mercoledì 29 giugno 2016

[TOLKIENIANA] Saruman, il «Modernista»

Saruman_with_Orthanc's_Palanti

di Isacco Tacconi - Fonte: http://www.radiospada.org/

Cari lettori, quest’oggi vorrei riprendere il cammino del nostro sentiero tolkieniano col sottoporvi un quesito: vi è mai capitato di percepire che ciò che sta accadendo intorno a noi, mi riferisco ai rapidi mutamenti della società e del tempo in cui il Buon Dio ci ha posti, sia mosso da un fine invisibile, da un progetto latente, preciso ma sfuggente e, quasi, “sovrumano”? Non mi sto riferendo ovviamente all’azione della Divina Provvidenza che tutto dispone e a cui nulla sfugge, sapendo volgere ogni cosa al bene. No, mi riferisco piuttosto a quei piani delle forze anticristiche, a quei disegni delle nazioni, a quei progetti dei popoli che nonostante l’impegno e le macchinazioni dei loro artefici finiranno, presto o tardi, per dissolversi come pula nel vento.
«Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» (Lc 12,54-56).
Francamente, credo che questo tonante rimprovero risuoni alla presente generazione con una forza e una attualità così intense da far tremare i polsi, al pari della voce del profeta Giona. Chi può negare, infatti, i radicali sconvolgimenti di cui il secolo scorso è stato foriero e quello presente terribile, quantunque collaterale, prosieguo e avveramento? Una mutazione antropologica e culturale, diffusasi come una epidemia planetaria, letale quanto contagiosa tanto da sovvertire i cardini stessi dell’umanità, che a suo confronto l’abbattimento dell’Ancien Régime appare poca cosa.
«Il mondo è cambiato. Lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, lo avverto nell’aria». Nel prologo della versione cinematografica del Signore degli Anelli questa frase, presagio di sventura, viene pronunciata da Galadriel, nel libro invece è Barbalbero, il Pastore di alberi, che nel prendere congedo, la pronuncia stanco e mesto come foglia d’autunno che ondeggia inesorabile verso la terra, ai Signori di Lòrien, Celeborn e Galadriel. Ma possiamo presumere che, verosimilmente, anche la Dama Bianca, con il suo sguardo penetrante e lungimirante, nella contemplazione della sua cattedrale boscosa, abbia meditato in cuor suo le stesse parole già dai tempi della riconquista della Montagna Solitaria da parte di Thorin Scudodiquercia, quando il Male tornò strisciando fra le ombre del mondo.
Il mondo come era non esiste più, molti di noi neanche lo abbiamo mai conosciuto, quel mondo, se non attraverso i ricordi a volte vividi, a volte sbiaditi dei nostri vecchi, o scoprendolo sui libri come se si trattasse di un passato ancestrale e obliato. Al suo posto un “altro” mondo è stato fondato sulle macerie dell’antico. Ma un tale trapasso di epoca a quali cause recondite è dovuto, e a quali effetti ultimi è ordinato? «Molto di ciò che era, si è perduto. Perché ora non vive nessuno che lo ricorda». Trovo che questa giudizio aderisca quasi perfettamente al nostro presente. Molto della nostra Santa Fede è andato perduto. Noi cattolici oggi ne siamo la prova, noi superstiti, noi “che un tempo eravamo tenebra” (cf. Ef 5,8), e come quello schiavo liberto della platonica Caverna siamo stati “chiamati dalle tenebre alla Sua luce meravigliosa” (1Pt 2,9). Personalmente provo una forte simpatia tra la mia attuale situazione di credente e l’esperienza di quello schiavo che, una volta cadute le catene dell’ignoranza e dell’illusione ex umbra et imaginibus, abbandona strisciante l’oscurità della caverna per volgersi verso la Luce vivificante della Verità che, ahimé, è divenuta quasi insostenibile: gli occhi sono stati troppo tempo immersi nelle tenebre.
Non di rado vorremmo volgerci indietro per andare a liberare i nostri fratelli qui in tenebris et in umbra mortis sedent, i quali, come noi un tempo, ancora prediligono l’illusione alla realtà, le vacue ombre alla sostanza. Soggiogati ad un mondo fittizio che ci è stato messo dinanzi agli per nasconderci la verità. Una tale assuefazione alla menzogna che impedisce di sopportare il peso della verità. Il timore di essere da loro incompresi e biasimati ci trattiene: forse ci bandirebbero come squilibrati, ci deriderebbero come dei folli e, in realtà, lo siamo davvero. La Croce è, e rimarrà sempre, una follia e uno scandalo, e i cristiani sono i cruciferi, coloro che la portano impressa nel cuore, sulla fronte, sulle labbra. E tuttavia i figli di Dio sono, oggi più che mai, degli apolidi. Lo sono per essenza, appartenendo ad una Patria che non è di questa terra. Se fossero “cittadini del mondo”, il mondo li onorerebbe come sua proprietà e, in fondo, non desidera altro: onorarli con delle catene dorate.
J.R.R. Tolkien vide tutto questo e forse molto di più. Anch’egli fu travolto dalla Grande Guerra, e dovette soffrire ancor più nel veder partire i propri figli per la Seconda Grande Guerra, forse peggiore della prima. E non c’è dolore più grande per un uomo che dover assistere impotente alla sofferenza dei propri figli, non potendo evitare loro l’orrore della violenza irragionevole, empia, ingiusta. Ma c’è un elemento che nel disegno della storia del Mondo costituisce un fattore di precipitazione degli eventi: il tradimento.
Esiste un affresco che si trova nella Cattedrale di Orvieto nella cappella di San Brizio, opera di Luca Signorelli, che mi ha sempre colpito per la sua forza espressiva. Rappresenta l’Anticristo e gli ultimi tempi, mostrando una figura impressionante, simile per sembianza a Nostro Signore, con un volto ingenuamente dolce e suadente ma dagli occhi vitrei, avvolti da un rossastro baluginio. Le sue braccia sono mosse dal Demonio che lo manovra come fa un burattinaio con il suo fantoccio. Pensiamo, dunque, che tali meditazioni non sono una prerogativa dei nostri tempi, ma anzi la Chiesa ha sempre meditato e spinto i credenti a meditare sugli avvenimenti che precederanno il definitivo “Ritorno del Re”.
Quale il nesso tra queste meditazioni e la figura di Saruman? Non sarà troppo difficile, credo, intuirlo dopo aver svelato che il tradimento degli eletti è fattore di accelerazione nell’instaurazione del regno dell’oscuro signore su questa nostra “terra di mezzo”.
Saruman è uno dei Cinque Istari, capo del suo ordine e, in quanto superiore, risiede ad Isengard nell’alta torre di Orthanc. Il nome stesso di «Isengard» richiama foneticamente l’antico anglosassone facendoci intuire il suo scopo: sorvegliare l’Isen, il «grande fiume». Colui che risiede ad Isengard è perciò il “guardiano”, il custode. Interessante somiglianza con il termine greco epìscopòs che significa appunto «guardiano», «sorvegliante». Saruman dapprima non era malvagio, o meglio, non era propriamente «buono». Tolkien in realtà non dedica molto spazio a descrivere Saruman come era prima della corruzione. Possiamo però quasi percepire la sua mancanza di personalità, l’inconsistenza della sua figura. E quando coloro i quali, pur avendo ruoli di governo, posseggono una volontà debole e oscillante, facilmente vengono attratti e, in qualche modo, “posseduti” dalle loro idee. La philosophia perennis al contrario insegna che l’uomo è pienamente uomo, cioè veramente libero, solo quando è «dominus sui», ossia quando è capace di governare se stesso, di guidare egli stesso le proprie passioni e i propri istinti e non quando ne è preda.
Saruman è un essere, uno stregone, che si è lasciato avvincere, per imprudenza e presunzione, dall’illusione di poter cambiare il corso degli eventi per la brama del potere. Ha voluto “guardare”, ha voluto affacciarsi nelle tenebre dell’abisso senza la luce della Grazia, e ne è rimasto ammaliato. Un motivo ancestrale che risuona dall’Odissea di Omero al Santo Vangelo di Gesù Cristo. Tuttavia, una differenza sostanziale corre tra il Versatile Ulisse e Saruman il Bianco: nell’ascoltare la voce delle Sirene, il Re di Itaca non confidò in sé stesso. Saruman, al contrario, nello scrutare il Palantìr entrò nella tentazione con il cuore impuro e con la sciocca arroganza di chi, sicuro del proprio “candore”, (d’altronde l’abito è bianco) sfida l’oscurità. Che stolto è l’uomo. Quella veste bianca, se non è lavata nel Sangue dell’Agnello, non ha virtù propria. Ciò che di forte, solido e infallibile c’è in quell’investitura è un riflesso condizionato dall’alto anzi, dall’Altissimo, e ad ogni modo non rende quell’uomo bianco uno übermensch.
Ulisse si fece legare saldamente all’albero maestro, immagine della Croce, abbracciando soltanto la quale è possibile passare non solo in mezzo alle bellissime e mostruose sirene, ma anche nella Valle Oscura e nel profondo abisso del Mare, avendo le pareti della morte a destra e a sinistra. Strettamente legato da solide funi, quasi crocifisso, mentre tra dolori insopportabili di chi gli infliggeva lo strazio delle mortifere tentazioni, gridava, e nessuno dei suoi lo ascoltava. Solo lui, Odisseo, si espose e guidò il suo vascello fra i pericoli e i flutti dell’interminabile esilio, fino all’approdo patrio.
Ma quelli come Saruman, hanno venduto la loro anima per riceverne in contraccambio il disprezzo e il dominio del Signore della menzogna, che promette e non mantiene. Che corrompe con un misero compenso, così vacuo e vuoto eppure così irresistibile per gli sventurati che ne accettano la dialettica. «Eritis sicut Deus», questa è la promessa di Sauron a Saruman non più bianco, già adulterato, già privato del candore virgineo che lo aveva innalzato nel consesso dei saggi guadagnandogli il primato. Ma il velo che ricopre le tenebre ha avvolto i suoi occhi ormai torbidi che mutano la luce in tenebre. “«Così sei venuto, Gandalf», mi disse grave, – racconta Mithrandir – ma nei suoi occhi pareva ci fosse una luce strana, il riflesso di un gelido riso del cuore[1].
