martedì 5 aprile 2016

Darwinismo e Dottrina Cattolica

darwinismo-neurale
 
 
Pur non accogliendo integralmente lo spirito del testo e determinati riferimento al “magistero” postconciliare, non possiamo ignorare l’interesse di queste righe – pubblicate su Studi Cattolici n. 622, dicembre 2012, a cura di Paolo De Lisi – che volentieri indirizziamo al nostro pubblico. Grassettature nostre. [RS]
 
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Il fisico padre Paolo De Lisi, sacerdote missionario di Maria, espone le te­si di fondo della teoria evoluzionista di Darwin e del neodarwinismo, a partire dalla «selezione naturale», accompagnandola con le af­fermazioni più recenti di scienziati di varie branche della biologia che, con­tro l’opinione comune che ritiene ormai assodate e vere le concezioni dar­winiane, ne evidenziano i punti deboli e superati, intendendo l’evoluzione come dovuta a fattori interni agli organismi più che ambientali. L’autore richiama poi il fatto che anche la Chiesa condanna il darwinismo, ma non l’idea di evoluzione, che sul piano scientifico, conclude lo studio, resta pe­raltro una mera ipotesi probabile.
Dai documenti del Magistero risulta chiaro questo principio: esclusi alcuni punti inaccettabili – che niente hanno a che fare con la vera scienza – non c’è contraddizione tra la dottrina della creazione e le tesi evolutive, purché rettamente insegnate. Attualmente, rileva De Lisi, i reperti fossili non con­sentono di stabilire se l’evoluzione della specie umana sia monogenetica o poligenetica (da una sola coppia o da un gruppo di individui), sicché non viene meno il valore di verità della dottrina tradizionale cattolica del pec­cato originale commesso dal primo uomo e trasmesso ai discendenti per propagazione genetica. Del resto, l’analisi del genoma umano e del Dna mitocondriale ha offerto indizi scientifici a favore del monogenismo.
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Nell’anno 2009 ricorreva il 200° anno dalla nascita di Charles Darwin ( 1809-1882) e il 150° anno dalla pubblicazione della sua famosa opera Sull’Origine delle Specie (1859). Du­rante questo «Anno di Darwin» ci furono numerose celebrazioni e convegni in tutto il mondo. Uno di questi – a cui partecipai di persona – fu il meeting «Evolution Rome 2009» tenuto presso la Gregoria­na, presenti i più famosi scienziati evoluzionisti del mondo. Ciò dimostra che la Chiesa non ha nessun pregiudizio nei confronti delle teorie evolutive. Le idee di Darwin, essendo insegnate nelle scuole di ogni ordine e grado, sono note più o meno a tut­ti. Per comodità del lettore riassumo i punti essen­ziali: 1) tutte le specie viventi derivano, per trasformazione lenta e progressiva durata milioni di anni, da uno o pochi organismi ancestrali (concetto di evoluzione delle specie); 2) La causa di questa «evoluzione» è principalmente la selezione natura le che favorisce gli individui migliori e più adattati all’ambiente ecologico ed elimina quelli peggiori, determinando così, in modo lento e progressivo, l’avanzamento verso specie sempre più complesse e perfezionate. Questo processo, governato solo da leggi naturali, avviene in modo casuale e senza al­cuna finalità. Questa visione brutale e irrazionale del mondo vivente è sintetizzata dalla chiusa del li­bro: «Dalla guerra della natura, dalla carestia e dal­la morte, nasce la cosa più alta che si possa imma­ginare: la produzione degli animali più elevati» (C. Darwin, L’Origine delle specie, Newton Compton, Roma 2010, p. 428).
