800-1823), quest’ultimo peraltro morto in Francia durante la prigionia — fosse un dato neutrale come un altro, liberamente interpretabile a seconda dei punti di vista.
Contro questa vera e propria deformazione dell’identità italiana più genuina e profonda va quindi riaffermato che — è sempre Invernizzi a scriverlo — durante il ventennio napoleonico “molti italiani insorsero contro la dominazione francese, non tanto perché straniera, ma in quanto cercava di cambiare il modo di vivere degli italiani, introducendo la leva di massa obbligatoria, aumentando le tasse, vietando processioni, chiudendo chiese e addirittura imprigionando i Pontefici perché avevano osato opporsi al potere dell’impero. Erano gli insorgenti e ne furono uccisi [decine di migliaia] nel corso delle diverse guerre di guerriglia che si svolsero lungo la penisola. Erano cattolici italiani, di diverse parti […] Non se ne è mai occupato nessuno (o quasi), fino a tempi recenti” (ibidem).

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Fonte: http://venetostoria.com/

IL SACCO DI VICENZA, NAPOLEONE DISTRUGGE MONASTERI E CONVENTI.

Fonte: http://venetostoria.com/

Riprendo da un articolo del Giornale di Vicenza, che parla della predazione di una miniatura in argento di valore inestimabile, da parte dell’armata di ladri napoleonica, di cui parlerò domani, che riproduceva la pianta di Vicenza. (NdR)

images (2)Il trasferimento degli oggetti direttamente alla proprietà definitiva della Repubblica francese fu immediato e condito da varie aggressioni, comprendendo terreni e case religiosi, ma più generalmente tutto ciò che era possibile depredare quanto a oggetti d’arte. I più colpiti furono oltre che la sede vescovile di Vicenza e tutte le parrocchie che detenevano misure anche minime di patrimonio artistico, alcuni obiettivi specifici che per la precisione e la sicurezza con cui vennero assaliti e spogliati di tutto sicuramente facevano parte di un’agenza specifica preparata in precedenza rispetto all’invasione della città.
Forse il caso più emblematico di tutta questa attività predatoria fu ad esempio quello dei conventi benedettini femminile e maschile: a San Felice il convento maschile fu assalito e praticamente cancellato per sempre dalla mappa dei riferimenti religiosi in città, mentre a San Pietro, dove c’era molto di più da depredare, e dove l’insediamento delle monache era molto più radicato e importante, i soldati francesi costrinsero le suore ad allontanarsi dalla loro sede per rinchiudersi nel loro altro insediamento di Grumolo, dove a partire dal loro arrivo in Italia al seguito dell’imperatore Corrado il Salico avevano realizzato in tre secoli una fiorente piantagione di riso che come noto dà ancora frutto ai coltivatori.
 
Uscite a forza le suore, la chiesa di San Pietro e tutti gli edifici che ne costituivano le pertinenze furono spogliati di tutto, tanto che ancora oggi, tutto quel che rimane di quel grande patrimonio, a parte muri, chiostro e qualche antico affresco, è una piccola collezione di alcuni capi d’abbigliamento d’epoca custodite nelle vetrine. Questa è la storia molto breve ma significativa, di quanto accadde allora e che fece però da premessa a questa realizzazione straordinaria degli argentieri vicentini.

La storia nascosta: la pena di morte per chi grida “San Marco!”

1797 A pochi mesi dal’ocupassion francese, a Venesia e robe va sempre pexo, e comissia a esarghe i primi malumori, in cita’ qualcun comincia a gridare a San Marco, e comisia a esarghe i primi aresti. Preocupa’ da questo, la municipalità su pression dei francesi fa afligere sui muri manifesti con scrito….

la Resistenza e gli atti di rivolta furonoinnumerevoli, con morti e rappresaglie. Una storia non scritta.
la Resistenza e gli atti di rivolta furonoinnumerevoli,
con morti e rappresaglie. Una storia non scritta

1° e proibito ogni attrupamento, quelli che ecciteranno o VI poranno alla testa, saranno puniti di pena di Morte.2° chi affigera’ o diffonderà carte o stemmi di San Marco ,sarà punito di pena di Morte.
3° gli autori di stampati , opere e fogli che eccitassero L’ insubordinazione, saranno puniti di pena di Morte.
4° Chiunque griderà viva San Marco ,sarà punito di pena di Morte .





Fonte: http://venetostoria.com/

venerdì 22 gennaio 2016

Tamigi di sangue: “Il trionfo del re” di R. H. Benson

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di Luca Fumagalli (Fonte: http://www.radiospada.org/)
 