Il dialogo che segue è di estrema importanza per comprendere il pensiero empio che si impossessa della mente umana quando cede alle vuote lusinghe del male. “«Tu sei venuto, ed era quello lo scopo del mio messaggio. E qui rimarrai, Gandalf il Grigio, e ti riposerai dei lunghi viaggi. Perché io sono Saruman il Saggio, Saruman Creatore d’Anelli, Saruman Multicolore»”[2]. La follia ha già avvelenato il suo cuore e il delirio d’onnipotenza lo innalza smisuratamente, ma solo per farlo precipitare con una più grande rovina. Gandalf il Grigio, invece, è in questo contesto l’immagine dell’umiltà, dell’impotente, di colui che quando è debole è più forte dei potenti della terra perché altri combatte la di lui battaglia. “«Bianco!», sogghignò [Saruman]. «Serve come base. Il tessuto bianco può essere tinto. La pagina bianca ricoperta di scrittura, e la luce bianca decomposta»”. Lo stregone bianco smarrendo il senno si fa creatore, si autoproclama “forgiatore d’anelli”, imitatore di Sauron il Ribelle. Attraverso il suo ruolo di guida, concessogli perché amministrasse la giustizia e non perché lo utilizzasse a proprio arbitrio, egli si trasforma in uno straordinario veicolo del male. Il peggior avversario, infatti, non è quello manifesto ma quello occulto, e il dolore più grande è quello che ci viene inflitto, a tradimento, da coloro che erano nostri amici.
Il bianco della luce racchiude la smisurata varietà dei colori possibili i quali ne costituiscono una imperfetta, quantunque ammirabile, espressione particolare. Ma l’essenza della luce sfugge all’analisi della scienza umana e pretendere di penetrarla diviene perciò un’inevitabile peccato di hybris. Dio “abita in una luce inaccessibile” (1Tm 6,16) dice la Scrittura, ciò significa che ogni bene ed ogni bontà particolare da Lui proviene e a Lui appartiene, e nessuno se ne può appropriare per sprigionarne i colorati effetti o addirittura mutandone la natura. Questo, lo sappiamo, è l’intento segreto dello gnosticismo: raggiungere l’uguaglianza con Dio attraverso un patto con le tenebre; e se ci pensiamo questa è anche l’essenza stessa di ogni peccato.
Questo è esattamente ciò che Saruman lo stolto ha tentato di fare mutando l’aggettivo che individua il suo ruolo. Non sarà più «il Bianco» ma piuttosto Saruman “Multicolore”, lo snaturato, il pervertito. Curiosa l’analogia con la bandiera arcobaleno, divenuta simbolo non di libertà ma di libertinismo, la più tirannica delle schiavitù perché è quella che l’uomo si autoinfligge brutalmente dissennandosi in una esaltata disperazione senza uscita. La purezza che viene colorata dai colori delle passioni ha perduto la sua caratteristica bianchezza “«nel qual caso – risponde Gandalf –non sarà più bianca» – e prosegue – «e colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è, ha abbandonato il sentiero della saggezza»”. La conoscenza, infatti, è potere, la conoscenza è dominio, il desiderio di conoscenza, se non è temperato dall’umiltà, diviene arbitrio che pretende di sciogliere i vincoli e possedere l’oggetto conosciuto. La conoscenza, per gli illuminati, è plagio divinizzante.
Un vecchio e nauseabondo motto spinge il cospiratore che vuole abbattere tutto ciò che sa di tradizione, di antico, quindi di non disponibile e sottratto al suo controllo: la smania della novità e l’ineluttabilità del progresso. Il grido di guerra “non si può più tornare indietro!”, questo è il simbolo, il credo del nuovo mondo inebriato dall’eccitante inquietudine del divenire. “«I Tempi remoti non sono più – dichiara Saruman –. I giorni Intermedi stanno passando. I Giovani Giorni stanno per incominciare. Finito il tempo degli Elfi, la nostra ora è vicina: il mondo degli Uomini che dobbiamo dominare. Ma abbiamo bisogno di potere, potere per ordinare tutte le cose secondo la nostra volontà, in funzione di quel bene che soltanto i Saggi conoscono».
Il bene non sarebbe più nelle cose, cioè nella loro oggettiva struttura ontologica, ma sarebbe piuttosto una gnosi che soltanto pochi eletti possono e debbono possedere per manovrare le masse dei villani senza intelletto. “Il Sol dell’Avvenire”, un futuro di ordine e perfezione che dovrebbe scaturire dal caos, ossia da una (necessaria) fase di distruzione e rivoluzione. “«Si tratterebbe soltanto – prosegue Saruman nel tentativo di corrompere Gandalf – di aspettare, di custodire in cuore i nostri pensieri, deplorando forse il male commesso cammin facendo, ma plaudendo all’alta mèta prefissa: Sapienza, Governo, Ordine; tutte cose che invano abbiamo finora tentato di raggiungere, ostacolati anziché aiutati dai nostri amici deboli o pigri. Non sarebbe necessario, anzi non vi sarebbe un vero cambiamento nelle nostre intenzioni; soltanto nei mezzi da adoperare»[3]. La satanica tentazione legata al triste nome dello statista fiorentino Niccolò Machiavelli secondo cui “il fine giustifica i mezzi”, risuonerà, ahinoi, fino alla fine dei tempi quando Colui che è la Verità e la Vita svergognerà per sempre coloro che lo hanno disprezzato in quanto Via. Non c’è altro mezzo, infatti, per cui l’uomo possa elevarsi dalla propria miseria dovuta al peccato e raggiungere il proprio fine: Gesù Cristo Nostro Signore. San Tommaso, il Dottore Comune dell’Unica Chiesa di Cristo, punto irrinunciabile per non perdere la giusta cognizione della Fede, così ha espresso questa “necessità di mezzo: “Christo qui, secundum quod homo, Via est nobis, tendendi in Deum[4]. E siccome, come insegna sempre il Doctor Angelicus, «bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu», non è possibile che un fine in sé buono conservi intatta la sua bontà se i mezzi adoperati per raggiungerlo sono intrinsecamente cattivi. Ma i rivoluzionari, accecati dal freddo bagliore dei loro ideali sono disposti a calpestare volentieri la morale, il bene e la giustizia. Proprio per questo colui il quale, nel patto delle tenebre, si è “autoilluminato” ha in realtà consegnato se stesso in balìa dell’Oscuro Signore che ne farà ciò che vorrà. Quanto bene si potrebbe fare, pensa il novatore, se solo non ci fossero quegli odiosi vincoli morali che ne rallentano l’affermazione; quanto si potrebbe progredire se solo non ci ostacolasse la legge della coscienza, se ci affrancassimo dal peso del dogma, se ci elevassimo al di sopra di ciò che è eterno!
Saruman è l’emblema narrativo del tradimento di Giuda Iscariota che per raggiungere il suo disonesto fine, percorre una via diversa da quella della Croce, una via più breve e, apparentemente, più facile ma che inevitabilmente conduce al suicidio e alla dannazione. Similmente, Saruman il «multicolore», subirà una fine ingloriosa e direi quasi ridicola: uscirà di scena accoltellato dallo spregevole Grima Vermilinguo dopo aver tentato in vano l’instaurazione di una piccola dittatura sulla Contea.
Questa è la fine che attende tutti coloro che, per avventura e presunzione, abbandonano il retto sentiero tracciato e prestabilito. Il cammino ricevuto e trasmesso, il sentiero del Bene Immutabile, cioè del dogma. Infatti, ciò che da principio può sembrare una modesta e innocente eccezione, o “apertura”, può rapidamente degenerare in un tradimento della verità: «parvus error in principio, est magnus in fine».
Pertanto, coloro che imitano la presunzione dello Stregone bianco vanno molto oltre la mera imprudenza e, come disse San Pio X dei modernisti, stravolgono il senso stesso della verità (aeternam veritatis notionem pervertant). Se dovessimo infatti sintetizzare l’essenza del modernismo, cioè la più estesa e letale eresia che abbia mai colpito la Chiesa Cattolica, dovremmo ricordare una delle proposizioni che il Sant’Uffizio nel 1924, su disposizione di Papa Pio XI, condannò solennemente. Così la proposizione modernista anatemizzata: “Anche dopo aver concettualizzato la fede, l’uomo non deve adagiarsi sui dogmi della religione, aderirvi in modo fisso e immobile, ma deve rimanere sempre smanioso di progredire a una verità ulteriore, realmente evolvendo in nuovi sensi, e perfino correggendo ciò che crede[5].
In definitiva appare proprio questo il nocciolo del dialogo tra Gandalf, l’umile stregone ancorato alla tradizione, e Saruman, affascinato e avvinto dalla “smania della novità”. Saruman, «il modernista», tenta di persuadere il suo confratello ad abbandonare la vecchia via per la nuova, spingendolo a tradire il mandato di conservare integralmente la verità contro la torbida ed evoluzionistica dottrina gnostica: «O Timothee, depositum custodi, et rursum, bonum depositum serva» (1Tm 6, 20).
In altre parole, la fine di Saruman (e di Giuda) è per noi tutti un monito vibrante che deve trattenerci la mano dalla presunzione di elevarci al di sopra della dottrina cattolica sempre creduta e ininterrottamente trasmessa. In altre parole, deve instillarci il timore di allontanarci dalla Tradizione che è la Regula Fidei. Il multicolore e il modernismo hanno in comune l’allontanamento dalla purezza immacolata della dottrina che ricorda la sentenza giovannea: “hanno preferito le tenebre alla luce”.
In ultima istanza potremmo solennemente dichiarare che il Signore degli Anelli è nella sua integralità, come nelle sue parti, un solenne «manifesto antimodernista». In esso infatti, i valori che più contano sono quelli immutabili ed eterni, come i dogmi. Ma non voglio rubare, anticipandolo, il materiale delle nostre prossime “serate tolkieniane”. Tuttavia, ritengo sia giusto proporvi l’“antidoto” che lo stesso nonno Tolkien ha lasciato impresso attraverso dei versi indimenticabili e densi di verità sostanziale. Attraverso di essi si ravviva in noi la speranza della restaurazione della Santa Chiesa Cattolica e si rinsalda in noi la fermezza nella Fede dei nostri padri: «Non tutto quel ch’è oro brilla, Né gli erranti sono perduti; Il vecchio ch’è forte non s’aggrinza, Le radici profonde non gelano. Dalle ceneri rinascerà un fuoco, L’ombra sprigionerà una scintilla; Nuova sarà la lama ora rotta, E re quei ch’è senza corona».
 