Alcuni anni dopo (1871) Darwin pubblicò, a coro­namento della sua dottrina, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale. Nella prima sezione del libro egli pone le basi di quella visione materialistica del­l’uomo che ha caratterizzato larga parte della cultu­ra evoluzionista fino ai nostri giorni: «Nondimeno, la differenza mentale tra l’uomo e gli animali supe­riori, per quanto sia grande, è certamente di grado e non di genere: abbiamo visto che i sensi, le intui­zioni, la curiosità, l’imitazione, la ragione ecc, di cui l’uomo si vanta, si possono trovare in una con­dizione incipiente, o anche talora ben sviluppata, negli animali inferiori» (C. Darwin, L’origine del­l’uomo e la selezione sessuale, Newton Compton, Roma, p. 110). Insomma, l’uomo non sarebbe altro che una scimmia un po’ più evoluta, e sarebbe pri­vo di qualsiasi principio spirituale. Per provare che l’uomo discende da forme inferiori porta l’esempio degli indigeni della Terra del Fuoco (cap. XXI) che nel Diario del suo viaggio aveva già definito con disprezzo «selvaggi barbari» la cui differenza dal­l’uomo civile è «maggiore di quella che corre tra gli animali domestici e quelli selvatici» (cfr C. Darwin, The Voyage of thè Beagle: Journal of Researches into thè Naturai History and Geology of thè Coun-tries Visited During thè Voyage of HMS Beagle Round thè World, Under thè Comrnand of Captain FìtzRoy, RN, (1845), Wordsworth Classics reprint, London 1997, pp 198-199). Sostiene poi che le don­ne sono meno intelligenti degli uomini, perciò me­no evolute (L’origine dell’uomo, cit, pp. 424 e 447). Non vorrebbe inoltre alcuna attività assisten­ziale perché queste, preservando gli elementi più deboli, permetterebbero che si riproducano gli indi­vidui peggiori della società (ivi, p. 116). Vorrebbe anche vietare il matrimonio fra persone con difetti ereditari (ivi).
Nascita e crespuscolo del neodarwinismo
Figlio primogenito della dottrina dì Darwin è il neo­darwinismo detto anche teoria sintetica o sintesi moderna. Elaborato negli anni Trenta dai biologi Theodosius Dobzhandsdy, Ernst Mayr, George G. Simpson, J. Huxley e altri, questa teoria apparente­mente nuova cerca di conciliare le idee di Darwin con la genetica mendeliana. Mendel dimostrò che i caratteri ereditari sono trasmessi attraverso unità (i geni) che si mantengono inalterate e si conservano singolarmente a ogni generazione, perciò la regola non è la variabilità, ma la stabilità delle specie. Dar­win, al contrario, riteneva che le specie si modifi­cassero nel tempo in modo quasi continuo (Origine delle specie, cap. II). La teoria sintetica ipotizzò al­lora che alcune mutazioni casuali nella struttura biochimica dei geni, causando piccole variazioni negli organismi, avrebbero determinato, in modo graduale e dopo milioni di anni, la trasformazione di una specie in un’altra più progredita. La selezio­ne naturale operata dall’ambiente avrebbe agito da filtro per mandare avanti le specie più adattate e mi­gliorate ed eliminare le altre. La «sintesi» è una teo­ria complessa e sofisticata, ma essenzialmente riduttiva: tutto si spiega – secondo i suoi seguaci – con l’azione dei geni; l’impianto darwiniano resta comunque conservato.
Il neodarwinismo ha dominato in biologia per più di quarant’anni ed è stato insegnato (e lo è tuttora!) in tutte le scuole. Solo dopo gli anni ’70 cominciò il suo declino, ma sono ancora molti che lo difendono ostinatamente (i cosiddetti «ultradarwinisti»). Esponenti di spicco di questa scuola sono stati Jac­ques Monod e Richard Dawkins. Al di là di tutto l’incenso profuso a Darwin dalla cultura «politicamente corretta», oggi un numero sempre crescente di scienziati ci tiene a distinguere molto bene tra «evoluzione» e «darwinismo» (so­prattutto neodarwinismo). Per esempio, Yves Coppens, uno dei più importanti paleontologi viventi ha affermato (2010): «L’evoluzione è molto più com­plessa e diversificata di quanto Darwin pensasse […]. L’evoluzione come oggi la intendiamo non può più essere definita col nome di darwinismo. Darwinismo ed evoluzione sono ormai due parole ben separate, anche se il darwinismo rappresentò una delle origini della riflessione sull’evoluzione». Più di 800 scienziati (l’elenco è riportato nel sito www.dissentfromdarwin.org) hanno sottoscritto pubblicamente la seguente dichiarazione: «Siamo scettici circa la pretesa che le mutazioni casuali e la selezione naturale possano dar conto della comples­sità della vita. Un attento esame dell’evidenza della teoria darwiniana