Dopo il discreto successo ottenuto con Con quale autorità? (1904), R. H. Benson si dedicò alla stesura di un nuovo romanzo storico, ancora una volta ambientato durante i terribili anni dello scisma anglicano. In questa occasione il protagonista sarebbe stato il padre di Elisabetta, Enrico VIII, l’ex defensor fidei rivoltatosi contro Roma. Il trionfo del re (The King’s Achievement), pubblicato nel 1905, tratta con acutezza psicologica il dramma di una nazione chiamata a scegliere tra l’eresia e la fede dei padri. Il motivo unificante delle vicende che, a mosaico, compongono la trama, è la spoliazione e distruzione dei monasteri causata dall’ambizione e dell’avidità del re. L’esito è una brillante operazione di revisionismo storico che ha come fine quello di dimostrare, attraverso l’accessibilità della forma narrativa, come il protestantesimo inglese fosse corrotto sin dalle origini, nato soltanto per assecondare gli smodati appetiti di un sovrano preda del vizio.
Il trionfo del re, ambientato tra il 1533 e il 1540, descrive il conflitto tra due fratelli appartenenti alla famiglia aristocratica dei Torridon. Sulla sfondo della contesa tra il Papa ed Enrico, Christopher, sacerdote fedele a Roma e intenzionato a rispettare la sua vocazione, fronteggia Ralph, ambizioso servo del potere, tanto accecato dal miraggio di una rapida carriera a corte da sopprimere la sua coscienza e rifiutare la mano della donna che ha sempre amato. Tra intrighi e misteri, tra aiuti provvidenziali e colpi bassi, il duello tra i due Torridon si risolverà in una lenta ma inesorabile caduta nelle morte gore del peccato.
Nel titolo del romanzo Benson chiarisce qual è, in estrema sintesi, il tema portante del libro: rievocando l’opposizione tra dimensione temporale e spirituale dell’esistenza, parla del trionfo di Enrico VIII come qualcosa di passeggero e infecondo. La cosa che più conta, la battaglia per la salvezza dell’anima, si è risolta invece in una clamorosa disfatta. Nel sorriso arrogante del re è celata la miseria di un uomo che ha sacrificato la felicità eterna per uno strapuntino di potere. Come l’Anticristo de Il padrone del mondo, alla fine anche lui è destinato a soccombere innanzi alla giustizia divina.
Tra i personaggi de Il trionfo del re Enrico VIII è l’unico rappresentato sotto una luce totalmente negativa. Il sovrano, che perseguì con lucida scientificità i suoi progetti di controllo totale sull’Inghilterra, mostra in più occasioni la natura luciferina del suo operato. Freddo e calcolatore, non tollera che qualcuno possa sconvolgere i suoi piani e non esita a schiacciare chiunque tenti di sbarragli la strada: «Enrico era andato troppo innanzi; aveva assaporato con troppa soddisfazione la ricchezza che giaceva nei tesori delle case religiose in attesa di lui, e dopo un po’di tregua accostò di nuovo la mano alla coppa […]. Ora Enrico non poteva più tollerare la più piccola ombra di indipendenza spirituale entro il suo territorio».
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Il re, per quanto possibile, preferisce evitare l’uso della violenza ed esibire troppo scopertamente il suo potere coercitivo. Usa un’arma molto più efficace e invisibile, la burocrazia, l’unica in grado di nascondere agli occhi del popolo i grandi cambiamenti in atto, ammantando di legalità e di rinnovamento spirituale la cupidigia del bolso Tudor. I burocrati, «uomini pacifici, dall’aspetto d’avvocati, erano ministri di una tremenda vendetta; le stesse penne, l’inchiostro e la carta […] erano sacramenti di vita o di morte». Accanto a lui si muovono nell’ombra figure meschine e ambigue come l’ex prete Layton, oscenamente impegnato in prima persona nelle spoliazioni dei monasteri, il traditore Lackington e il fedelissimo ministro Cromwell, sempre attento a soddisfare ogni capriccio di Enrico da cui, ironia della sorte, verrà poi tradito e ucciso.
Dalla parte opposta si ergono come giganti i veri trionfatori del libro. Sono i martiri che, sacrificandosi per affermare i diritti di Cristo e della Chiesa, hanno ottenuto la santità, l’unica vera vittoria. Uomini come More, Fisher e altri hanno infatti conquistato con il sangue il diritto alla Vita eterna e alla visione beatifica di Dio. Attraverso il martire, figura cristologica, passa il riscatto della nazione: come agnello sacrificale versa il suo sangue per redimere un popolo intero dall’apostasia. Le pagine di Benson, con uno stile delicato e vibrante, ritraggono con efficacia rara il tormento della morte e la conquista della gloria, quella sensazione che descrive Christopher quando, nel 1533, visita a Londra il luogo dove sono stati uccisi i primi frati cappuccini: «Era qui che avevano subito il martirio, quei forti, quegli intrepidi cavalieri di Dio; essi avevano penduto da queste travi, coi piedi sul carro che era il loro carro di gloria, ed il collo nella fune che sarebbe stata il loro celeste distintivo; avevano guardato quei luoghi che egli stava ora guardando, mentre tenevano il breve discorso rivolti verso la Porta di Tyburn. Batté ancora una volta la mano sulla rozza trave e mentre gli parlavano nella mente i particolari del supplizio, si curvò baciandola, ed un fiume di lacrime gli velò gli occhi».
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Mentre i cattolici vengono perseguitati, il loro grido di perdono si leva alto sulla folla vociante, in netto contrasto con la doppiezza del re che vive in un costante clima di ansia e sospetto. Vi è in questo atteggiamento un qualcosa di allegorico, come se Benson avesse voluto fare di Enrico VIII non solo il prototipo dell’eresiarca, ma anche del pessimo governatore che promette al popolo senza mai mantenere.
In rapporto ai monasteri, come ricordato, si manifesta per la prima volta l’autentica indole del sovrano che dà ordine di sopprimere le compagnie religiose e sequestrarne i beni:  «Quasi tutti, monasteri grandi o piccoli, vennero letteralmente smantellati, prima o dopo essere stati venduti a gente che pagò per essi un prezzo “onesto”: tutto il vendibile fu venduto, compreso il piombo che rivestiva i tetti e i catenacci delle porte; i mobili e gli arredi sacri furono venduti all’asta, gli oggetti liturgici preziosi e le campane vennero fusi, i libri che non contraddicevano il re vennero requisiti e gli altri, la maggior parte, essendo “robaccia cattolica” (e molti erano preziosissimi codici ricchi di miniature), furono bruciati o regalati al popolo che ne usò le pagine per avvolgervi la verdura. Dai paramenti sacri si recuperò la stoffa, ove possibile; altrimenti si utilizzarono al meglio, magari a far da coperte ai cavalli dei nobili».
Proprio nei monasteri nasce e si sviluppa anche l’incontro/scontro tra i vari membri della famiglia Torridon, tutti – con la sola eccezione della madre – in profondo disaccordo con la condotta di Ralph.
I monaci, privi di residenza, si trovano quindi costretti a una difficile scelta tra la fedeltà all’ordine e al Papa o quella al sovrano. E sono in moltissimi, la maggior parte, che, per tutelare la propria incolumità fisica, abiurano il cattolicesimo per sottomettersi alla corona.
Nessuno è esente dalle tentazioni del maligno e Benson, che ben conosceva l’anima dell’uomo, l’aveva compreso chiaramente. Anche in altri suoi libri si possono incontrare religiosi poco limpidi, spesso codardi o sciocchi. Questo atteggiamento presto gli valse critiche da parte di alcuni cattolici, ma non si tratta di presunto anticlericalismo quanto della consapevolezza che sia il male che la stupidità sono patrimonio di tutti, indipendentemente dagli abiti che indossano. Inoltre l’accusa mostra la sua inconsistenza proprio nel momento in cui ai preti “giurati” si contrappongono sacerdoti e frati, come Cristopher, che non rinunciano alla loro fede, arrivando addirittura a morire per essa.
Il gioco delle parti su cui è costruita la storia trova una brillante sintesi in Beatrice Atherton. La giovane ragazza amica di Thomas More, di cui si innamora perdutamente Ralph, è il motore di quella sottotrama del perdono e della conversione che, nella terza parte del romanzo, caratterizza la vita di casa Torridon.
La fanciulla rivela un carisma molto simile alla più illustre omonima dantesca. Grazie all’amore puro e gratuito dell’amicizia, la giovane Atherton conduce gli uomini sulla via del riscatto. Emblema di questo contagio virtuoso è proprio Ralph, l’eroe tragico del libro. Dopo essersi macchiato con il sangue di molti innocenti e avere insultato la fede dei propri padri, anche a lui, attraverso Beatrice, è concessa la possibilità del perdono: «Mio… mio Dio» sono le ultime parole della sua esistenza terrena.
Il libro: R. H. BENSON, Il trionfo del re, Verona, Fede & Cultura, 2012, 350 pp, 15 Euro.

giovedì 21 gennaio 2016

La tirannia della libertà: il Piemonte dai Savoia a Napoleone

Fonte: https://giorgioenricocavallo.wordpress.com/

tirannia della libertàLa tirannia della libertà: il Piemonte dai Savoia a Napoleone vuole gettare una luce nuova su un periodo di storia convulso e controverso: quello della Rivoluzione Francese.
Si tratta di un argomento che è ancora oggi attualissimo: lo sappiamo, l’Occidente continua a vivere dei miti rivoluzionari. Ma possono davvero essere definiti dei miti? Il caso piemontese è emblematico: questo libro narra la «liberarazione» dello Stato Sabaudo operata dalle truppe francesi; un evento non voluto da gran parte del popolo, che subì un’infinità di vessazioni umilianti. Quando i contadini presero le armi per cacciare gli invasori, vennero massacrati dai loro «liberatori». È una storia tragica e ancora poco nota, che racconto in presa diretta, con puntuali riferimenti ai documenti dell’epoca. Riecheggiano, in questo studio, le parole dei testimoni che sperimentarono sulla loro pelle quella millantata libertà; testimoni che spesso erano povera gente, la quale assisteva agli eventi dell’epoca mormorando amaramente tra sé: «Liberté, egalité, fraternité: ij fransèis an caròssa, e noi a pè».

Io non dimentico

S.M. Cristianissima Luigi XVI di Francia

21 gennaio 1793, Parigi, Piazza della Rivoluzione, ore 7 del mattino: vengono ghigliottinati, in nome della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità, da coloro che nei seguenti 18 mesi uccideranno quasi 500.000 persone per la loro fede cattolica e la loro fedeltà al Trono e all'Altare, un uomo innocente, un Re buono, una società imperfetta ma ordinata, un mondo fatto di fede, onore, bellezza, sapienza. Ma, soprattutto, di libertà. Quella vera. L'unica vera.
La libertà di un mondo dove Dio era Dio, la Chiesa era Chiesa, il Re era Re, il padre era padre, la madre era madre, i figli erano figli, gli uomini erano uomini e le donne erano donne, i nobili erano nobili, l'ordine era ordine, i contadini erano contadini, i preti erano preti, le leggi erano leggi, la carità era carità e la misericordia era misericordia. Soprattutto, la Verità era Verità. E non può esistere libertà più grande di questa.
Per questo hanno inventato la ghigliottina. Da quel giorno, il mondo è precipitato, fino ai nostri giorni, nella più terribile delle tirannie.
Ricordiamolo con rispetto, onore, fedeltà. Perché... la storia è fatta di corsi e ricorsi (disse una volta "un napoletano filosofo") e nella vita... "panta rei", disse, un po' di tempo addietro, un greco che usava il suo logos.
Viva Luigi XVI, della stirpe di san Luigi IX, a sua volta della stirpe di Carlo Magno, Padre d'Europa. Tutti Re e figli d'Europa. Quella vera. L'unica Europa mai esistita: quella della Verità, dell'ordine, della Fede, della libertà



Massimo Viglione

martedì 19 gennaio 2016

IL LEGAME TRA LA CORNA DELLE DUE SICILIE E QUELLA DI SPAGNA


La Penisola italiana, e il Regno di Napoli e di Sicilia all'ascesa
di Alfonso V d'Aragona (I di Napoli e Sicilia).
E’ storica e tradizionale la vincolazione politica delle Sicilie alla Corona aragonese; fin dalla fine del secolo XIII con la presenza in Sicilia, e in Sardegna, della milizia catalana. Dal secolo XIV il dominio fu pacifico e di accordo, rispondendo allo spirito imperiale spagnolo, una vera federazione basata sull’unione personale e nei mutui fueros. Nel secolo XV, Alfonso V d’Aragona conquistò il Regno di Napoli (con maggiore diritto degli Anjou, discendendo dalla dinastia catalana come da quella castellana, per ambo i lati discendente dalla Casa di Svevia) legandolo al Regno d’Aragona e divenendo Alfonso I di Napoli.