 



[1] Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano, 1999, p. 326.
[2] Ibidem, p. 327.
[3] Ivi, 328.
[4] S. Th., Prologo alla Quaestio 2 della I° Pars.
[5] P. DESCOQS, Praelectiones theologiae naturalis, vol I, p. 150; vol II, pp. 287 ss.

martedì 28 giugno 2016

SIMON KUKEC DI SEŽANA, “PADRE” DELLA BIRRA LAŠKO E PORTABANDIERA DEL 22. REGGIMENTO LANDWEHR NELLA BATTAGLIA DI CUSTOZZA


Simon Kukec
Molte volte anche bere un bicchiere di buona birra può essere un atto di preservazione della nostra memoria storica. A volte può essere un vero e proprio atto patriottico, se nel bere ci ricordiamo di alcune persone e avvenimenti. Pensate, ci può salvare dal peggio del peggio: l'italianizzazione!
Simon Kukec nacque a Povir presso Sežana nel 1838, figlio di un piccolo possidente agricolo del luogo. E’ molto conosciuto per la sua attività imprenditoriale sia nel settore dei trasporti che in quello della ristorazione e soprattutto per essere il padre della birra Laško per come la conosciamo oggi. Non molti sanno che nel 1866 partecipò col grado di Feldwebel alla gloriosa e vittoriosa battaglia di Custozza contro il Regno d’Italia, quale portabandiera del 22. reggimento Landwehr.
Nel 1869 si sposò a Trieste con Ana Smolka. Dopo un periodo di lavoro nella logistica e nei trasporti durante l’ammodernamento del porto di Fiume, si trasferì nel 1880 a Trbovlje dove rilevò un ristorante, mentre nel 1887 andò a Žalec dove acquistò alcune coltivazioni di luppolo. Qui comprò anche anche il birrificio di Franc Žuža, che ampliò, sfruttando anche il fatto che la nuova linea ferroviaria Celje- Velenje favoriva i commerci. Nel 1889 comprò all’asta il vicino birrificio di Laško, fondato nel 1825 sotto altro nome, e lo unì a quello già in suo possesso. Lo stabilimento di Laško veniva gestito dal figlio Edvard. La figlia Aneta svolgeva il ruolo di ragioniere. Il birrificio venne dotato delle migliori attrezzature dell’epoca e il lavoro venne suddiviso secondo moderni concetti di ergonomia per settori. Con questa organizzazione del lavoro si arrivò a produrre tra i 30.000 e i 50.000 hl a Laško e tra i 15.000 e i 20.000 a Žalec (all’anno), facendo seria concorrenza a Graz. Kukec introdusse anche un’altra novità che gli portò molto successo: nella produzione di birra utilizzò per la prima volta le celebri acque termali del luogo, il che conferiva alla birra un sapore particolare. Utilizzò il termine di “birra termale”, la quale veniva prodotta sia nella varietà chiara che in quella scura, con una gradazione che all’epoca era superiore a quella media.
Simon Kukec, oltre a essere stato un fiero soldato reduce della battaglia di Custozza, fu anche molto legato al popolo sloveno al quale apparteneva. Era un periodo, come anche la guerra austro-prussiana del 1866 sta a dimostrare, in cui il pangermanesimo era particolarmente aggressivo e minava alcuni equilibri. Anche a causa di ciò Simon Kukec spesso entrò in contrasto con i tedeschi della Stiria. Nel suo stabilimento impiegava quasi esclusivamente operai sloveni, più qualche ceco. La sua storia ricorda in tal senso quella di Peter Kozler, fondatore della Birreria dei F.lli Kozler, che in seguito si chiamerà Union Pivo, l’altro storico marchio della birra slovena. Kozler nel 1848, assieme ad Anton Globočnik, stabilì i colori dell’attuale bandiera slovena, poi recepiti da apposito decreto del ministero degli affari interni il 23 settembre dello stesso anno, basandosi sui colori dello stemma della Carniola del tredicesimo secolo (modificato dalla bolla imperiale di Federico III d’Asburgo nel 1463). La storia slovena lo ricorda anche per aver elaborato una carta etnografica degli sloveni, che gli valse l’inimicizia dei circoli pangermanisti dell’epoca.
Nell' album di famiglia dei Kukec è ancora conservata con orgoglio e commozione la coccarda di guerra del loro avo risalente alla battaglia di Custozza.
Anche in ogni sorso di birra si nasconde un po’ del nostro ricco patrimonio storico e culturale. Chi vuole assimilarci si metta il cuore in pace: i nostri avi hanno combattuto contro il male da sempre, in momenti ben più difficili di questo. Niente ci farà diventare italiani. Mai! 10, 100, 1000 Custozze!

Fonte:

Vota Franz Josef

lunedì 27 giugno 2016

Un Re "3 in 1" uccide la Monarchia.




Con l'attuale crisi economica e di valori, è stato normale per la monarchia assurgere all'alternativa più popolare, anche se la maggior parte del popolo ha dimenticato cos’è la Vera Monarchia. Questo ritorno al “monarchismo” si è verificato anche il Portogallo.

Tuttavia, anche in Portogallo come altrove in Europa, abbiamo notato che la maggior parte degli insoddisfatti della situazione attuale, non aderisce alla  causa Monarchica.

Anche in questo paese manca un unità monarchica Vera e sincera. Per esempio, alcuni sono a favore di Don Duarte, mentre altri lo vedono come un ostacolo per il suo atteggiamento; e non è difficile capire il "perché".
 
 
Tuttavia, nonostante il suo atteggiamento, Don Duarte può essere considerato un pretendente dalla mano forte. Questa sua "mano forte", però,  non gli garantisce obbligatoriamente un rispetto commisurato.
 