dovrebbe essere incoraggiato». M. Piattelli Palmarini e J. Fodor, in un noto saggio (Gli errori di Darwin, Feltrinelli, Milano 2010) hanno scritto fra l’altro: «Darwin si sbagliava, non è la selezione naturale il meccanismo che governa l’evolversi delle specie. Nessuno oggi può dire di sapere con certezza come l’evoluzione operi, anche se non c’è dubbio che ciò avvenga». La mappatura di interi genomi, compreso quello umano (2000) e studi approfonditi sulle mutazioni nel Dna hanno evidenziato infatti che la selezione naturale, cardine del darwinismo, non produce al­cuna reale evoluzione. Per esempio, R.E. Lenski da più di vent’anni sta studiando l’evolversi di una stessa coltura di batteri escherichia coli. Ebbene, dopo più di 40.000 generazioni e nonostante fosse­ro avvenute più di un miliardo di mutazioni geneti­che, il batterio non si è affatto evoluto, non sono apparsi nuovi caratteri né è aumentata la sua comples­sità, neanche in abbozzo, neanche aumentando di un fattore 100 i tassi evolutivi (cfr «Nature», 461, 29 October 2009, pp. 1243-1247; «Proc. Nati. Acad. Sci. Usa», 19 Jul. 1994). Studi convergenti di biologia molecolare, di genetica, di paleontologia, di embriologia e altro, hanno evidenziato che è molto più probabile che l’evoluzione sia dovuta a fattori endogeni agli organismi, mentre i processi adattativi e selettivi svolgerebbero un ruolo del tut­to secondario. Sembra sempre più evidente che l’o­rigine delle specie coinvolga processi simili a quel­li che determinano lo sviluppo embrionale (teoria Evo-Devo [evolution & development]) come se ci fosse un programma di autocostruzione governato da una complessa rete di fattori genetici e di fattori epigenetici (modificazioni chimiche dei geni, che danno luogo a strutture viventi differenti nonostan­te il Dna genetico sottostante sia identico). Perciò l’idea neodarwinista per cui l’evoluzione sarebbe dovuta a mutazioni casuali del Dna, non è più sostenibile (Eva Jablonka e altri, 1989, 2006). È inol­tre ormai provata l’esistenza di «vincoli» interni (M. Sarà, 1998) messi già in evidenza da J. Gould più di vent’anni fa, a causa dei quali l’evoluzione può prendere solo alcune direzioni e non altre: dun­que non può procedere a caso, ma deve rispondere a princìpi di «costrizione» (contraints). I fenomeni in gioco sono in definitiva talmente complessi che alcuni teorici propongono di studiare l’evoluzione con il modello delle reti informatiche e la computer science (E. Fox Keller, 2001); altri, contro il ridu­zionismo darwiniano, la studiano con la moderna teoria dei sistemi complessi (S. Kauffman, 1993, 2004, 2008) applicata oggi in molti campi della fi­sica, dell’ingegneria e dell’economia. Si fa strada l’idea che ci sarebbe stato, nell’evoluzione, un qual­cosa come un complesso «programma» inscritto nella natura che avrebbe governato — tenendo conto anche di numerose variabili ambientali – la com­parsa e lo sviluppo della vita sulla Terra. Messo Darwin in cantina, si è cominciato finalmente ad af­frontare scientificamente un altro problema che né lui né i suoi seguaci di oggi hanno mai risolto: il problema delle «forme». Perché i viventi hanno la forma che hanno? Si sta aprendo ora un settore di studi per capire perché gli esseri viventi si struttu­rano secondo precise leggi matematiche che, anco­ra una volta, escludono qualunque evoluzione do­vuta al caso e alla selezione naturale (Saunders, 1980, 1992, Kaufmann, 1993).
La posizione della Chiesa
Quando Giovanni Paolo II affermò che «l’evoluzio­ne non è più una mera ipotesi» (Messaggio alla Pontificia Accademia delle scienze, 22 ottobre 1996), molti giornali scrissero che «finalmente» la Chiesa si era riconciliata con Darwin (per es., Cor­riere della sera, 24 ottobre 1996: «II Papa riabilita l’evoluzionismo»; Repubblica: «Wojtyla a Darwin: qua la mano»). In realtà, il Papa non parlò mai di Darwin e non aveva bisogno di riabilitare chicches­sia. Anzi condannò apertamente quelle «teorie del­l’evoluzione che, in funzione delle filosofie che le ispirano, considerano lo spirito come emergente dalle forze della materia viva o come un semplice epifenomeno di questa materia; sono incompatibili con la verità dell’uomo. Esse sono inoltre incapaci di fondare la dignità della persona». La Chiesa non ha mai avuto bisogno di intervenire espressamente contro il darwinismo: infatti la struttura fondamen­talmente atea di quella dottrina è in sé stessa incon­ciliabile con la fede. Non c’è alcun bisogno di «ri­conciliarsi» con Darwin.