Durante il secolo XVI e XVII, Sardegna, Sicilia e Napoli, e i presidi di Toscana e Milano, formarono parte della grande confederazione ispanica, corrispondendo al Re cattolico dal 1556 il Vicariato perpetuo del Santo Impero in Italia.

La Guerra di Successione Spagnola fece naufragare la vincolazione dei due Regni di Sicilia con  l’Aragona, così come la vincolazione dei Paesi Bassi con la Castiglia. Ma Filippo V di Spagna, con proprio desiderio aumentato dalla benevola influenza di Isabella Farnese, sua seconda moglie, si dedicò alla restaurazione dell’Impero spagnolo in Italia.
Don Carlo di Borbone: Duca di Parma dal 1731
al 1735; Re di Napoli come Carlo VII dal 1734
al 1759; Re di Spagna come Carlo III dal 1759
al 1788.

Ciò ebbe inizio nel Ducato di Parma, dove, morto il Duca Antonio si estinse la linea maschile dei Farnese. Passo a regnare in quelle contrade nel 1731 l’Infante Don Carlo, fino al 1735, essendo divenuto Re di Napoli nel 1734, dove regnò fino al 1759, ascendendo al Trono di Spagna con il nome di Carlo III,  lasciando a Napoli suo figlio terzogenito Don Ferdinando. Con questa formula, più flessibile politicamente rispetto al dominio diretto, si assicurava l’egemonia spagnola in Italia anche nel secolo XVIII. Il Re di Spagna non diede la proprietà degli Stati di Napoli e Sicilia agli Infanti titolari, ma la riservò per se, dando  a questi i suddetti Stati come infeudazione, con diritto a titolarsi Re, ma conservando per il Monarca spagnolo l’uso di questi titoli, che continuarono a figurare nella larga enumerazione dei regni del Re cattolico, così come la sua autorità sugli Infanti feudatari, senza che ciò significasse in realtà un annullamento dell’indipendenza delle Due Sicilie, ma piuttosto un alleanza perpetua fondata su basi molto più salde di quanto potesse essere con un semplice Trattato. Allo stesso modo, venendo a mancare la successione sul Trono di Napoli, questa spetta al Re di Spagna che nomina un Infante per la successione; mentre se viene a mancare la successione in Spagna il Re di Napoli è chiamato alla successione lasciando uno dei suoi figli o fratelli a Napoli o, rinunciando al Trono spagnolo, nominare uno di questi alla successione spagnola. Accadde così quando Carlo VII di Napoli succedette al Trono di Spagna divenendo Carlo III e lasciando a Napoli il terzogenito Don Ferdinando.

 
Da sinistra: Ludovico I d'Etruria, la Regina
Infanta Maria Luisa con i figli Maria Luisa Carlotta e
Carlo Ludovico.




E 'curioso che il tiranno d'Europa, l’usurpatore Napoleone Bonaparte, per creare il Regno d'Etruria si accordò con le autorità spagnole e l’Infanta Maria Luisa, e suo figlio, nipote dell’inflessibile Duca Ferdinando I di Parma, anche se con intenzione di mantenerlo per pochi anni, rispettando  l'applicazione di condizioni simili per il Nuovo Regno, essendo il Ducato di Parma di esplicita proprietà della Casa di Spagna.

 






S.A.R. Alfonso di Borbone-Due Sicilie; Re
delle Due Sicilie dal 1894 al 1900.



L’instaurazione del ramo liberale in Spagna, non venne riconosciuto dai Borbone Hispanoitaliani, salvo alcune eccezioni nel tempo, come nel caso del ramo di  Napoli che, all’inizio del secolo  XX, vide la dolorosa e tardiva defezione del Conte di Caserta (Alfonso I delle Due Sicilie) il quale, morto suo fratello, l’integerrimo Francesco II delle Due Sicilie, trascinò con se l’intero ramo dei Borbone-Napoli privando i suoi membri del diritto alla successione in Spagna e nelle Due Sicilie. Infatti, come da noi riportato nei precedenti scritti, i Sovrani di questi Stati italiani, come principi reali della dinastia  borbonica spagnola, erano Infanti di Spagna,  titolo che frequentemente anteponevano all’espressione  dei propri titoli reali.  





Stemma di S.A.R. Sisto Enrico di Borbone.
Chiaro è che i discendenti di colui che fu generalissimo del Reale Esercito di Carlo VII di Spagna, avendo perduto la legittimità di origine e quella di esercizio, sono impossibilitati giuridicamente ad ascendere al Trono di Spagna e a quello di Napoli, e a fregiarsi dei titoli connessi: essendo Infanti e feudatari, sono tenuti a mantenersi fedeli al Re di Spagna (legittimo); una volta venuta meno la fedeltà essi perdono i diritti tanto al Trono di Spagna quanto a quello delle Due Sicilie, a maggior ragione in quest’ultimo caso, essendo stati infeudati.

Essendo Infanti di Spagna e infeudati, venuti meno alla fedeltà nei confronti di colui nel quale risiede il Vicariato del Santo Impero in Italia , il Re Cattolico, la loro esclusione è maggiormente sostenuta. Ricordiamoci che Carlo IV di Spagna stava per detronizzare suo fratello Ferdinando IV di Napoli per molto meno.

Ciò interessa, ovviamente, anche il diritto di fregiarsi dei titoli connessi che spettano ad oggi a S.A.R. Sisto Enrico di Borbone.


Redazione A.L.T.A.

Fonte:

¿QUIÉN ES EL REY? di
FERNANDO POLO;
NOTA AL CAPITOLO XI; NOTA 10.

lunedì 18 gennaio 2016

Tomistica. Obiezioni e risposte di Garrigou-Lagrange

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Fonte: http://www.radiospada.org/

Prosegue con questo testo del noto tomista del XX secolo, la raccolta “tomistica” di Radio Spada a cura di A. Giacobazzi e P. Seveso. Grassettature e sottolineature nostre. [RS]