Essendo un discendente di Re Michele I, egli dovrebbe godere del rispettato dei Miguelistas. Come discendente da parte di madre di Pietro I del Brasile, egli dovrebbe avere il consenso dei liberali-costituzionalisti. Infine, dopo aver sposato una discendente di un repubblicano, coinvolto nel regicidio e membro della massoneria, egli dovrebbe godere anche del supporto dei repubblicani scontenti.
Risulta, infine, essere un pretendete "3 in 1", che vuole piacere a greci e troiani, non riuscendo, nonostante tutti i suoi sforzi, a far decollare la monarchia portoghese dalla sua stasi.
 
E’  decisamente arrivato il momento di dare un freno a questo atteggiamento e cambiare strategia! Mai la monarchia (quella Vera) verrà  ristabilita da un Referendum ed è bene dimenticare questo tipo di democrazia o  regime parlamentare.

L'alternativa in Portogallo, come altrove, inizia criticando i partiti politici attuali, i benefici per alcuni gruppi economici, difendendo la patria e la sovranità, nel rispetto della libertà, della proprietà privata, della giustizia e dei valori Cristiani.
Con la maggior parte dei bambini  portoghesi che non sanno chi è il padre e che vengono adottati da gay, la famiglia dovrebbe essere una bandiera da difendere.

La monarchia ha urgente bisogno di un programma politico ben strutturato che veicoli i portoghesi, senza però dire solo ciò che è più conveniente o “politicamente corretto”.
Allo stesso tempo, il pretendente non deve essere un "3 in 1", cercando goffamente di sanare la disunità monarchica.



Se l'idea di  Don Duarte è quella di essere un re liberale, cosa che lo farebbe decadere ipso-facto, non dovrebbe riferirsi a se stesso come un pretendere discendente da Michele I, lasciando ad un vero miguelista la direzione del movimento. Se  pensa che la monarchia sia la migliore garanzia di Repubblica,  poi deciderà di non essere più un monarchico per diventare un Nobile Repubblicano.
Fonte:
Carlos Almada Albuquerque In "A Bandeira Branca" em 16/06/2016.

sabato 25 giugno 2016

La dogana di Magenta



La dogana di Magenta (Milano), zona Pontevecchio, in Via Giacomo de Medici 3 che segnava il confine tra il Regno di Sardegna e il Regno Lombardo-Veneto (e tutto il resto dell'Impero Austriaco).

La zona in questione fu teatro della violenta Battaglia di Magenta durante la quale le truppe Imperiali (tra cui vi erano anche soldati di reggimenti come il 45° di fanteria reclutato nel veronese) si resero protagoniste di una strenua resistenza. Quando ormai le sorti della battaglia erano a favore delle truppe franco-piemontesi, i soldati imperiali decisero di barricarsi nelle case del paese e difesero palmo a palmo l' abitato (che purtroppo fu comunque perso e la conseguente sconfitta austriaca aprì la strada alle truppe attaccanti verso la capitale Milano).

Per celebrare l'eroica resistenza dei soldati dell'esercito austriaco la rivista di Lipsia Die Gartenlaube pubblicò l'immagine qui sopra proposta intitolata "Il soldato coraggioso" nella quale viene raffigurato un soldato austriaco alzare in alto una bandiera con l'Aquila a due teste dopo aver ferito due zuavi francesi, il tutto mentre alle sue spalle infuria la battaglia.

Fonte: Regno Lombardo Veneto / Königreich Lombardo Venetien
 

LE RIFORME DI GIUSEPPE II


(tratto da: Influenza degli Imperatori della Casa d'Austria nelle vicende d'Italia da Rodolfo d'Asburgo fino ai nostri giorni, Milano.
1838) Fonte: Regno Lombardo Veneto / Königreich Lombardo Venetien
 
 
 
Nota A.L.T.A.: Non siamo assolutamente "giuseppinisti", ne tantomeno assertori di una politica settaria.

La brevità dell'Impero di Giuseppe II non rispose alla vastità de' suoi disegni. Pure rimane di lui quanto basta per collocarlo tra i principi più illuminati, operosi e benemeriti.
[...]

Nato il 13 marzo 1741, eletto re de' Romani il 27 marzo 1764, fu da Maria Teresa, chiamato correggente degli Stati ereditari.
[...]
Rimasto poi solo al governo degli stati, cominciò ad incarnare i suoi disegni d'innovazione; volendo conoscere i suoi popoli, visitò senza fasto* l'Italia; ascoltò i desideri della Lombardia, che gli chiedeva prosperasse il commercio, regolasse le gabelle, concedesse cariche ai nazionali; diede origine alla Lombardia austriaca, incorporando, con un editto del 25 novembre 1784, il Ducato di Mantova a quello di Milano.
[...]
Di tutte le riforme di Giuseppe, erano principali quelle che avevano per iscopo la religione. Poichè uscivano quasi contemporanei gli editti in favore dei protestanti e degli ebrei, e la soppressione dei frati, tantochè al 1786 nella sola Lombardia erano stati aboliti trecento conventi d'uomini e duecentounidici di donne, restando illese le sole corporazioni che avevano per istituto l'esercizio della carità ospedaliera e la pubblica istruzione, subordinandole però all'esame ed all'autorità de' loro ordinari.
[...]
Ma le proteste di Pio VI non raffreddarono l'ardore di altre riforme, la più solenne delle quali fu di nominare ad arcivescovo di Milano Filippo Visconti, senza domandare il consenso alla Santa Sede. Pio VI con severo reclamo impose a Giuseppe II di ritrattare questa nomina, ma l'Imperatore rimandò quello scritto, come dettato in termini poco convenienti.
[...]
Dopo ciò, nel 1783 percorse l'Italia, sotto il nome di conte di Falkenstein, e inaspettatamente pervenne a Roma. In quest'occasione il Pontefice conferì all'Imperatore, come Duca di Milano e di Mantova, per lui e pe' i suoi successori, il diritto, fino allora riserbato alla corte di Roma, di nominare alle chiese cattedrali e metropolitane, alle abbadie, ai priorati, alle propositure, al generalato di tutti gli ordini, agli arcipreti delle chiese cattedrali e metropolitane, alle dignità primarie nelle collegiali di questi due ducati, fino a tanto però che essi rimanessero sotto la dominazione austriaca.
[...]
Nè le riforme di Giuseppe II si limitarono alla religione, ma il commercio e l'industria furono gli oggetti dei suoi provvedimenti. Seguitando il generoso esempio di sua madre, stabilì sopra solide leggi il potere amministrativo e giudiziario, abolì il diritto di primogenitura, la servitù feudale, per migliorare lo stato de' contadini; promulgò codici e statuti; introdusse unità di dazio, tolse gli ostacoli dell'interna circolazione delle merci, e concedette ad una italiana società di negozianti non solo esenzione di tutti i carichi, ma anche un premio per grani che esportavano dall'Ungheria. Proibì che gli accattoni questuassero, aprendo per essi a Milano le case di lavoro e di ricovero di S. Vincenzo e del Lazzaretto, ed un'altra ad Abbiategrasso dove gli indigenti trovano o asilo od onesta sorgente di guadagno; a Milano diede, coi proventi del lotto, pubblica illuminazione notturna; a tutta Lombardia, per la comune sanità, ordinò che i morti fossero sepolti in campo aperto; istituì cattedre per l'istruzione dei sacerdoti; propose nuovi splendidi provvedimenti all'università di Pavia.
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*le cronache dell'epoca riferiscono che le due visite a Milano di Giuseppe II avennero in modo piuttosto anonimo per volere dello stesso Imperatore.
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Sotto: ritratto di Giuseppe II posto all'interno del Castello Sforzesco a Milano

15 maggio-27 giugno 1916: 100 anni dalla "Strafexpedition"

Esiste un'occasione di liberazione mancata durante la Grande Guerra oltre a quella seguente i fatti di Kobarid (Caporetto) del 1917, ed è  la Südtiroloffensive (Offensiva del Sud Tirolo) o Frühjahrsoffensive (Offensiva di primavera). Gli "italiani" l'hanno ribattezzata "Strafexpedition" (Spedizione Punitiva), anche se non esistono documenti dell'Imperial Regio esercito riportanti tale denominazione. Detta dai "tricoloruti" anche "battaglia degli Altipiani", essa si svolse tra il 15 maggio ed il 27 giugno 1916.  

Ma andiamo a narrare la vicenda...


Franz Conrad von Hötzendorf
in una foto del 1915
Già da tempo il capo di stato maggiore dell'Imperial Regio esercito austriaco, generale Conrad von Hötzendorf, appoggiava l'idea di un'offensiva condotta a fondo nei confronti del meschino e falso ex-alleato colpendolo letalmente. Dal momento che l'ambiguo atteggiamento del governo italiano aveva già fatto presagire negli  anni precedenti un possibile voltafaccia, la frontiera era già stata esplorata ed erano già stati svolti studi, ancora teorici, sulla possibilità di una guerra preventiva.