Per quanto riguarda invece l’ipotesi dell’evoluzione generalmente intesa, la Chiesa si è sempre espressa con prudenza e rispetto. Dai documenti del Magi­stero (ufficiale e non) risulta chiaro questo princi­pio: esclusi alcuni punti inaccettabili – che niente hanno a che fare con la vera scienza non c’è con­traddizione tra la dottrina della creazione e le tesi evolutive, purché rettamente insegnate (Giovanni Paolo II). Un articolo del card. Christoph Schònborn, pubblicato sul N. Y. Times del 7 giugno 2005 (http://www.nytimes.com/2005/07/07/opinion/07sc honborn.html) spiega l’esatta interpretazione dei vari interventi pontifici, dimostrando che il darwi­nismo è in sé inconciliabile con la dottrina cattolica perché «le teorie scientifiche che cercano di spazzar via l’apparire del disegno come effetto di “caso e necessità” non sono per niente scientifiche ma, co­me Giovanni Paolo II ha messo in luce, un’abdica­zione dell’umana intelligenza». L’articolo fece il gi­ro del mondo e il cardinale fu accusato da molti (an­che da cattolici!) di creazionismo o di difensore dell’lntelligent Design. L’intervento del card. Schònborn sul N. Y. Times fu però elogiato pubblicamente dallo stesso Benedetto XVI nel convegno su «Crea­zione ed Evoluzione» tenuto a Castel Gandolfo nel settembre 2006.
Monogenismo e monofiletismo
È necessario distinguere tra monogenismo e mono­filetismo. Col primo termine si intende l’origine di tutto il genere umano da un’unica coppia di proge­nitori umani, mentre col secondo si intende l’origi­ne della specie umana da un singolo gruppo di es­seri umani o da un gruppo di creature inferiori che raggiungono quasi simultaneamente il livello uma­no. // monofiletismo è compatibile di per sé sia col monogenismo sia con il poligenismo. Attualmente i reperti fossili non consentono di stabilire se l’evo­luzione della specie umana è monofiletica o polifiletica e forse non lo sarà mai, data l’enorme difficoltà di classificare i reperti stessi. Nel cap. VII de L’Origine dell’uomo Darwin, discutendo dell’origi­ne delle razze umane, sosteneva che queste non so­no specie diverse, ma che hanno origine da un’uni­ca specie umana ancestrale e usa – impropriamente – il termine monogenismo (invece di monofiletismo) per esprimere questo concetto. Non si occupa però della questione se quest’unica specie umana primitiva sia costituita da un’unica coppia di proge­nitori o da più coppie (cfr C. Darwin, L’Origine dell’uomo, cit., pp. 145-147). Il suo discorso è comun­que impreciso, anche se sembra che egli propenda per il monogenismo.
Il fatto che per Darwin la selezione naturale agisca a livello di singoli individui rende ipoteticamente possibile che l’evoluzione della specie umana abbia avuto come punto di arrivo una singola coppia pro­genitrice. Infatti nella lotta per l’esistenza avrebbe potuto – teoricamente – prevalere una sola coppia. Al contrario di Darwin, per il neodarwinismo la se­lezione naturale agisce solo a livello di popolazioni, caratterizzate queste dall’insieme del patrimonio ge­netico complessivo di ciascuna specie, comprese tut­te le varianti (alleli). Di conseguenza, alla fine del processo evolutivo si otterrebbe non qualche indivi­duo perfezionato, ma l’intera, specifica popolazione. Applicando questi concetti alla specie umana ne de­riva che si sarebbe necessariamente evoluto un inte­ro gruppo, più o meno vasto, di individui umani, por­tatori di quel dato patrimonio genetico, favorito, que­st’ultimo, dalla selezione naturale. Il poligenismo – inteso come origine del genere umano da più coppie umane progenitrici — è perciò una conseguenza logi­ca e necessaria della moderna sintesi neodarwiniana.
Monogenismo, poligenismo e peccato originale
Tra gli anni ’40 e ’50 il neodarwinismo raggiunse un grande consenso nella comunità scientifica e fu ampiamente divulgato, al punto che tante persone, non molto addentro alle cose, pensarono – erronea­mente – che si trattasse di una teoria provata. Que­sta opinione influenzò più tardi anche non pochi ac­cademici cattolici e non fa meraviglia che fosse sta­ta presa in considerazione dalla parte più progressi­sta dei teologi del tempo. Nacque allora il tentativo di mettere in discussione la dottrina cattolica tradi­zionale sull’origine dell’umanità e sul peccato ori­ginale per pretenderne la conciliazione con le nuo­ve ipotesi evoluzioniste.