di Réginald Garrigou-Lagrange
III. — Obiezioni
Si opporrà senza dubbio che i principî della dottrina di San Tommaso sono troppo astratti e non appaiono assolutamente certi.
A ciò bisogna rispondere che questi principî, per essere assolutamente universali e applicabili a ogni essere, sia materiale che immateriale, devono far astrazione da ogni materia ed appartenere al terzo grado d’astrazione.
Il primo grado, quello della fisica, astrae soltanto dalla materia individuale: ad esempio, dall’acqua di questo fiume e dall’acqua di quel torrente per considerare la natura dell’acqua e le sue proprietà.
Il secondo grado di astrazione, quello delle matematiche, astrae da tutte le qualità sensibili per considerare la quantità, sia discreta (i numeri) sia continua (l’estensione, le sue figure e le sue dimensioni).
Il terzo grado d’astrazione, in metafisica, astrae da ogni materia ed è in tal modo che ci permette di conoscere le leggi più universali dell’essere e dell’agire, che si applicano a tutti gli esseri così materiali che immateriali.
Obbiettasi pure che non tutti i principî di San Tommaso appaiono sicuri. A questo i tomisti rispondono che tali principî richiedono uno studio approfondito per vedere il loro collegamento ai primissimi principî della ragione naturale e del reale; ai principî d’identità o di contraddizione, di ragion d’essere, di causalità efficiente, di finalità. Mostreremo in seguito che la distinzione di potenza ed atto si impone assolutamente per conciliare il principio d’identità o di contraddizione (prima legge del pensiero e del reale) affermato da Parmenide, col divenire e la molteplicità affermati da Eraclito, alle origini della storia della filosofia greca.
Lo sforzo metafisico necessario per apprezzare la necessità dei principî formulati da San Tommaso è così utilissimo per difendere le verità del senso comune. Di più: è necessario perché il senso comune non può filosoficamente difendersi da sè contro le false filosofie, non può difendere il valore reale delle nozioni prime confuse di cui si serve. Il lavoro filosofico che è passato a poco a poco dalle nozioni prime confuse alle nozioni prime distinte è indispensabile perché tale difesa acquisti un valore filosofico. È quello che non ha saputo comprendere Tommaso Reid coi suoi discepoli. E sarebbe cadere in uno strano inganno il confondere il suo punto di vista con quello di Tommaso d’Aquino. Vi ha fra questi due Tommasi una distanza smisurata.
Voler mantenere le affermazioni immutabili della dottrina cristiana sostenendo che le nozioni che le compongono sono continuamente mutevoli, significa non scorgere che sotto le nozioni distinte o filosofiche, per esempio di natura e di persona, vi sono le nozioni confuse ed immutabili della ragione naturale e del senso comune, senza le quali quelle affermazioni non avrebbero alcuna immutabilità. Ma queste nozioni confuse del senso comune bisogna difenderle filosoficamente. È ciò che facevano Aristotile e San Tommaso passando metodicamente dalle definizioni nominali alle definizioni reali, secondo un doppio processo ascendente e discendente come essi spiegano negli Analitici posteriori l. II. Lez. 6 ad 20.
Si obbietterà infine che l’obbedienza alla Santa Sede non potrebbe domandare l’adesione al tomismo senza diminuire la libertà dello spirito e della ricerca intellettuale.
Non si tratta di aderire al tomismo come alle verità di fede definite dalla Chiesa, ma di riconoscere il grande valore filosofico e teologico che i Pontefici gli hanno sempre riconosciuto, sino al punto di chiedere che la filosofia e la teologia siano insegnate «ad Angelici Doctoris rationem, doctrinam et principia, eaque sancte teneant» (can. 1366),
Lungi dal diminuire la vera libertà della ricerca intellettuale, la si aumenta, la si rende più perfetta, procurandole tanto maggiore slancio in quanto essa ha un più fermo punto d’appoggio, e liberandola dall’errore secondo la parola del Maestro: «Cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos» (Joan. VIII, 32), in luogo di abbandonarsi ad una fluttuazione perpetua.
Infine che cosa occorre per studiare con frutto il tomismo? qual metodo seguire?
1) Bisogna considerarlo nella sua totalità organica e non in modo frammentario. Non lo si comprende che alla luce dei suoi stessi principî che esigono di essere approfonditi. Altrimenti non lo si conosce che esteriormente, come si conoscerebbe una città per aver attraversato i suoi quartieri periferici, senza aver visitato la sua piazza centrale dalla quale irraggiano in ogni direzione tutte le sue vie.
2) Occorre uno schietto e profondo amore per la verità in se stessa, considerata oggettivamente, al disopra di ogni pragmatismo soggettivo anche religioso e al disopra di ogni moda intellettuale, passeggera come ogni moda. La verità non è ciò che noi vogliamo, o la conformità di certi giudizi coi nostri desideri più o meno retti. La verità non è neppure ciò che piace a questa o a quella generazione, e che verrà sdegnata dalla generazione successiva. Trenta o quarant’anni or sono bisognava essere bergsoniani per godere nel mondo intellettuale di qualche considerazione: oggi il bergsonismo è già passato di moda. La verità non è cio che piace, ma ciò che è, ed essa si trova anzitutto nelle leggi fondamentali del reale che sono altresì quelle del pensiero, dell’intelligenza naturale e di ogni pensiero degno di questo nome.
3) Per studiare il tomismo con frutto occorre una vera docilità verso San Tommaso: non stimarsi superiore a lui, così come fanno, in modo più o meno cosciente, certi storici della filosofia che considerano la sua dottrina come una delle tante e che lo giudicano dall’alto, senza mai rendersi conto che una delle più grandi grazie elargite da Dio alla sua Chiesa è stata quella di farle dono d’un S. Agostino e di un S. Tommaso. Storici per altro che non superano intellettualmente un certo relativismo nè mai raggiungono la fermezza dottrinale. Per esempio essi riconoscono nella dottrina di potenza e di atto soltanto una mirabile ipotesi o un postulato liberamente accettato dallo spirito, senza rendersi conto che le prove della esistenza di Dio, fondate su questa dottrina, perderebbero in tal modo ogni valere dimostrativo e non supererebbero il probabilismo speculativo.
Per conoscere anche più e meglio la dottrina di San Tommaso bisogna amarla: allora si scorge presto ciò che potrebbe diminuirla ed alterarla, così come, quando si ama il Vangelo e la Chiesa si intuisce subito ciò che ad essi si oppone. È colui che ama che possiede queste intuizioni, dicono i Santi.
4) Infine occorrono umiltà e preghiera nella ricerca della verità. La verità infatti è sotto diversi punti di vista una e molteplice, semplice e complessa, manifesta e misteriosa. Non si può raggiungerla nella sua profondità ed elevazione che seguendo i grandi genii che Dio ci ha dato come fari e come guide. Altrimenti noi rassomigliamo a colui che si propone l’ascensione di un’alta montagna senza guida esperta, esponendosi quindi al pericolo dì cadere in qualche precipizio. È ciò che avvenne più volte: in filosofia a Descartes, Malebranche, e più ancora a Spinoza, Hume, Kant, Fichte, Hegel e tanti altri, in teologia ai Pelagiani e in senso opposto a Lutero, Calvino e Giansenio.
Nella ricerca del vero è indispensabile unire l’umiltà alla preghiera. Allora lo studio del tomismo è fruttuoso e ci si rende conto sempre più della profondità ed altezza che ha il pensiero dì San Tommaso: lo si scopre sotto la sua semplicità, che fa pensare a quella di Dio.
Noi commentiamo la sua Somma Teologica articolo per articolo da circa quarantacinque anni, e abbiamo l’impressione di non conoscere bene la struttura interna di un grande trattato, come quello della SS. Trinità, che quando noi lo commentiamo per la terza o la quarta volta. La Somma Teologica di San Tommaso è come una grande foresta che non si giunge a conoscere se non dopo averla percorsa sovente in tutti i sensi e le direzioni, come una catena di montagne, la cui configurazione dipende da quella di qualche grande cima sovrastante dì cui bisogna aver fatto più volte l’ascensione. Chiedete ai geografi che conoscono bene le Alpi o i Pirenei come a questo sono pervenuti. Non è sufficiente aver studiato la Somma Teologica come può fare uno storico per conoscerla bene. Bisogna aver avanzato in tale studio molto più oltre, bisogna essersela assimilata; diciamo più esattamente: essa è un tale nutrimento superiore che non ci assimiliamo, ma dal quale noi siamo assimilati.
Per questo appunto lo studio dei migliori commentatori, come Cajetano e Giovanni di San Tommaso, riesce utile, come guide che si consultano per una ascensione difficile.
Così con la docilità e l’umiltà unite alla preghiera una buona intelligenza può arrivare ad una conoscenza molto fruttuosa di questa dottrina di cui scoprirà sempre meglio il valore.
Per mezzo di essa si giungerà a quella conoscenza saporosa e feconda di cui parla il Concilio Vaticano, quando dice (Denz. 1796): «Ratio fide illustrata, cum sedulo, pie et sobrie quaerit, aliquamDeo dante mysteriorum intelligentiam eamque fructuosissimam assequitur, tum ex eorum, quae naturaliter cognoscit, analogia, tum e mysteriorum ipsorum nexu inter se et cum fine hominis ultimo».
Questa intelligenza dei misteri — torniamo a ripeterlo — è data dalla conformità dell’intelletto con la stessa realtà divina e non solo con le esigenze soggettive dell’azione umana. In questa nuova dichiarazione della Chiesa è sempre sottintesa la definizione tradizionale della verità che è la conformità dell’intelletto con la realtà stessa extramentale. È ben questa la nozione della verità che il tomismo difende costantemente, come apparirà chiaro dalle sue principali tesi metafisiche che ora considereremo.
Come noi abbiamo mostrato altrove, il tomismo ha così una grande potenza d’assimilazione (non diciamo d’adattamento). Esso accetta tutto ciò che c’è di positivo e di dimostrato nelle altre concezioni, ma rigetta ciò che esse negano indebitamente. È così come una sintesi superiore al di sopra dei sistemi opposti fra loro: al di sopra dell’evoluzionismo di Eraclito e dell’immobilismo di Parmenide, con la sua dottrina dell’essere diviso in potenza ed atto. È anche al di sopra del meccanismo e del dinamismo con la sua dottrina della materia e della forma; al di sopra del materialismo o sensualismo e dell’idealismo platonico, con la sua dottrina dell’anima forma del corpo; al di sopra del determinismo psicologico e del libertismo poiché ammette che l’elezione libera è sì sempre diretta dall’ultimo giudizio pratico, ma essa stessa accettandolo fa che sia l’ultimo. Esso è anche al di sopra del panteismo che assorbe Dio nel mondo e di quello che assorbe il mondo in Dio; per la stessa ragione è, con la sua dottrina della mozione divina, al di sopra dell’occasionalismo che sopprime le cause seconde e del molinismo che sottrae la causa seconda alla premozione divina.
Anche dal punto di vista sociale, il tomismo si tiene al di sopra del Comunismo di stato, che assorbe l’individuo nello Stato, e dell’individualismo che misconosce le esigenze del bene comune, oggetto della giustizia sociale. Per S. Tommaso l’individuo (ut pars societatis) è subordinato alla specie e alla società, ma la società è subordinata alla persona che deve tendere verso Dio.
Il tomismo ammette così che c’è più nel reale che in tutti i sistemi. Perchè? Perché la realtà, soprattutto la realtà divina, è incomparabilmente più ricca di tutte le nostre concezioni filosofiche. «Ci sono più cose in cielo e sulla terra che in tutta la nostra filosofia» dice un personaggio di Shakespeare. Leibniz diceva: «I sistemi filosofici sono veri in ciò che essi affermano e falsi in ciò che essi negano». Ma Leibniz diceva così come eclettico. Il tomismo non è un eclettismo, giacché ha i suoi principî direttivi, necessari ed universali, soprattutto quello della divisione dell’essere in potenza e atto e del primato dell’atto; ciò che l’obbliga a risalire sempre all’Atto puro principio e fine di tutte le cose.
*Réginald Garrigou-Lagrange O.P., Professore di Dogmatica alla Facolta di Teologia dell’Angelico di Roma, Da: Essenza ed attualità del Tomismo, Roma 1946, pag. 13-39, Fonte: Progetto Barruel