All'alba del tradimento, il 24 maggio 1915,  l'esercito italiano iniziò i primi attacchi massicci d'artiglieria, e in seguito anche con la fanteria,  contro lo sbarramento costituito dalla fortezza sull'altopiano di Folgaria / Lavarone. In particolare, la sezione di Lavarone con i tre forti Lusern, Verle e Vezzena subì intensi tentativi di penetrazione da parte dei "tricoluruti" i quali vennero respinti dai pochi soldati K.u.K presenti nella zona.  L'avanzata italiana venne arrestata lasciando ai traditori solo piccole porzioni di territorio montano.

Anziché rafforzare questo settore del fronte e lasciare agli italiani la possibilità di infrangersi contro le difese a costo di perdite molto elevate, si ritenne opportuno scongiurare qualsiasi iniziativa agendo in contropiede. Rafforzati dalla vittoria contro i russi in Serbia, ed i successi di difesa sul Isonzo, la leadership militare Imperial Regia vide il momento per un colpo decisivo contro l'Italia.(1)

Un possibile successo di questa operazione sarebbe stato dato dalla situazione dell'esercito  italiano il  quel, in quel momento,  non poteva contare sull'assistenza degli Alleati in misura significativa e che non sarebbe stato in grado da solo di compensare l'attacco e le perdite inflitte. Inoltre, si venne a creare un alleggerimento nel fronte orientale il quale permise ad un buon numero di truppe Imperial Regie di essere trasferite sul fronte meridionale (italiano).

Erich von Falkenhayn
Inizialmente, il piano contro i traditori richiedeva l'appoggio tedesco, che è il motivo per cui il Capo di Stato Maggiore Franz Conrad von Hötzendorf nell'inverno 1915 presentò i suoi piani al Comando tedesco. Il Capo di Stato Maggiore tedesco Erich von Falkenhayn non prese in considerazione il piano perché era in preparazioni l'attacco a Verdun ed era perciò impossibilitato allo spostamento truppe. Si crearono delle tensioni tra i  due capi di stato maggiore. Solo il ritiro di alcuni reparti Imperial Regi dal fronte Orientale e da quello del Sud e la loro sostituzione con le truppe di riserva e  da unità bulgarie permise all'operazione di procedere. 

A metà febbraio del 1916 ebbe inizio la prima fase di progettazione e preparazione. Presso la sede del Comando dell'Esercito (AOK) a Cieszyn si attuò un piano di scambio per lo spostamento  di truppe da combattimento da est. Questo  interessò i reparti dell'esercito del fronte orientale, anche il 5 ° Army (l'Isonzo) e la posizione in Carinzia della 10 ° Armata. La gestione di tutta l'operazione era a carico del  comando del Fronte Sud a Marburg sotto il Generaloberst Arciduca Eugen. Per guidare l'attacco principale l'11 ° era  stato ricostruito sotto il comando del comandante di difesa del Tirolo, colonnello generale Dankl. La zona di attacco andava da Ortler al Lago di Garda, la facciata della Val Pusteria ed il fronte dolomitico rimasero sotto il comando dei comandi di difesa, la cui leadership venne assunta dall'ex comandante del  disciolto XIV. Corpo, generale di fanteria Roth.

I  Riservisti della 3° Armata  Balkan heranzuführende  (Generaloberst Kövess) era stata organizzata , e le ondate d'attacco erano state prestabilite. La prima ondata di attacco era così composta:  

Comandante della 11 ° Armata -
il generale von Dankl
III. Corpo (comandante generale di fanteria Krautwald di Annau) con il 22 Landwehr divisione di fanteria [2] e il 6 ° e il 28 ° fanteria Divisione InfRgt n ° 96 -. InfRgt n ° 87 -. InfRgt numero 47 -. LdwInfRgt # 37. - Feldjäger Baon No. 7 -. Feldjäger Baon No. 22 -. Feldjäger Baon n ° 24 -. Feldjäger Baon no. 11 - KK LandesschtzRgt No. Io -. K.K. LandesschtzRgt n ° II -. K.K. LandesschtzRgt No. III - .. bosniaco-Hercegowinisches InfRgt No. 2 (totale 39 battaglioni di fanteria). VIII Corps (tenente comandante di Scheuchenstuel) con il 57 ° e 59 ° divisione di fanteria truppe InfRgt n ° 92 -. InfRgt n ° 93 -. InfRgt n ° 90 -. InfRgt n ° 52 -. InfRgt Nr 48 -. Bosniaco-Hercegowinisches InfRgt No. 1 -. bosniaco-Hercegowinisches InfRgt # 3 (totale 20 battaglioni di fanteria)XX. Corpo (comandante tenente arciduca Karl Erede) con il 3 ° e 8 ° divisione di fanteria Kaiserjäger Regiment n ° 1 -. Kaiserjäger Regiment n ° 2 -. Kaiserjäger Regiment n ° 3 -. Kaiserjäger Regiment n ° 4 -. InfRgt No. 21 - .. InfRgt # 7 - InfRgt No. 14 -. InfRgt No. 50 - .. InfRgt # 59 (totale 32 battaglioni di fanteria)XVII. Corpo (comandante generale di fanteria Křitek), con le truppe di fanteria della Divisione 18 ° e 48 °, e la 181 ° Brigata di Fanteria (totale 26 battaglioni di fanteria)

Comandante della 3 ° Armata ,
il colonnello generale Hermann Kövess
(Il XVII. Corpo originariamente non apparteneva al 1 °  armata, ma alla 3 ° Armata e quindi alle associazioni nachstoßenden. La 3 ° armata si impegnò negli attacchi durante i combattimenti fino al 20 maggio) Tuttavia, il 18 ITD era (reggimento di fanteria . 73 e Landwehr Reggimento Fanteria Nr. 3) anticipatamente utilizzato in Valsugana e il 48. ITD coinvolti in operazioni offensive sulla fascia destra.)

I contingenti totali sono stati (nel secondo incontro) 14 divisioni di fanteria e 64 batterie di artiglieria in parte di calibro più pesante. (Lo spostamento costante delle singole unità in questa battaglia è stato ammorbidito in breve tempo e già non corrispondeva al principio dopo alcuni giorni dall'inizio dell'attacco).

L'operazione è stata effettuata con grande precisione e sotto (come doveva) la massima segretezza possibile. Riuscirono  a mantenere i dettagli dell'attacco segreti nonostante l'operato dei servizi segreti ostili.  Il comando del fronte Sud fu costretto ad operare in silenzio, spiegando i movimenti di truppe con una nuova offensiva contro la Russia. Solo alla fine di marzo i comandanti dell'esercito appresero delle intenzioni dello Stato Maggiore. L'artiglieria pesante fu  trasportata nelle aree di applicazione con il pretesto di rafforzare la Fortezza di Trento mascherando  il trasferimento di personale di Marburg a Bolzano come trasferimento a Lubiana.

Treno blindato K.u.K

L'ingresso dei treni di trasporto truppe e rifornimenti nella Valle dell'Adige vide un sovraccarico delle ferrovie derivante dalle deviazioni tattiche.  I treni provenienti dalla Polonia, Galizia, sud della Serbia e Montenegro passarono per Trieste, poi per l'Isonzo da Krain, Stiria, Carinzia, per poi allontanarsi da Spittal fino alla Fortezza. Altri treni passarono dalla Slovacchia e dall'Austria Superiore, su Schwarzach-St. Veit, Wörgl e Innsbruck passando il Brennero. Il trasporto dei treni in arrivo dal fronte orientale passo da Bolzano, Matarello, Calliano e Rovereto nella Valle dell'Adige, e da Pergine, Caldonazzo e Levico in Valsugana. Qui si stanziarono le truppe a causa della ristrettezza del fronte d'azione poco prima della data di attacco alle valli più alte. [3]

Il generale Luigi Capello
La marcia verso le zone di raccolta truppe venne effettuata dalla valle dell'Adige a Serrada, su Folgaria e Vattaro sull'altopiano di Lavarone, mentre le organizzazioni della Val Sugana solo sulla strada per Monte Rover e un percorso attraverso la Valle Pisciavacca. Tutto questo è stato fatto con la speranza di non attirare l'attenzione degli avversari. Fino a che punto questo è stato realizzato, non si è sicuri; in particolare alcuni disertore austriaci (secondo il Generale Capello, come   ha citato nelle sue memorie "Note di Guerra" pubblicate nel 1927, erano almeno quattro, tra cui un capomastro che era stato proposto come ingegnere) hanno portato informazioni al nemico.