Così, nonostante la chiara condanna del poligeni­smo da parte di Pio XII nell’enciclica Humani Ge­neris (1950), alcuni teologi ed esegeti, tra gli anni ’60 e ’70, cominciarono a sgretolare la dottrina cattolica sull’origine monogenica dell’umanità, e conseguentemente sul peccato originale, proponendo un’interpretazione della Genesi e dei dogmi del Concilio tridentino tale da svuotarne il senso tradizionale, pur mantenendone l’apparenza formale. Tralascio, perché il discorso sarebbe lungo, le idee che su questo punto aveva Teilhard de Chardin per soffermarmi su alcuni dei teologi recenti. Per esempio, Karl Rahner sosteneva esplicitamente: «Non sembra possibile dimostrare in maniera certa e probante che solo un’umanità originante monogenista (quindi un singolo e una coppia) può essere soggetto di quella prima colpa all’inizio dell’umanità… Anche in una umanità originante sorta poligenicamente è possibile pensare che un suo membro singolo o tutti insieme siano stati il soggetto che per primo ha peccato, determinando così quella situazione di non salvezza per tutta l’umanità originata. Mi sembra che per poter affermare questo, però, sia necessario pensare all’umanità originante come un’unità storico carnale anche sul piano della storia della salvezza. Questo presupposto sembra possibile anche in un contesto poligenetico» (Peccato Originale e Evoluzione, in «Concilium», III, 1967, pp. 86 s.). La questione dell’unità del genere umano fu proiettata «al futuro» vedendola più come una chiamata all’unità in Cristo che come uno stato originario passato. Ci si appellava al Concilio Vaticano II che aveva definito la Chiesa come sacramento di unità di tutto il genere umano, cioè segno e strumento della salvezza da raggiungere. Il peccato perciò cominciò a essere visto come un impedimento alla realizzazione di un progetto salvifico che tendeva all’unità fra tutti gli uomini. Ansfridus Hulsbosch proponeva il dubbio «se l’affinità, attraverso la discendenza a livello umano dell’evoluzione, sia veramente il fattore più importante di unità». E osservava che «nell’ordine salvifico cristiano, così come si realizza sulla terra, l’unità è basata su un principio più alto… Non contano più né razza né sesso, decisiva è l’appartenenza a Cristo. Questo nuovo principio di unità ha potuto realizzarsi perché l’uomo vi era già disposto per natura… La dignità di immagine di Dio viene conferita a ogni uomo dal suo Creatore e non dal suo progenitore, e la reciproca unione spirituale tra gli uomini, che ne risulta, supera di gran lunga l’unità che deriva dalla comune discendenza» (Storia della creazione, storia della salvezza: creazione, peccato e redenzione in una prospettiva evoluzionistica del mondo, Vallecchi, Firenze 1967, p. 52). Acquisito questo principio, non era molto difficile presentare la dottrina del peccato originale come indipendente dalla situazione biologica originaria. C. Baumgartner, alla domanda se all’origine del peccato umano vi siano una o più coppie, un solo o più peccati, rispondeva nel 1969: «Queste questioni… non riguardano più la sostanza della fede direttamente. Se le cose stanno così, il monogenismo e il poligenismo sarebbero problemi relativi alle scien­ze naturali e quindi di loro competenza esclusiva. La fede nel peccato originale e nel peccato delle origini ne sarebbe completamente indipendente» (cfr Carlo Molari, La teologia cattolica di fronte all’evoluzionismo darwinista ieri e oggi, in Gianfran­co Ghiara (ed.), // darwinismo nel pensiero scienti­fico contemporaneo, Guida, Napoli 1984, pp. 96-98). I gesuiti M. Flick e Z. Alszeghy che negli anni ’50 avevano sempre difeso il monogenismo (cfr i loro classici manuali di teologia), nel 1966 (cfr Il peccato originale in prospettiva evoluzionistica — «Extractum Gregorianum», Voi. 47, 1966* Parte 2) assunsero sul poligenismo una posizione più possi­bilista, finché, dopo gli anni ’70, si allinearono so­stanzialmente alle posizioni di Rahner: «II memora­bile articolo di K. Rahner, con la sua analisi del de­creto tridentino, che in un primo tempo ci è sem­brato basarsi su distinzioni troppo soggettive, ha fi­nito per