Tomistica. L’eccellenza del Tomismo

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Prosegue con questo testo del noto tomista del XX secolo, la raccolta “tomistica” di Radio Spada a cura di A. Giacobazzi e P. Seveso. Grassettature e sottolineature nostre. [RS]
di Réginald Garrigou-Lagrange
II. — L’eccellenza del Tomismo
Secondo le testimonianze di parecchi Papi, la dottrina di San Tommaso è la sintesi filosofica e teologica più perfetta e la più sicura espressione della verità tanto nell’ordine della natura che in quello della grazia.
Richiamiamo alla memoria le parole di Leone XIII nell’Enciclica Aeterni Patris: «Jam vero inter scholasticos Doctores, omnium princeps et magister, longe eminet S. Thomas Aquinas, qui, uti Cajetanus animadvertit, veteres doctores quia summe veneratus est, ideo intellectum omnium quodammodo sortitus est (In II. q. 148, a. 4 in finem). Illorum doctrinas, velut dispersa cujusdam corporis membra in unum S. Thomas collegit et coagmentavit, miro ordine digessit et magnis incrementis ita adauxit, ut catholicae Ecclesiae singulare praesidium et decus jure meritoque habeatur… Nulla est philosophiae pars, quam non acute simul et solide pertractarit… Illud etiam accedit, quod philosophicas conclusiones Angelicus Doctor speculatus est in rerum rationibus et principiis, quae quam latissime patent et infinitarum fere veritatum semina suo velut gremio concludunt, a posterioribus magistris opportuno tempore uberrimo cum fructu aperienda… Praeterea rationem, ut par est, a fide apprime distinguens, utramque tamen amice consocians, utriusque tum jura conservavit, tum dignitati consuluit, ita quidem ut ratio ad humanum fastigium Thomae pennis evecta, jam fere nequeat sublimius assurgere; neque fides a ratione fere possit plura aut validiora adiumenta praestolari, quam quae iam est per Thomam consecuta.». [8] Leone XIII cita pure le seguenti parole di Innocenzo VI:
«Hujus (Thomae) doctrina prae coeteris, excepta canonica, habet proprietatem verborum, modum dicendorum, veritatem sententiarum, ita ut nunquam qui eam tenuerint, inveniantur a veritatis tramite deviasse, et qui eam impugnaverit, semper fuerit de veritate suspectus» [9] (Serm. de S. Thoma).
S. Roberto Bellarmino dice egualmente di S. Tommaso nella introduzione al suo trattato della Santa Trinità: «Tanto si quidem ordine, tanta facilitate, tanta brevitate nobis omnia proponit, ut ego affirmare audeam, si quis diligenter has D. Thomae paucas quaestiones incumbat nihil ei difficile vel in Scripturis, vel in Conciliis vel in Patribus de Trinitate futurum; et plus omnino profecturum aliquem si duobus mensibus dat operam S. Thomae quam si per multos menses in Scripturis et Patribus legendis versetur» [10]. Il Papa Giovanni XXII ha detto pure: «Ipse (S. Thomas) plus illuminavit Ecclesiam quam omnes alii Doctores; in cuius libris plus proficit homo uno anno quam in aliorum doctrina toto tempore vitae suae. [11]».
La ragione intrinseca fondamentale della eccellenza del tomismo, sotto il punto di vista filosofico, è facile ad afferrarsi. Tale eccellenza proviene da ciò che essa e anzitutto una metafisica, che considera ogni cosa non in rapporto al movimento, al fieri, né in rapporto all’io umano o all’azione umana, bensì in rapporto all’essere (natura ed esistenza delle cose), cioè in rapporto al primo intelligibile, oggetto proprio della metafisica. Per questo il tomismo differisce notevolmente dalle dottrine che sono innanzi tutto una fisica o una filosofia naturale, oppure una psicologia, oppure una etica o un dogmatismo morale, e che non risalgono sufficientemente alle nozioni prime ed ai principî primi dell’essere in quanto essere o del reale [12].
L’eccellenza del tomismo, sotto il punto di vista filosofico, proviene in secondo luogo da ciò che esso risolve tutti i grandi problemi mediante la divisione dell’essere in potenza e atto, ammettendo il primato dell’atto.
Questa divisione s’impone, secondo il tomismo, per conciliare il primo principio della ragione e dell’essere (il principio d’identità o di non contraddizione) col divenire e la molteplicità degli esseri affermati dall’esperienza.
Secondo il principio d’identità «l’essere è l’essere e il non-essere è il non-essere», ciò che equivale a dire «l’essere non è il non-essere»: è questo l’enunciato, il più semplice del principio di non contraddizione. D’altra parte ciò che diventa non è ancora ciò che sarà, ma può esserlo; bisogna dunque distinguere in esso la potenza e l’atto: nella germinazione della pianta vi è l’attuazione progressiva d’una potenza reale, d’una capacità di perfezione che riceverà la forma specifica, la struttura essenziale della quercia o del faggio. Nello stesso modo la molteplicità delle querce non si spiega che distinguendo in ciascuna la forma specifica della quercia e la materia capace di riceverla, la quale è essa pure una reale capacità di perfezione. Da questi primi principî derivano i caratteri essenziali del tomismo dal punto di vista filosofico: dottrina realista, intellettualista, teocentrica.
È una dottrina realista giacché ammette il primato dell’essere sulla conoscenza, concepita come essenzialmente relativa all’essere; la nostra conoscenza intellettuale parte infatti dall’idea dell’essere presupposta da tutte le altre, e si compie nel giudizio, l’anima del quale è il verbo essere. Questo realismo non diminuisce in niente la vitalità e l’immanenza dell’atto del conoscere, ma afferma il suo valore in rapporto all’essere extramentale.
Il tomismo è inoltre una dottrina intellettualista giacché ammette la superiorità dell’intelligenza (facoltà dell’essere) sulla volontà che essa dirige. Questa dottrina, che vale per l’intelligenza divina come per l’intelligenza umana, si oppone fortemente all’arbitrario «stat pro ratione voluntas». Ma essa salvaguarda veramente il libero arbitrio rispetto ad ogni bene che non sia il bene universale nella sua pienezza. Essa garantisce pure perfettamente la superiorità della carità, affermando che quaggiù l’amore di Dio, in quanto conduce a Lui, è più perfetto della conoscenza di Dio che attira per così dire Dio a noi, imponendogli in certo modo il limite delle nostre idee ristrette e finite.
Infine il tomismo è una dottrina teocentrica che afferma il primato di Dio, Atto puro, su tutto il creato, perché l’atto è più perfetto della potenza. C’è di più in ciò che è, che in ciò che diviene. Dio è dunque, non il divenire universale, ma l’Essere stesso eternamente sussistente, infinitamente più perfetto nella sua pienezza di tutto ciò che partecipa alle sue perfezioni. Ne segue che nulla esiste e nulla persevera nell’esistenza se non per Dio creatore e conservatore e che nessuna creatura può agire senza il suo concorso, neppure la creatura libera. Nessuna creatura può infatti passare dalla potenza all’atto che sotto l’influenza d’una causa superiore in atto e, in ultima analisi, sotto l’influenza dell’Agente Supremo che solo è la sua attività, Atto puro, che solo è l’Essere stesso, il Bene stesso e la suprema libertà di cui la nostra non è che una partecipazione, nobile certamente, ma sempre limitata.
Questi tre caratteri: realismo, intellettualismo, teocentrismo sono l’essenza stessa del tomismo.
Da essi derivano gli altri caratteri: la sua unità organica, l’universalità, l’elevazione, la profondità dei suoi principî, la proprietà dei termini, la manifesta armonia e il perfetto equilibrio delle parti.
La sua unità non è artificiale o fittizia come quella di un sistema eclettico, privo di principi direttivi e che raccatta bene o male elementi a destra e sinistra; essa non è forzata o imperiosa, come farebbe un sistema troppo stretto, fondato sopra una idea-madre incapace di spiegare, senza violentarli, i diversi aspetti del reale. È una unità organica, simile a quella d’un vivente, una unità fondata sulla natura stessa delle cose, non solamente sulla coordinazione degli agenti creati e di Dio, ma sulla subordinazione di tutte le cause alla Causa suprema.