Dopo che il Commando Supremo italiano era stato informato della  situazione generale con la minaccia alle spalle  delle forze poste sull'Isonzo, cominciò a creare un piano  in caso di un offensiva Imperiale in primavera da nord il 28 Gennaio 1916. [4] L'esercito italiano sul fronte altoatesino cominciò subito a richiedere rinforzi al capo di stato maggiore Cadorna a Udine. Tuttavia, Cadorna rifiutò qualsiasi tipo di movimenti di truppe, mentre considerava le azione dell'alto comando dell' K.u.K.   semplicemente come uno stratagemma. Ciò nonostante, ordinò un ulteriore espansione delle linee di difesa e diede il permesso di raddrizzarne la parte anteriore. Le posizioni esposte furono
abbandonate.

Le difese italiane e le loro  posizioni d'attacco furono considerate quasi impenetrabile dagli stessi italiani. Vennero considerate anche  le fortificazioni di accompagnamento quali quelle di Forte Monte Verena, Forte Campolongo e (anche se non ancora finito) Forte Campomolon nella prima linea, il Forte Monte Enna, Forte Monte Maso e Forte Casa Ratti nella seconda e terza linea. Dalla metà di marzo, i tricoloruti stavano cercando di interferire con le operazioni locali ed i preparativi di attacco austriaci. Le attività maggiori vennero impedite dall'inverno eccezionalmente nevoso. Il piano generale consisteva in una operazione offensiva del V. (IT) Corpo in Val d'Adige, finalizzando la sua spinta su Rovereto e Vattaro su Caldonazzo, mentre il III. (It.) Corpo su entrambi i lati del lago di Garda combattendo sulle posizioni di Riva dovendo  penetrare alle Giudicarie. Questo lanciò il 7 e 8 aprile delle operazioni fallite nello stesso giorno. Allo stesso tempo, anche i preparativi per far saltare in aria il Col di Lana era in procinto di essere ultimate. Sempre a partire da marzo, il comando dell'esercito italiano decise di dare il via ad ampie attività operative  il 22 marzo. Al Fronte del Tirolo furono assegnati ampi rinforzi e il V. (esso) Corpo nella zona della Val Sugana ricevette gli ordini dettagliati per attaccare. Qui, a partire dall'inizio di aprile, ebbe inizio il movimento della 15 ° (IT) divisione di fanteria, con attacchi contro le posizioni Imperiali nel campo di S. Osvaldo - Monte Broi. Per respingere questi attacchi, il comando K.u.K.  dispiegò la 3 ° truppe e la 18 ° divisione di fanteria, anche se questo era in origine da evitare. Dalla violenza dei combattimenti in questa sezione, il generale Cadorna, dopo la sua visita personale in questa porzione,   aveva annunciato che la spinta principale dell'attacco austriaco sarebbe stata probabilmente da aspettarsi li.


Secondo i piani originari le aree di raggruppamento e gli obiettivi della 11 ° armata erano  stati distribuiti come segue:

Ala destra:

. VIII Corpo dall'area di gestione temporanea di Rovereto - Moietto - Monte Finochio con la direzione di attacco Vallarsa (Brandtal) sul Monte Zugna (1772 m), il Col Santo (2112 m), Borcola Pass (Passo della Borcola 1207 m) e il Passo Pian delle Fugazze. L'estensione della spinta con una manovra a tenaglia che conduce a sinistra a Thiene è stata presa in considerazione da una divisione aggiuntiva (il 48 ° ITD dal XVII. Corps).

Messa da campo dei Kaiserjäger presso Castellano nel 1915
Al centro:

XX. Corpo nel centro della regione Lavarone (Chiesa - Lusern) con la direzione principale di attacco sull'altopiano delle Sette Chiese e della Val d'Astico a Arsiero e Thiene.
III. Corpo resta nel campo Lusern - Passo di Vezzena - Pizzo di Levico con direzione principale di attacco sul Monte Kempel e Monte Cima de Portule passando per la Val d'Assa verso Asiago.


Ala Sinistra:

XVII. Corpo con 18 ITD Borgo (Valsugana) - Castelnuoveo e Scurelle dalla Valsugana a sud verso il Passo Grigno e Primolano.

Il comando austriaco aveva avuto nuove intuizioni per quanto riguarda la distribuzione dei movimenti di truppa, arrivando alla conclusione che in Vallarsa  si poteva avere la minima resistenza. [5] Per questo motivo, li venne impegnato maggiormente l'VIII. Corpo composto da  41 battaglioni di fanteria, prossimante operativo il XX . Corpo che possedeva in ultima analisi circa 32 battaglioni di fanteria. Il III. Corpo avrebbe dovuto inizialmente restare nella posizione iniziale e solo dopo aver raggiunto il Monte Toraro (1817m) e la punta Tonezza (1496 m) attraverso il XX.  coinvolgere complemento dalla cima del Passo Vezzena  e la cresta di Cima Mandriolo (2049 m) con la sua Artiglieria per poi avanzare attraverso la Val d'Assa più a sud. In funzione dell'evoluzione della situazione, impiegando già in Val Sugana il 18 ITD 3 ° Armata avrebbe dovuto continuare ad attaccare o risalire di quota.


Asiago colpita dall'artiglieria
Nella notte tra il 14 e il 15 maggio 1916 l'artiglieria austriaca cominciò un bombardamento preparativo  sulle linee nemiche, che di fatto colse impreparati molti comandi locali. L'artiglieria italiana, meno della metà di quella austriaca e relativamente inferiore nella potenza, non reagì, avendo ricevuto in molte zone l'ordine di non fare nulla a meno di contrordini diretti da parte del Comando Supremo — ordini che non arrivarono mai, poiché molti degli ufficiali si trovavano in brevi periodi di vacanza in preparazione della seguente offensiva sul Carso.

Le fanterie italiane, pressate e di fatto private delle proprie difese dai grossi calibri avversari, non arretrarono principalmente per mancanza di una diretta coordinazione che rendesse il ripiegamento organico: si ritrovarono nel caos. Ciò, effettivamente, non consentì il rafforzamento di quelle seconde e terze linee che si sarebbero poi piegate all'avanzata Imperiale. Le prime fasi dell'attacco austriaco , dunque, non potevano che essere coronate dal successo: l'Undicesima e la Terza Armata Imperial Regie attaccarono su un fronte lungo 70 km, concentrando il proprio attacco lungo le grandi valli di sbocco al Veneto.

In Valsugana gli italiani furono respinti dal XVII Corpo d'armata Imperial Regio fino a Ospedaletto, che divenne una città fortificata e dove il fronte si stabilizzò dopo diversi giorni. Dalla Val Lagarina l'VIII Corpo d'armata dilagò prendendo le posizioni della Zugna Torta, Pozzacchio e Col Santo, ma la resistenza italiana riuscì a reggere sul Coni Zugna, sul Pasubio e sul Passo Buole (dai 10 ai 15 km più indietro); quest'ultimo passò alla storia tricoloruta, piena di leggende e esagerazioni, come Termopili d'Italia. La XXXV Divisione italiana fu una delle più colpite dall'attacco Imperiale: pur controllando solo 6 km di fronte, si abbatté sui suoi uomini il fuoco di più di 300 pezzi (di cui un'ottantina di medio calibro e una trentina di grosso calibro), seguite dal poderoso attacco del XX Corpo d'armata Imperiale dell'Arciduca Carlo.

Il generale Luigi Cadorna
La notizia delle vittorie Imperiali seminò panico tra gli alti comandi italiani, e Cadorna ordinò la mobilitazione delle ultime leve, assieme alla creazione di una 5ª Armata che si disponesse tra Vicenza e Treviso al comando del generale Frugoni. Per rafforzare il malconcio esercito italiano vennero rastrellati poveri ragazzi da tutta la penisola; furono coinvolti anche 120 battaglioni già impegnati sull'intero fronte isontino, i quali vennero stranamente spostati senza grossi disordini per l'intero Veneto settentrionale. Vennero allestite sette divisioni di riserva, di cui una composta di uomini rimpatriati in tutta fretta dall'Albania e dalla Libia. Cadorna, nel frattempo, corse a richiede aiuto agli alleati russi, impegnati sul fronte in Galizia, affinché lanciassero un'offensiva di larga scala così da costringere gli imperiali a spostare il grosso delle truppe interrompendo o arrestando l'offensiva.

L'altopiano di Asiago divenne teatro di apri combattimenti, poiché mancava di appoggio sulla destra, vista l'evacuazione verso Ospedaletto. Su 5 km di fronte aprirono il fuoco più di duecento pezzi d'artiglieria, di cui venti di grosso calibro. Il III Corpo austriaco sorpassò le difese italiane liberando  Arsiero, zona più avanzata di conquista, e Asiago tra il 27 e il 28 maggio; la resistenza, ridotta all'orlo meridionale della conca di Asiago, non riuscì a impedire la liberazione di Gallio, prospettando agli imperiali uno sbocco sull'alta pianura vicentina. Il forte Corbin, pur non essendo operativo (la presenza di cannoni era solo simulata), venne fatto saltare per non lasciare la struttura in mani avversarie.