convincerci» (Flick e Alszeghy, in Carlo Molari, op. cit, p. 96, nota 259). Purtroppo non si trattò di voci isolate; le nuove tesi teologiche influenzarono seminari e università cattoliche al punto tale che nel 1966 Paolo VI dovette ribadire con fermezza la dottrina tradizionale. Ecco alcuni passaggi del discorso del Pontefice: «È evi­dente, perciò, che vi sembreranno inconciliabili con la genuina dottrina cattolica le spiegazioni che del peccato originale danno alcuni autori moderni, i quali, partendo dal presupposto, che non è stato di­mostrato, del poligenismo, negano, più o meno chiaramente, che il peccato, donde è derivata tanta colluvie di mali nell’umanità, sia stato anzitutto la disobbedienza di Adamo “primo uomo”, figura di quello futuro (Conc. Vat. II, Const. Gaudium e spes, n. 22; cfr anche n. 13) commessa all’inizio della storia. Per conseguenza, tali spiegazioni neppur s’accordano con l’insegnamento della Sacra Scrit­tura, della Sacra Tradizione e del Magistero della Chiesa, secondo il quale il peccato del primo uomo è trasmesso a tutti i suoi discendenti non per via d’i­mitazione ma di propagazione, “inest unicuique proprium “, ed è “mors animae “, cioè privazione e non semplice carenza di santità e di giustizia anche nei bambini appena nati (cfr Conc. Trid., sess. V, can. 2-3). Ma anche la teoria dell’‘evoluzionismo non vi sembrerà accettabile qualora non si accordi decisamente con la creazione immediata di tutte e singole le anime umane da Dio, e non ritenga deci­siva l’importanza che per le sorti dell’umanità ha avuto la disobbedienza di Adamo, protoparente uni­versale (cfr Conc. Trid., sess. V, can. 2). La quale disubbidienza non dovrà pensarsi come se non avesse fatto perdere ad Adamo la santità e giustizia in cui fu costituito (cfr Conc. Trid., sess. V, can. 1)» (Discorso ai partecipanti al Simposio sul mistero del peccato originale, Nemi 11 luglio 1966).
Giovanni Paolo II, citando espressamente quell’in­tervento di Paolo VI, confermò nel 1986 la dottrina tradizionale della Chiesa (cfr Udienza Generale, 1° ottobre 1986). Benedetto XVI, a sua volta, l’ha ri­confermata nel 2008: «Ma come uomini di oggi dob­biamo domandarci: che cosa è questo peccato origi­nale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell’evolu­zione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell’umanità. E, di conseguenza, anche la que­stione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento». E ribadisce, con una profonda analisi teologica e psicologica, la classica dottrina paolina (cfr Udienza generale, 3 dicembre 2008). Il pensiero della Chiesa su questi temi non è dunque mai cambiato. Sorprende perciò il ragionamento di Gianfranco Ravasi nell’introduzione al volumetto Il Libro della Genesi (1-11) (Città Nuova, 1991): «In questa nuova interpretazione dei primi capitoli del­la Genesi si è sviluppata una rielaborazione della comprensione del dogma tradizionale del peccato originale. […] Secondarie diventano in questa luce le questioni scientifiche dell’evoluzionismo e del poligenismo riguardanti le origini (unica o molte­plice) dell’uomo sulla faccia della terra e il suo pro­gressivo evolversi biologico-culturale. Certo, il te­sto arcaico della Genesi appella sicuramente al mo­dello scientifico del suo tempo che era fissista e monogenista (un solo ceppo d’origine e una fisiolo­gia già propria e definita dell’uomo). Ma lo scopo di Genesi 1-3 non è primariamente scientifico». D’accordo sul fatto che lo scopo della Genesi non è primariamente scientifico, ma il dogma del peccato originale, fondato sulla Scrittura, è legato indissolu­bilmente al monogenismo, che non può essere perciò una «questione secondaria». La dottrina del peccato originale non è una bazzecola: se viene messa in dub­bio, crolla anche tutta la dottrina della redenzione e alla fine «si rende vana la croce di Cristo» (1 Cor 1, 17). Come disse l’allora card. Ratzinger nel libro-in­tervista Rapporto sulla fede: «L’incapacità di capire e presentare il “peccato originale” è davvero uno dei problemi più gravi della teologia e della pastorale at­tuali» (Paoline, Cinisello Balsamo 1985, p. 79).