La necessità, l’universalità, l’elevazione e la profondità dei principî del tomismo provengono da ciò che nell’ordine naturale essi sono fondati su una nozione di tutte la prima, la più universale, quella dell’essere che ha per proprietà l’uno, il vero, il bene e il bello. Sono poi fondati sulla primissima divisione dell’essere in potenza ed atto, con l’affermazione della priorità dell’atto sulla potenza. Tutti i problemi filosofici si illuminano alla luce di questi principî che soli permettono di spiegare il divenire, le sue forme svariate e la molteplicità degli esseri in dipendenza dalla Causa prima.
Nell’ordine teologico, la necessità, l’universalità, l’elevazione e la profondità dei principî del tomismo provengono da ciò che essi sono fondati sulla natura stessa di Dio, sulla Sua Deità nella quale si identificano senza distruggersi le perfezioni assolute: l’Essere stesso eternamente sussistente, la suprema Sapienza e la sovrana Bontà. Tutti i trattati teologici di San Tommaso, quello di Dio, Uno e Trino, quello della creazione e del governo divino, quello della Incarnazione redentrice, quello dei Sacramenti, quello del fine ultimo degli atti umani, quello delle virtù e dei doni, quello della grazia, si illuminano alla luce di questi principî superiori, mentre si farebbe violenza al loro oggetto volendolo spiegare conprincipî meno elevati, e meno universali, come lo sarebbe una definizione discutibile della libertà umana, o principî d’una filosofia dell’azione (umana), capace di fondare tutt’al più un dogmatismo morale, in cui la verità si definisce non più in funzione dell’essere, ma in funzione della nostra azione umana la cui rettitudine profonda resterebbe sempre un problema.
La proprietà dei termini è sempre stata ritenuta dai Sommi Pontefici come una caratteristica del tomismo. Si legge nell’Ufficiatura di San Tommaso: «Stylus brevis, grata facundia: celsa, clara, firma sententia». Questa proprietà dei termini proviene dal fatto che i concetti e i giudizi che essi esprimono furono considerati alla luce obbiettiva dell’essere e dei principî, allo scopo di conoscere la natura delle cose e le loro proprietà e non solamente, come in ogni pragmatismo, allo scopo di dirigere l’attività umana verso un dato fine che si suppone buono. Per questo il tomismo esclude, quando gli è possibile, la metafora, sorgente di confusione e d’inesattezza; esso non vi ricorre che quando mancano i termini propri, e allora esso dice espressamente che parla in modo metaforico. Il filosofo che, all’opposto, comincia con l’esprimersi in metafore, quando potrebbe e dovrebbe conservare la proprietà dei termini, si condanna ad un eterno «press’a poco», in modo che non è più dato distinguere nelle sue prove e nelle sue asserzioni, quelle che sono solamente probabili da quelle che sono veramente certe.
L’armonia delle parti nella dottrina di San Tommaso si afferma non meno. Essa deriva da una virtù che egli possedeva in grado squisito: il senso cioè della misura, dell’equilibrio, che giammai gli permetteva di porre in maggior luce un elemento a svantaggio di un altro.
Sotto questo rapporto egli è il massimo classico della teologia, assai contrario a tutte le esagerazioni romantiche che drammatizzano a capriccio i grandi problemi e giungono a tali antinomie fra la tesi e l’antitesi da rendere impossibile il raggiungere la sintesi superiore che concilierebbe veramente e immutabilmente i diversi aspetti del reale. In tal modo alle grandi verità si sostituiscono i grandi problemi giammai risolti e che già si considerano come insolubili. Nella dottrina di San Tommaso vi ha un’armonia manifesta fra il senso e l’intelligenza, fra la conoscenza tradizionale e lo sforzo personale per approfondire la tradizione, fra l’intelligenza e la libertà, fra la ragione e la fede, e da qui deriva l’equilibrio delle altre parti subordinate.
I sensi forniscono alla intelligenza la materia della sua considerazione, ma essa stessa giudica del loro valore alla luce dei principî e delle nozioni prime astratte delle cose sensibili. La tradizione dirige il nostro sforzo, ma questo, assimilandosi il contenuto dell’apporto tradizionale, giudica sempre meglio del suo valore intrinseco. L’intelligenza dirige la libertà, ma il consentimento libero, accettando il giudizio pratico, fa che questo sia l’ultimo e termini la deliberazione. La ragione ci dimostra essere ragionevole credere, a cagione dei segni che accompagnano la rivelazione divina, e questa conferma a sua volta le viste superiori della ragione su Dio, su l’anima spirituale e la vita futura. Come diceva Leone XIII nell’Enciclica Aeterni Patris: Qua propter qui philosophiae studium cum obsequio Fidei christianae coniungunt ii optime philosophantur; quando quidem divinarum veritatum splendor, animo exceptus, ipsam juvat intelligentiam; cui non modo nihil de dignitate detrahit, sed nobilitatis, acuminis, firmitatis plurimum addit» [13].
La filosofia aristotelica non riceve così il suo pieno sviluppo nelle grandi questioni sull’anima spirituale ed immortale, sulla libertà, su Dio e la libertà dell’atto creatore se non con San Tommaso, mercé il cui profondo pensiero la filosofia giunge all’età adulta. Occorrevano il clima cristiano e la luce della divina rivelazione, stella rectrix, che mostrava dall’alto la mèta da raggiungere, la vetta alla quale con le sole sue forze la ragione doveva pervenire. Colui che ci addita il termine dell’ascesa ci è sì d’aiuto, ma dobbiamo noi stessi camminare con le forze nostre per giungervi.
Tali sono le ragioni dell’eccellenza del tomismo. Esso, come filosofia, è soprattutto una metafisica che considera ogni cosa non in rapporto al divenire, nè in rapporto all’io umano o alla nostra azione, ma in rapporto all’essere e all’essere distinto in potenza ed atto, affermando la superiorità dell’atto. Da tale punto di vista superiore esso giudica di tutti i problemi filosofici. Ne risulta perciò una dottrina realista, intellettualista e teocentrica. Questo appartiene alla sua stessa essenza. Altri suoi caratteri ne derivano: l’ammirabile unità, l’universalità, l’elevatezza, la profondità dei suoi principî, la proprietà del termini per chiarire le più difficili questioni, l’armonia manifesta delle sue parti e in particolare dei tre ordini: quello della conoscenza sensibile, quello della conoscenza intellettuale naturale, quello della conoscenza soprannaturale che, molto al di sopra della filosofia e della conoscenza naturale degli angeli più elevati, raggiunge la vita di Dio e i misteri della SS. Trinità, dell’Incarnazione redentrice e della beatitudine eterna.
Questi caratteri del tomismo diminuiscono e anche spariscono nell’eclettismo quale si trova nelle opere di Suarez e dei suoi discepoli. Suarez volle trovare una via di mezzo fra San Tommaso e Scoto, ma oscilla spesso fra l’uno e l’altro ed inclina a volte verso il nominalismo, senza rendersi conto della deviazione dì quest’ultimo. Ciò si vedrà più avanti per la posizione presa da Suarez riguardo alle principali tesi della metafisica tomista di cui noi richiameremo il fondamento e la connessione.
Questo eclettismo diminuisce le forze della ragione speculativa ed inclina praticamente verso un certo fideismo poco cosciente in cui ogni vita intellettuale, seria e profonda, sparisce.
Da qui il poco vigilante interesse, la scarsa reazione che provocano le tesi antitomistiche più arrischiate e sovversive.
*Réginald Garrigou-Lagrange O.P., Professore di Dogmatica alla Facolta di Teologia dell’Angelico di Roma, Da: Essenza ed attualità del Tomismo, Roma 1946, pag. 13-39, Fonte: Progetto Barruel