Intanto, sul Fronte Orientale i russi fecero sapere agli alleati che presto sarebbe partita una violenta offensiva dando la possibilità ai mal ridotti italiani  di ordinare la controffensiva, cosa che avvenne il 2 giugno: la 1ª Armata di Pecori Giraldi sarebbe avanzata nell'altopiano d'Asiago, dove le linee di rifornimento imperiali non raggiungevano più le prime linee proprio a causa della formidabile avanzata delle due settimane precedenti. Il disegno di Cadorna era quello di aprire il fronte al centro, sugli altipiani, e aggirare le forti compagini laterali in Valsugana e Val Lagarina. Gli imperiali tennero saldamente, anche grazie alla pessima organizzazione dell'esercito italiano carente di artiglieria. 


Arciduca d'Asburgo-Teschen
Il 4 giugno dalla Russia partì un'offensiva su larga scala che sovrastò le sguarnite linee austro-ungariche, prive di qualunque rimpiazzo da parte tedesca. Il rapido e precoce ripiegamento delle linee imperiali  richiese l'appoggio e l'intervento di notevoli rinforzi, che potevano confluire solo dal Tirolo. Così l'avanzata imperiale venne interrotta a causa dello spostamento truppe e gli italiani poterono riguadagnare delle posizioni. Il 15 giugno Hötzendorf ordinò il ripiegamento su basi prestabilite e già pronte.

Approfittando di un rallentamento della elemosinata avanzata italiana, attardata dalla mancata copertura di artiglierie da montagna, il 25 l'arciduca Eugenio dalla sede di Campo Gallina ordinò la rottura del contatto, attestandosi sulla linea: Zugna, monte Pasubio, monte Majo, val Posina, monte Cimone, val d'Astico, val d'Assa fino a Roana, monte Mosciagh, Monte Zebio, monte Colombara e Ortigara. Gran parte delle nuove linee – tranne rare eccezioni – erano a una manciata di chilometri davanti a quelle prima della battaglia. Il 27, Pecori Giraldi, in difficoltà interruppe qualunque azione controffensiva, essendo evidente il bisogno di un riordinamento operativo e organizzativo delle linee italiane.

Attacco e avanzata durante la Frühjahrsoffensive
Così, una opportunità di liberazione per i popoli Lombardo-Veneti dal giogo unitarista si arrestò e sul campo di battaglia rimasero uccisi circa 230.545 uomini tra ambo le parti. Gli "italiani" sottovalutano il fatto che, se non fosse stato per l'offensiva russa, il tracollo vistosi a Kobarid nel 1917 si sarebbe verificato con più di un anno d'anticipo e, probabilmente, con esiti assai migliori per l'Impero e per i popoli che sarebbero stati liberati dal malgoverno "italiano".






Riferimenti:

1- Österreich-Ungarns letzter Krieg. Band IV, S. 198
2- ab 1917: Landesschützendivision
3- E. Wißhaupt: Die Tiroler Kaiserjäger im Weltkrieg 1914–1918. Band II, S. 152 ff.
4- Österreich-Ungarns letzter Krieg Band IV S. 198
5- Österreich-Ungarns letzter Krieg Band IV S. 227


Di Redazione A.L.T.A.

La Massoneria contro il BREXIT

-di Davide Consonni- Fonte: http://www.radiospada.org/
 
Solo un Gran Maestro d’Europa ha commentato la vittoria del BREXIT, tutti gli altri vicari della massoneria han glissato beatamente. Tal Gran Maestro, francese per la verità, che invece s’è concesso ai microfoni, l’ha sparata piuttosto ovvia. Ha semplicemente detto che la vittoria del BREXIT è sostanzialmente una sconfitta per l’Europa, dicendosi preoccupato per la divisione che tali referendum provocano nella nazione. Qui di seguito è possibile leggere appunto la dichiarazione di Daniel Keller, Gran Maestro di origini israelite del Grande Oriente di Francia:
«Quelle que soit son issue, ce scrutin fera apparaître un pays divisé, ce qui est très préoccupant. C’est malheureusement un référendum idéologique, sur le choix d’une souveraineté qui méconnaît la nécessité de l’intégration de nos économies. C’est aussi une conséquence du manque de construction politique de l’Union Européenne.»
“Qualunque sia l’esito, questa elezione porterà ad un paese diviso, il che è molto preoccupante. Questo è, purtroppo, un referendum ideologico basato sulla scelta di una sovranità che ignora la necessità di integrare le nostre economie. E ‘anche una conseguenza della mancanza di costruzione politica dell’Unione Europea
 
Fonte

venerdì 24 giugno 2016

"Venezia Asburgica vitale e moderna".

Fonte: Vota Franz Josef

Divampano le discussioni su varie pagine FB, i tricoloruti sono alleati a certi indipendentisti veneti ma a noi fanno entrambi un baffo... abbiamo letto troppi documenti originali ed articoli dell'epoca, anche pubblicati in questa Pagina, per avere mai avuto dubbi che la "Venezia miserabile sfruttata dagli stranieri" era solo una montatura risorgimentale. La frangia nazionalista dell'indipendentismo veneto deve ora entrare in contraddizione con sè stessa: la letteratura del risorgimento è tutta da buttare oppure sono da buttare solo le pagine che fanno loro comodo?

Il tempo sarà galantuomo come sempre, la verità storica emergerà e cancellerà tutte le strumentalizzazioni politiche della Storia.

giovedì 23 giugno 2016

LO STORICO MARIO AGNOLI SU VENETI E NAPOLETANI

Mario Agnoli nel libro “Unità divisa”

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«Potrebbe sembrare più ragionevole… il ritorno agli Stati preunitari. Ma … 150 anni di unità, di avvenimenti, di propaganda a senso unico non sono passati invano, sicché non è azzardato concludere che oggi solo la nazione veneta e la nazione napoletana … si trovino ancora nelle condizioni indispensabili per reperire nella loro storia, … nel permanere di una diffusa forte adesione sentimentale e volontaristica alla propria identità culturale, la forza per una vitale e proficua esistenza autonoma, al di fuori della cornice di un più ampio quadro nazionale, per superare i confini delle piccole heimat, preziose e irrinunciabili ma inadeguate, se lasciate a se stesse, alle esigenze degli attuali assetti continentali e mondiali».




Fonte: https://venetostoria.com/

martedì 21 giugno 2016

150 anni di camorra, Liborio Romano neo ministro italiano, a Napoli assume i camorristi come poliziotti.