Il Dna mitocondriale sostiene il monogenismo
Siamo dunque di nuovo di fronte a un conflitto fra scienza e fede? Siccome la verità è una sola, se c’è conflitto vuoi dire che o è falsa la dottrina di fede o è falsa l’ipotesi scientifica. Siccome crediamo nell’infallibilità dei dogmi di fede, è lecito dubitare della validità dell’ipotesi scientifica. Tuttavia, è scorretto giudicare un concetto scientifico con ar­gomenti teologici (Galileo insegna); occorre valu­tarlo rigorosamente con i metodi della scienza. Non si possono dimostrare sperimentalmente in modo diretto né il monogenismo né il poligenismo (come del resto neanche l’evoluzionismo). Esistono almeno dati scientifici e osservazioni che possono dare degli importanti indizi a favore dell’una o dell’altra ipotesi? Abbiamo osservato che già Darwin, con i dati a disposizione al suo tempo, propendeva per il monogenismo. E oggi? A favore del monogenismo ci sono alcuni fatti fon­damentali. La decifrazione del genoma umano (2000) ha dimostrato che il 99,9% del Dna è lo stes­so per tutti gli esseri umani, quindi una differenza dello 0,1% nella composizione del Dna è sufficien­te per dar luogo alla variabilità delle popolazioni. Confrontando il genoma di tutte le popolazioni, la maggior parte dei geni risulta essere in comune, e alcuni geni sono altamente conservati, mentre altri, pochissimi, variano in maniera più rilevante deter­minando le varie razze. Questo non dimostra apo­ditticamente il monogenismo, ma è un forte indizio a favore di un’origine unitaria di tutto il genere umano.
Un altro fatto importante deriva dagli studi sul Dna mitocondriale. «Nel 1987, Cann, Stoneking e Wilson hanno ipotizzato, sulla base di comparazioni del Dna mitocondriale (mtDna), ereditato quasi esclusiva­mente per via materna, che tutti gli uomini oggi vi­venti derivino da un’unica donna africana [infatti le comparazioni del DNA, e altre ragioni, indichereb­bero l’Africa quale origine del genere umano, ndr\ (la cosiddetta “madre Eva”), che sarebbe vissuta ca. 200.000 anni radiometrici fa» (R. Junker & S. Scherer, Evoluzione un trattato critico, Gribaudi 2007). I calcoli per determinare quando sarebbe vissuta questa «Eva» sono molto incerti: sembra si possa collocare al massimo verso gli 800.000-500.000800.000-500.000 an­ni fa, ma è possibile un’epoca più recente: molti pensano 150.000 anni fa.
Gli studi sull’mtDna mostrano che l’«Eva mitocon­driale», da cui discenderebbe tutta l’umanità attuale, è da identificare con un unico individuo. Solo i suoi mitocondri, infatti, avrebbero discendenti nelle cel­lule degli esseri umani viventi. «Eva» sarebbe perciò l’unica femmina della sua generazione dalla quale tutte le persone viventi dis­cendono attraverso le loro linee materne (per una trattazione dettagliata si veda lo studio di Bryan Sykes, The Seven Daughters of Ève: The Science That Reveals Our Genetic Ancestry, W.W. Norton, New York 2001).
La conseguenza è, dunque, che non si da alcun con­flitto tra scienza e fede su questi argomenti, nessun «caso Galileo».
Animazione e evoluzione da specie pre-umane
In questa discussione ci sarebbe da parlare anche del problema dell’animazione. Ammesso per ipote­si che il corpo umano sia derivato dall’evoluzione di una qualche specie pre-umana, quando il Creato­re ha infuso l’anima su questo corpo diventando al­la fine pienamente umano? Se l’anima è «forma» del corpo, come si può concepire un corpo umano senza anima? Questi problemi ovviamente trascen­dono i metodi della scienza. La questione è estre­mamente complessa e tocca alla filosofia e alla teo­logia trovare qualche risposta convincente. Se ac­cettiamo una qualche forma di evoluzione della specie umana, forse dovremo invocare la categoria del mistero.
Su questa linea si muove anche Benedetto XVI: «Proprio partendo da qui si dovrebbe avanzare una diagnosi sulla forma dell’antropogenesi: il fango è divenuto uomo nel momento in cui un ente per la prima volta, anche se ancora in forma alquanto oscura, è stato in grado di formare l’idea di Dio. Il primo Tu che – per quanto balbettando – venne ri­volto da bocca d’uomo a Dio, designa il momento in cui lo spirito è comparso nel mondo. Qui si è var­cato il Rubicone dell’antropogenesi. Perché non so­no l’uso delle armi o del fuoco; non sono dei nuovi metodi crudèli o attività utili a costituire l’uomo; ma la sua capacità di stare accanto a Dio. Questo sostiene la dottrina della creazione particolare dell’uomo; soprattutto in questo sta il centro della fede nella creazione. E questo è anche il motivo per cui è impossibile che il momento dell’antropogene­si possa venire fissato dalla paleontologia. L’antropogenesi è il sorgere dello spirito che non si può dissotterrare con la vanga. La teoria dell’evolu­zione non sopprime la fede né la conferma. Essa pe­rò la sfida a comprendere più profondamente sé stessa e ad aiutare così l’uomo a capirsi e a diven­tare sempre più quello che egli è: l’essere che in eterno deve dare del Tu a Dio» (Intervento al Con­vegno su «Creazione ed Evoluzione», Castel Gandolfo, 2 settembre 2006).