Tomistica. Essenza ed attualità del Tomismo: Recenti deviazioni

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Fonte: http://www.radiospada.org/

Prosegue con questo testo del noto tomista del XX secolo, la raccolta “tomistica” di Radio Spada a cura di A. Giacobazzi e P. Seveso. Grassettature e sottolineature nostre. [RS]

di Réginald Garrigou-Lagrange*
L’attualità del Tomismo e i bisogni del nostro tempo
Diverse recenti pubblicazioni più o meno errate sulla natura e il metodo della teologia ci offrono l’occasione di richiamare il valore che la Chiesa riconosce alla dottrina di San Tommaso, e di mostrare come essa risponda ai bisogni più urgenti dell’ora presente, nel disordine che turba tante intelligenze,
I. — Recenti deviazioni
Tale disordine si manifestò già all’epoca in cui prese a pullulare il modernismo, di cui i 65 errori condannati dal Decreto «Lamentabili» e dall’Enciclica «Pascendi» erano quasi tutti, se non tutti, delle eresie, e talune di esse eresie fondamentali sulla natura stessa della rivelazione e della fede ridotta a pura esperienza religiosa.
Era l’indizio, non d’una crisi della fede, ma d’una assai grave malattia delle intelligenze, la quale le conduceva, sulle tracce del protestantesimo liberale e attraverso il relativismo, allo scetticismo assoluto.
Per apportare rimedio a questo male, in gran parte dì ordine filosofico, Pio X richiamò — come già aveva fatto Leone XIII — la necessità dì fare ritorno alla dottrina di San Tommaso, e disse anche nell’Enciclica «Pascendi»: — Magistros autem monemus, ut rite hoc teneant Aquinatem vel parum deserere praesertim in re Metaphysica, non sine magno detrimento esse: Parvus error in principio, sic verbis ipsius Aquinatis licet uti, est magnum in fine — Così pure nel Motu proprio Sacrorum Antistitum1 Sept. 1910 [1]. Malgrado questo richiamo, alcuni spiriti continuarono, coscientemente o inconsciamente, nell’opera di discredito della filosofia e teologia scolastica che non rispondevano più secondo essi alle esigenze della vita, neppure della vita interiore che permettono, ci dicono, di giudicare di ogni cosa. Alcuni sostenevano persino non essere, in fondo, la teologia che una spiritualità, una esperienza religiosa che ha trovato la sua espressione, intellettuale. E spesso si giungeva a scrivere «esperienza religiosa» ove si avrebbe dovuto dire «fede cristiana e cattolica», dimenticando che l’oggetto proprio della esperienza religiosa anche la più autentica è assai ristretto in paragone di quello della fede che essa presuppone. Il giusto quaggiù esperimenta l’affetto filiale che lo Spirito Santo gli ispira a proprio riguardo, ma non ha esperienza della creazione libera ex nihilo, nè della distinzione reale delle Tre Persone divine, nè dell’Unione ipostatica, nè del valore infinito della Redenzione e della Messa, nè della vita eterna dei beati, nè dell’eternità delle pene, e tutto ciò egli lo crede infallibilmente perchè Dio l’ha rivelato, come la Chiesa lo propone. L’esperienza religiosa autentica, che procede dai doni di scienza, di intelletto, di sapienza, di pietà, presuppone la fede, ma non si identifica con essa.
Alcuni sono condotti da tali gravi confusioni a proporre un mutamento nella stessa definizione della verità, e riproducono questo giudizio d’un filosofo contemporaneo: «All’astratta e chimerica adaequatio rei et intellectus si sostituisce la ricerca metodica del diritto: l’adaequatio realis mentis et vitae [2]». La verità non è più la conformità del nostro giudizio col reale extramentale (con la natura e l’esistenza delle cose), ma la conformità del nostro giudizio con la vita umana che si evolve costantemente e le cui esigenze sono conosciute dalla esperienza religiosa.
Resta però a vedersi se questa esperienza religiosa o spiritualità ha un fondamento obbiettivo, e se l’azione o la vita di cui si rivendica il primato (come nella filosofia dell’azione) è la vera vita, l’azione realmente ordinata al vero fine supremo. Come giudicare di quest’ultimo se non per conformità al reale, diceva San Tommaso [3], ritornando così alla tradizionale definizione della verità?
L’azione vera si definisce in rapporto al vero fine ultimo a cui essa dice ordine e non viceversa; altrimenti noi non usciremmo dal soggettivismo, dal relativismo, dal pragmatismo.
Si è in questi ultimi tempi talmente voluto screditare la teologia scolastica che alcuni giunsero a sostenere che essa non può dedurre con certezza, per mezzo di una minore razionale, nessuna conclusione teologica, neppure questa: «Il Cristo (essendo veramente uomo) deve avere una volontà umana soggetta alla sua volontà divina.» Questa conclusione non sarebbe, si dice, più rigorosa di quest’altra: Il Cristo (essendo veramente uomo) deve avere una personalità umana soggetta alla sua personalità divina. Ciò significa dimenticare che la teologia deduce le sue conclusioni al lume dei misteri rivelati, qui del mistero dell’Incarnazione, secondo il quale non vi ha in Gesù Cristo che una persona ed una personalità.
Si è anche giunti a dire che la teologia speculativa oggi non sa nè ciò che essa vuole, nè dove è incamminata. È la conclusione cui devono giungere quanti trascurano i principi stessi della dottrina di San Tommaso, proprio come se un geometra, dimenticando i principî della propria scienza, uscisse a dire: Oggi la geometria non sa nè quello che vuole, nè dove va.
Da qui non vi ha che un passo al disprezzo delle prove teologiche, comunemente accolte, persino di quelle ricavate dalla Santa Scrittura e dalla Tradizione, che presuppongono di già una certa analisi concettuale elementare dei dogmi rivelati (quella stessa che sviluppa in seguito la teologia speculativa per dare l’intelligenza dei dati rivelati prima di dedurre delle conclusioni).
Per taluni, molte di queste prove non conserverebbero il loro valore che ammettendo un aumento interiore ed obbiettivo del deposito rivelato, anche dopo la morte dell’ultimo apostolo. In tal modo si arriva a parlare della relatività e anche della fragilità delle forme dogmatiche, come se esse non fossero che una esperienza religiosa che si evolve incessantemente, come se in queste formule dogmatiche il verbo essere non fosse sempre immutabilmente vero. Nondimeno il Salvatore ha detto: «Ego sum via, veritas et vita» (Io., XIV, 6); «Coelum et terra transibunt verba autem mea non praeteribunt» (Matt. XXIV).
Si è sostenuto, in una recente pubblicazione, a proposito della grazia abituale e della grazia attuale, che le nozioni di cui si servono gli stessi Concilî nelle loro definizioni non sono immutabili e nondimeno si pretende di mantenere che le definizioni conciliari sono immutabilmente vere. Come potrebbe, in queste definizioni conciliari, il verbo essere (anima del giudizio) dare immutabilità a una proposizione di cui i due termini sono continuamente mutevoli? Altrettanto varrebbe dire che un gancio di ferro può tenere immobilmente unite le onde del mare. Come può un giudizio avere un valore immutabile se non vi è immutabilità nella prima apprensione, nelle nozioni stesse che questo giudizio riunisce?
Si dimentica che sotto le nozioni astratte o filosofiche, per esempio di natura, di persona, vi sono le nozioni confuse ed immutabili della ragione naturale e del senso comune, senza le quali le affermazioni di cui si parla non avrebbero alcuna immutabilità.
È ciò che noi abbiamo mostrato nel libro apparso nel 1909: Il senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche.
Si torna così a sostenere che la verità non si deve più definire in rapporto all’essere, come fa il realismo tradizionale, che è anzi tutto filosofia dell’essere; ma che essa si deve definire in rapporto all’azione come nella filosofia dell’azione parente prossimo di quella del divenire [4].
Resta allora la questione: l’azione di cui parlate è vera essa stessa?
Essa non può esserlo che se tende al vero fine ultimo. Ora come giudicare a sua volta di questo ultimo se non per conformità con il reale (ritornando alla definizione tradizionale della verità), come diceva San Tommaso [5] e come l’ha ripetuto Emilio Boutroux nella sua critica molto appropriata alla filosofia dell’azione? [6]
Nelle recenti deviazioni che abbiamo ricordato, la teologia è praticamente poco a poco sostituita dalla storia unita alla psicologia religiosa o a quella del divenire, i cui principali rappresentanti sono citati come delle autorità quasi come un S. Agostino se non più, giacchè hanno un valore di attualità: «La Teologia che non fosse attuale sarebbe una teologia falsa». E si aggiunge che la teologia di San Tommaso non è più attuale.