 
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Presente in Campania da tempo immemorabile, è proprio nel 1860 – durante lo spodestamento di Francesco II di Borbone e l’arrivo a Napoli di Garibaldi – che la Camorra fa il salto di qualità e diventa uno degli innegabili protagonisti delRisorgimentopartenopeo.
Fu infatti l’allora Ministro dell’Interno del Regno d’Italia, il carbonaro mazziniano Liborio Romano, che, per sbarazzarsi dei poliziotti di Napoli – rimasti fedeli alla vecchia monarchia borbonica – decise di sostituirli direttamente con i suoi guappi… Questa storia incredibile ma vera è raccontata da Giuseppe Buttà nel suo “UN VIAGGIO DA BOCCADIFALCO GAETAmemorie della rivoluzione dal 1860 al 1861” (9).
A questo punto si rende opportuno un ragguaglio su Liborio Romano: Padre Buttà lo definisce a ragione, oltre che mazziniano, anche massone. La prova certa della sua appartenenza è riportata nello studio di Luigi Polo Friz “LA MASSONERIA ITALIANA NELDECENNIO POSTUNITARIO”Ludovico Frapolli ed. (10).bella-società-riformata
A pag. 137 del volume troviamo il seguente riferimento: “Nel 1867 morì Liborio, Ministro dell’Interno e della Polizia generale nell’ultimo governo borbonico. Su di lui esiste una non trascurabile letteratura. Amico di due grandi patrioti, Libertini e Stasi, della loggia Mario Pagano, «divise con loro l’amore per i valori liberal-democratici». Il Bollettino dedicò a Romano due pagine.(11) L’Umanitario gli concesse uno spazio assai più modesto, sebbene il necrologio fosse dovuto: nell’agosto del ’66 lo scomparso era stato nominato «Presidente interino della Sezione Concistoriale all’Oriente di Napoli» ed aveva ringraziato con entusiasmo sia Dominici che Bozzoni”.L’edizione utilizzata dell’opera di Buttà è quella Bompiani del 1985, prefata da Leonardo Sciascia (il brano in questione si trova alle pagine 117-122).
Ecco cosa scrive lo storico siciliano: “In Napoli è la setta così chiamata de’ camorristi; e per quelli che non la conoscono è necessario che ne abbiano un’idea; imperocché di questa setta se ne servirono i liberali per far popolo, rumore, dimostrazioni e detronizzare Re Francesco II di Borbone.
La setta de’ camorristi è molto antica in Napoli; ma alcuni sostengono che sia comparsa con la dominazione spagnuola. Difatti l’origine del nome Camorrista è da Camorra, che in ispagnuolo vuol dire querela. Altri poi dicono che Camorrista viene da Morra ch’è un giuoco ove si commettono soprusi e giunterie. Ed invero i camorristi traggono de’ guadagni sopra i giuochi leciti ed illeciti. Camorrista in Napoli suona ladro, giuntatore, galeotto, accoltellatore, usuraio guappo o sia spacconaccio. La gente onesta teme i camorristi, non li accusa alle autorità, e per lo più si sottomette alle loro giunterie, per non essere accoltellata da coloro che restano in libertà.(…)
Tutte le dominazioni, che si sono succedute, hanno accusate le precedenti, perché non hanno distrutto la setta dei camorristi, e poi esse medesime han finito per tollerarla, e qualche volta se l’han fatta alleata.
Proclamata la Costituzione, il Ministero liberale fece Prefetto di Polizia Don Liborio Romano, nativo delle Puglie. Era costui un avvocatuccio infelice, o come suol dirsi, avvocato storcileggi: fu carbonaro, massone, mazziniano, e nel 1850 fu messo in carcere, ed in ultimo esiliato. Il 22 aprile del 1854, Don Liborio mandò da Parigi, ove si trovava allora, un’umile supplica al Re Ferdinando II, nella quale protestava: «Devozione e attaccamento alla sacra persona del Re: e se mai l’avesse offesa inconsapevolmente, prometteva in avvenire una condotta irreprensibile ». Re Ferdinando lo fece tornare nel Regno.
lazzaroneD. Liborio Romano, divenuto prefetto di polizia liberale, si circondò di tutta la Camorra napoletana, ed altra ne fece venire poi dal Regno, e dal resto d’Italia. Di alcuni di quei camorristi non so che novelli poliziotti ne abbia fatto; ad altri diede l’onorevole mandato di far la spia alla gente onesta, designata sotto il nome di borbonica, altri infine, ed erano i più facinorosi, destinò a soffiare nel fuoco della rivoluzione, in mezzo al popolaccio napoletano. Le prime prodezze dei camorristi – sempre diretti da D. Liborio, prefetto di polizia – furono gli assalti dati agli ufficii della vecchia polizia, essendo stata questa troppo curiosa di conoscere i fatti della gente poco onesta, e come intorbidatrice della pace de’ camorristi e de’ settari.
A dì 27 e 28 giugno, dopo tre giorni che si era proclamata la Costituzione, vi furono due assembramenti di camorristi, di lenoni, di monelli e di cattive donne, tra le altre la De Crescenzo e la celebre ostessa detta la Sangiovannara: tutti pieni di fasce e nastri tricolori, con pistole e coltelli, gridavano libertà ed indipendenza, a chi non gridasse in quel modo parolacce e busse.
Il 27 assalirono i due Commissariati di polizia, quello dell’Avvocata e l’altro di Montecalvario. Un certo Mele, capo di quelle masnade, che giravano in armi in cerca della vecchia polizia, ferì a Toledo l’ispettore Perrelli. Costui fu messo in una carrozzella per essere condotto all’ospedale: potea vivere, ma il Mele lo finì nella stessa carrozzella a colpi di pugnale. In compenso di quella prodezza, il Mele fu ispettore di polizia sotto la Dittatura di Garibaldi. Giustizia di Dio…! L’anno appresso il Mele fu accoltellato da un certo Reale, altrimenti dettobello guaglione; svenne, fu messo pure in carrozzella, ma prima di giungere all’ospedale morì.
celebrato come Eroe della Patria
celebrato come Eroe della Patria

Il prefetto Don Liborio, vedendo che tutto potea osare impunemente, il 28 riunì un grande assembramento di que’ suoi accoliti, e loro impose di assaltare gli altri Commissariati della vecchia polizia.
Le scene ributtanti e i baccanali di questa seconda giornata oltrepassarono di gran lunga quelli operati nella precedente. Quella accozzaglia assalì i Commissariati al grido di muora la polizia! Viva Carlibardi! – così alteravasene il nome dalla plebaglia – La truppa, che tutto vedeva e sentiva, fremea di rabbia, ed era obbligata da’ suoi duci a starsene spettatrice indifferente.
Gli assalitori de’ Commissariati gittarono da’ balconi tutte le carte, il mobilio, le porte interne, e ne fecero un falò in mezzo alla strada. Un povero poliziotto del Commissariato di S. Lorenzo si era occultato in un credenzone, e così, com’era, fu gittato da un balcone in mezzo alla strada. Intorno a quel falò si ballava, si bestemmiava, si cantavano canzoni le più oscene.
Il solo Commissariato della Stella non fu invaso e distrutto per quella giornata, perché i vecchi poliziotti di guardia si atteggiarono a risoluta difesa, e tennero lontani i camorristi e compagnia bella. Ma que’ difensori del Commissariato, vedendo che il Governo volea la loro distruzione, la sera abbandonarono il posto, che fu l’ultimo a essere distrutto.
Dopo che i camorristi fecero quelle prodezze, andavano attorno con piatti nelle mani a domandare l’obolo per la buona opera che avevano fatta. E i liberali, trovarono giustissimo quanto aveano operato i camorristi; poiché secondo la loro logica, la Costituzione proclamata importava uccidere i cittadini, che aveano servito l’ordine pubblico ed il Re.
Sarebbero state sufficienti queste prime scene inqualificabili, perpetrate da’ camorristi, capitanati da D. Liborio, prefetto di polizia liberale, per far conoscere anche agli sciocchi, e principalmente a chi potea e dovea salvare la Dinastia e il Regno, che la proclamata Costituzione serviva come mezzo sicurissimo per abbattere Re e trono. Ma si proseguì sulla medesima via de’ cominciati disordini, i quali si accrescevano giorno per giorno, ora per ora con selvaggia energia, ed a nulla si dava riparo. Ciò dimostra la tristizia e l’infamia degli uomini che allora aveano afferrato il potere, e la dabbenaggine di coloro che si dicevano, ed erano realmente, pel Re e per l’autonomia del Regno. (…)
la camorra mobilita le proprie famiglie e i quartieri per festeggiare l'annessione
la camorra mobilita le proprie famiglie e i quartieri per festeggiare l’annessione
Il ministro della guerra, Leopoldo del Re, devoto e fedele al Sovrano, in vista dell’anarchia sempre crescente a causa de’ camorristi, diretti e sostenuti da D. Liborio, prefetto di polizia liberale, tolse dal comando della Piazza il generale Polizzy, il quale non avea fatto impedire da’ soldati quei baccanali e quegli eccessi perpetrati da’ camorristi, e dal resto della brunzaglia napoletana. In cambio nominò il duca S. Vito, il quale proclamò lo stato d’assedio. Si proibì ogni assembramento maggiore di dieci persone, e la esportazione d’armi e di grossi bastoni. S. Vito uomo risoluto, a norma dell’Ordinanze di Piazza, volea procedere al disarmo.
D. Liborio però si oppose energicamente, conciosiaché disarmando i camorristi, egli, prefetto di polizia liberale, rimaneva senza armata e senza prestigio; e, sostenuto come era dalla setta e dai traditori che circondavano il Re, la vinse; ed i camorristi rimasero padroni di Napoli, cioè erano essi la sola autorità dominante.
Non contento ancora di avere a sé i camorristi, D.Liborio volle pure che i medesimi fossero riconosciuti e pagati dal Governo; di fatti ottenne un decreto, in data del 7 luglio, col quale si aboliva l’antica polizia, e se ne creava una nuova di camorristi, con nuove uniforme e nuovi principii, già s’intende.

Fu uno spettacolo buffonesco quando si videro in Napoli i camorristi dalla giacca di velluto, vestiti da birri, o sia da guardie di pubblica sicurezza, e i loro caporioni da Ispettori. Quei custodi dell’ordine pubblico faceano paura agli stessi liberali, e molti di costoro si dolsero con D. Liborio; il quale rispose di aver fatto benissimo; dappoiché i camorristi doveano essere compensati e protetti a preferenza, per grande ragione de’ servizii che aveano resi, e di quelli che doveano rendere ancora: diversamente, si sarebbero messi dal lato dei reazionari. Disse pure, ch’egli si augurava di fare di loro tanti onesti impiegati governativi; essi, che fino allora erano stati negletti e perseguitati (!); e che era suo divisamento cavare l’ordine dal disordine. (12) – Queste massime antipolitiche e antisociali, specialmente pel modo come l’applicava D. Liborio, erano imitate dallo stesso Ministero negli altri rami amministrativi, cacciando via gli impiegati antichi ed onesti, e surrogandoli con gente o ignorante, o dubbia o disonesta”.