L’evoluzione: una mera ipotesi probabile
In questo studio ho cercato di chiarire la differenza sostanziale tra evoluzione e darwinismo mostrando come serie ragioni scientifiche rendano ormai ne­cessario, per un concreto progresso della ricerca scientifica, mettere Darwin e i darwinisti in cantina. Rimane la questione dell’evoluzione. È questa un fatto? È una teoria? È solo un’ipotesi? Dalla valenza scientifica dell’evoluzione deriva an­che la considerazione che di essa si deve tenere in campo teologico.
Secondo l’evoluzionista Ludovico Galleni dell’U­niversità di Pisa, l’evoluzione è un fatto dimostra­to come è dimostrata l’esistenza dell’Impero ro­mano. Tuttavia, Galleni dimentica che una cosa è la ricerca storica e altra cosa è la ricerca scientifi­ca: siamo di fronte a due metodi di studio diversi. La storia parte dai documenti per ricavare i fatti, mentre l’evoluzione viene considerata aprioristi­camente un fatto per provare il quale si cerca di trovarne, a posteriori, una qualche documen­tazione. È l’esatto contrario. E la documentazione è talmente frammentaria e incompleta da rendere impossibile la prova definitiva che l’evoluzione sia un fatto realmente avvenuto. I dati sono al meno sufficienti a qualificare l’evoluzionismo come teoria scientifica? Già Popper – convinto evoluzionista – negava che l’evoluzione darwini­ana fosse una teoria scientifica. La ragione stava nel fatto che, essendo essa considerata vera a pri­ori, non era falsificabile (secondo il noto criterio popperiano di scientificità). Perciò Popper la con­siderava solo «un programma di ricerca metafisi­co» (cfr Karl R. Popper, Unended Quest, Revised edition, Open Court Publishers, La Salle, 111., 1976, pp. 168, 171-172).
E se non è propriamente una teoria scientifica come possiamo qualificare l’evoluzione? A mio parere si può affermare — con J. Ratzinger (cfr Harry Luck, Der zweite Mann im Vatikan [II numero due vatica­no], in «PUR Magazin», n. 22, 18-11-1996, pp. 14-15) che si tratta di un’ipotesi «importante» perché ha stimolato molti settori di ricerca per cui è qual­cosa di più che una semplice ipotesi di lavoro. Io la definirei perciò un’ipotesi probabile. Del resto, il criterio che lo stesso Giovanni Paolo II enunciò proprio discutendo dell’evoluzione è molto chiaro: «Qual è l’importanza di una simile teoria? Affron­tare questa questione, significa entrare nel campo dell’epistemologia. Una teoria è un’elaborazione metascientifica, distinta dai risultati dell’osserva­zione, ma a essi affine. Grazie a essa, un insieme di dati e di fatti indipendenti fra loro possono essere collegati e interpretati in una spiegazione unitiva. La teoria dimostra la sua validità nella misura in cui è suscettibile di verifica; è costantemente valutata a livello dei fatti; laddove non viene più dimostrata dai fatti, manifesta i suoi limiti e la sua inadegua­tezza. Deve allora essere ripensata» (Messaggio ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, 22-10-1996). Alla fin fine, mi pare che distinguere tra un evolu­zionismo «cattolico» o «teista» e un evoluzionismo «ateo» o «materialista» lascia il tempo che trova. Se l’evoluzione è vera, è vera e basta; se è falsa, è fal­sa e basta, comunque la si voglia etichettare. Voglio concludere con quanto affermò il fisico Ni­cola Cabibbo, Presidente della Pontifìcia Accade­mia delle Scienze, scomparso nel 2010: «Non ri­esco veramente a entusiasmarmi del dibattito scien­za-fede. Il possibile imbarazzo teologico di oggi verso alcune idee della scienza sembrerà domani del tutto irrilevante: le teorie scientifiche di oggi sa­ranno forse rafforzate, e poi sopravànzate da teorie più complete e dettagliate. È quello che è successo alle teorie di Copernico, inglobate e completate da quelle di Newton e poi di Einstein. È così che la scienza procede, ed è bene abituarsi» (Il Sole-24 Ore, 5 gennaio 2009).
Verrebbe da dire che le teorie passano, mentre «Cri­sto è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13, 8).