Il vero non è mai immutabile, ci dicono; il vero è ciò che corrisponde alle esigenze dell’azione umana evolventesi sempre. M. Blondel ha scritto ancora nel 1935 in L’Être et les êtres p. 415: «Nessuna evidenza intellettuale, neppure quella dei principî assoluti per sè, e che possiedono un valore ontologico, ci si impongono con una certezza spontaneamente e infallibilmente costringente».
È quanto dire che prima della libera scelta che ammette la necessità e il valore ontologico di questi principî, essi non sono che probabili; dopo la scelta, questi principî sono veri per la conformità alle esigenze dell’azione o della vita umana; e cioè ancora che essi hanno una certezza soggettivamente sufficiente, ma obbiettivamente insufficiente, come la prova kantiana della esistenza di Dio. Ove conduce tutto questo? A concludere che le prove tomistiche della esistenza di Dio, per sè sole, non sono che probabili.
È appunto questa confusione ed instabilità degli spiriti che mostra l’imprescindibile necessita, come dissero Leone XIII e Pio X, di far ritorno a San Tommaso
Come l’ha fatto osservare Pio X nell’Enciclica Pascendi, il male del quale soffre il mondo moderno è anzitutto un male dell’intelligenza: l’agnosticismo. Esso, sia sotto forma di positivismo empirista sia sotto quella d’idealismo, mette in dubbio il valore ontologico delle nozioni primordiali nonchè dei primi principî della ragione, il che non permette più di provare con certezza obbiettivamente sufficiente, l’esistenza di Dio distinto dal mondo, e quindi neanche di stabilire il fondamento supremo dell’obbligo morale, o quello della legge naturale. La filosofia moderna ci propone una logica ed una critica soggettive, le quali non permettono di giungere alla verità, cioè di conoscere l’essere extramentale. L’ontologia viene soppressa o ridotta all’enunciato dei primi principî, i quali non sono più leggi immutabili dell’essere, ma solamente leggi dello spirito che evolve, leggi del divenire mentale, volitivo o sentimentale. Arriviamo in tal modo ad una psicologia priva d’anima, la quale non conosce se non i fenomeni, cioè il divenire che è alla base dello stato di conoscenza mutevole. La morale diviene allora una morale priva d’obblighi e di sanzioni, posto che non possiamo conoscere il fondamento supremo del dovere, nè il fine ultimo e vero dell’uomo, secondo un giudizio certo di conformità con la realtà. Invece di codesto giudizio necessario vi sono opzioni libere.
In luogo della filosofia dell’essere abbiamo, sia una filosofia dei fenomeni, sia una filosofia del divenire, sia una filosofia dell’azione e delle esigenze di quest’ultima, ossia un volontarismo secondo il quale «la metafisica ha la sua sostanza nella volontà agente» sostituita all’essere ed alle leggi immutabili di questo. Si rinuncia così alla definizione tradizionale della verità: conformità del giudizio con la realtà extramentale, adaequatio rei et intellectus, alla quale viene sostituita la definizione: veritas est conformitas mentis et vitae, la verità è conformità del pensiero con la vita umana sempre in evoluzione. In tal modo eccoci tornati al modernismo (Denz., 2058, 2026, 2079, 2080).
Quanto al fatto della Rivelazione, esso rimane inconoscibile, perché i segni della rivelazione non possono venir stabiliti con certezza obbiettivamente sufficiente. V’è chi dubita persin della possibilità del miracolo, visto che il miracolo sembra in contraddizione col principio di causalità, nella forma in cui esso viene formulato oggi dall’agnosticismo e dal fenomenalismo: «qualsiasi fenomeno presuppone un fenomeno antecedente». Il miracolo sarebbe un fenomeno senza antecedente fenomenale; non possiamo ammetterlo se non quale effetto della fede religiosa o della viva emozione che segue talvolta il sentimento religioso. Arriviamo in tal modo ad una religione fondata sul sentimento religioso e sull’evoluzione naturale di questo. Il cristianesimo ed il cattolicesimo sarebbero la forma più alta di codesta evoluzione, però non vi sono più dogmi immutabili, perché i dogmi vengono espressi da nozioni come quella di natura e di persona, di cui il valore ontologico e trascendente è sempre dubbio.
L’agnosticismo conduce così al naturalismo ossia alla negazione delle realtà soprannaturali.
All’origine di tutti quegli errori v’è, sin dai tempi di Hume e di Kant, il seguente: La relazione essenziale dell’intelligenza con l’essere extramentale viene soppressa; perciò l’intelligenza moderna non può più alzarsi con certezza a Dio, Primo Essere; essa ricade su se stessa e dice finalmente che Dio non esiste nell’ordine trascendente, ma che egli diviene in noi. Fu così che l’agnosticismo di Kant condusse al panteismo di Fichte ed all’evoluzionismo assoluto di Hegel; evoluzionismo che si riscontra nelle forme svariatissime dell’idealismo contemporaneo. L’uomo non vive più di Dio, ma solamente di se stesso e si avvia verso la morte, verso l’angoscia e la disperazione delle quali tratta l’esistenzialismo attuale, che è, come ha detto qualcuno, l’esperienza anticipata non del cielo, ma dell’inferno.
Occorre perciò salvare l’intelligenza, sanarla, farle capire che i primi principî della religione naturale o del senso comune hanno un valore ontologico, che sono leggi dell’essere le quali permettono di giungere alla vera certezza sull’esistenza di Dio, fondamento supremo dell’obbligo morale, come pure alla certezza del fatto della rivelazione di Dio, sulla quale poggiano i dogmi immutabili della fede.
Tale difesa del valore ontologico e del valore trascendentale o analitico delle prime nozioni e dei primi principî, la troviamo nel tomismo; non è questa una difesa superficiale, come quella della filosofia del senso comune proposta dagli scozzesi Reid e Dugald Stewart, ma quanto mai profonda, la quale raccoglie i frutti del pensiero di Socrate, di Platone, di Aristotele, dei Padri della Chiesa e soprattutto di Sant’Agostino. Abbiamo là un patrimonio intellettuale di un valore incommensurabile, il quale restituisce all’intelligenza umana la coscienza di quello ch’essa è difatto, le fa capire nuovamente la sua vera natura, e le permette perciò di ritrovare la via che conduce a Dio, prima causa e ultimo fine, nonché di dirigere la volontà verso tale fine supremo.
Il tomismo corrisponde ai bisogni profondi del mondo moderno, perché restituisce l’amore della verità per se stessa. Ora senza tale amore della verità per se stessa non è possibile ottenere la vera carità infusa, ossia l’amore soprannaturale di Dio per se stesso, né giungere alla contemplazione infusa di Dio ricercato per se stesso, ossia alla contemplazione che procede dalla fede viva arricchita dei doni dello Spirito Santo, d’intelligenza e di sapienza sopratutto.
Come fece osservare giustamente Jacques Maritain nel suo bel libro Le Docteur Angelique, 1929, Annexe I: S. Thomas Apôtre des temps modernes, p. 212: «S. Tommaso, e questo è un beneficio immediato a lui dovuto, riconduce l’intelligenza al suo oggetto, l’orienta verso il suo fine, le restituisce la sua natura. Come potrebbe essa non dargli ascolto? È come se dicessimo all’occhio ch’esso è fatto per vedere, alle ali, ch’esse sono fatte per volare… Nello stesso tempo le viene restituita la semplicità dello sguardo; gli ostacoli artificiali non la fanno più esitare quanto all’evidenza naturale dei primi principî, e tale evidenza ripristina la continuità fra la filosofia e il senso comune». È appunto quello che abbiamo dimostrato nel libro nostro su Il Senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche.
Per il suo realismo, la necessità e l’universalità dei suoi principî, il tomismo ha pure una grande capacità assimilatrice. Esso è in grado di assimilare tutto ciò che è nuovo e vero nelle scoperte delle scienze diverse e quindi la base sperimentale può continuamente venir estesa; a modo dell’organismo umano, il quale conserva la propria struttura sostanziale, v’è nel tomismo un processo d’assimilazione perpetuo. Torneremo ancora su quest’argomento alla fine del capitolo seguente.
*Réginald Garrigou-Lagrange O.P., Professore di Dogmatica alla Facolta di Teologia dell’Angelico di Roma, Da: Essenza ed attualità del Tomismo, Roma 1946, pag. 13-39, Fonte: Progetto Barruel